giovedì 24 dicembre 2009

Diminuiscono le famiglie finanziariamente vulnerabili


di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

martedì 22 dicembre 2009


«Quella che è stata definita come "grande recessione" sembra esser terminata nel terzo trimestre del 2009». E' quanto afferma la Commissione Europea che lunedì scorso ha pubblicato il rapporto trimestrale sull'Eurozona. Da Bruxelles, tuttavia, avvertono che «le prospettive restano incerte in quanto sostenute dal massiccio sostegno fornito dai governi e dalle banche centrali, che alla fine dovrà esser ritirato, mentre dipenderà dal settore bancario aumentare i livelli presenti di prestiti all'economia». Inoltre, sottolinea ancora la Commissione, «il protrarsi, sia pure in modo moderato, dell'aumento nella disoccupazione è fonte di preoccupazione sia sotto il profilo sociale, sia economico».

Da Bruxelles spiegano che «uno dei principali motivi di preoccupazione è il deterioramento del mercato del lavoro». La Commissione ricorda in proposito che «l'occupazione nell'eurozona ha continuato a contrarsi al ritmo dello 0,5% trimestre su trimestre, e la disoccupazione è aumentata al 9,6% della forza lavoro». D'altro canto si aggiunge però che «in confronto alle dimensione del calo economico e nonostante le differenze tra i paesi, l'incremento della disoccupazione è stata minore di quanto temuto». Questo «grazie alle misure attuate per mitigare l'impatto della crisi sui posti di lavoro, in particolare con soluzioni di lavoro flessibile, programmi di lavoro ridotto e chiusure temporanee».

Nel complesso, la Commissione ricorda che «nel terzo trimestre l'economia (dell'eurozona) è cresciuta dello 0,4% rispetto al trimestre precedente, indicando la fine della recessione dopo cinque trimestri negativi consecutivi». Tuttavia, sottolinea ancora la Commissione, «per il 2009 nel suo complesso il pil dovrebbe essersi contratto del 4%, secondo le previsioni d'autunno, il maggior calo dal dalla seconda guerra mondiale».

Insomma, forse non siamo ancora fuori dal tunnel, ed è bene quindi non abbassare la guardia, ma certo la situazione sembra essere in continuo miglioramento. Ad esempio, per quanto rigurada il nostro Paese, l'edizione 2009 del Genworth Index sulla vulnerabilità dei consumatori (creato da un team di esperti del settore e studiosi dell'European Credit Research Institute e del Personal Finance Research Centre dell'Università di Bristol), della Genworth Financial, società internazionale attiva nell'ambito assicurativo facente parte del Fortune 500 del 2008 - (lista annuale compilata e pubblicata dalla rivista Fortune che classifica le 500 maggiori imprese societarie misurate sulla base del loro fatturato), ha evidenziato che l'Italia è al quinto posto per la vulnerabilità finanziaria dei consumatori in Europa. Occupava il primo posto nel 2007 ed il secondo nel 2008.

Sebbene il nostro Paese resti sbilanciato verso la vulnerabilità finanziaria relativa, il suo punteggio di vulnerabilità finanziaria si è assestato sugli stessi livelli del 2007, dato il calo di 18 punti rispetto al 2008 e raggiungendo quota 40. In Italia, la percentuale di famiglie finanziariamente vulnerabili è passata dal 38% del 2008 al 25% del 2009, portando l'Italia in linea con la media generale. Tuttavia non si è rilevato alcun cambiamento significativo nella percentuale di famiglie che godono di sicurezza finanziaria (4%), una percentuale nettamente inferiore alla media europea (7%). Nel 2009 le famiglie italiane hanno beneficiato di un generale miglioramento nella frequenza con cui affrontano le loro difficoltà finanziarie.

La percentuale di famiglie che non hanno avuto mai o quasi mai difficoltà finanziarie è cresciuta dal 29% al 37% e l'indice mostra inoltre uno spostamento generale delle famiglie dal segmento dei pessimisti circa la propria situazione futura al segmento di chi si aspetta che la propria condizione economica rimanga invariata. Valeria Picconi, Managing Director di Genworth Financial per i business Lifestyle Protection e Mortgage Insurance in Italia, ha affermato che «è curioso vedere come in qualche parte d'Europa si è registrata una diminuzione delle difficoltà finanziarie nonostante l'aumento dei tassi di disoccupazione. Ciò fa pensare che alcune delle misure adottate dai governi potrebbero aver avuto un impatto positivo sul benessere finanziario dei consumatori».

venerdì 18 dicembre 2009

Intervista all'onorevole Moffa su welfare e Finanziaria 2010



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

mercoledì 16 dicembre 2009

Silvano Moffa è nato a Roma il 21 aprile 1951. Da Giornalista ha ricoperto la carica di Vice Direttore a Il Secolo d'Italia. E' stato Sottosegretario al Ministero per le Infrastrutture e i Trasporti con delega alle Aree Urbane e Roma capitale e Presidente della Provincia di Roma dal dicembre 1998 al giugno 2004. Nella Legislatura in corso ricopre la prestigiosa carica di Presidente della Commissione Lavoro Pubblico e Privato di Montecitorio ed è stato il relatore della Finanziaria 2010 nella citata Commissione.

Presidente Moffa, quali sono le principali disposizioni della Finanziaria 2010 in materia di lavoro pubblico e privato?

La finanziaria approvata dal Senato già conteneva diverse disposizioni interessanti, in particolare in materia di disciplina contabile in materia previdenziale, contribuzione e trattamenti pensionistici per gli operai agricoli, rinnovi contrattuali nel pubblico impiego (con l'indicazione delle risorse per riempire le vacanze contrattuali), stanziamenti per il personale appartenente al comparto sicurezza - difesa, interventi sul Fondo di sostegno per l'occupazione e l'imprenditoria giovanile. Tra gli emendamenti approvati alla Camera, in parte discussi nella Commissione Lavoro e, poi, approfonditi e affrontati nella Commissione Bilancio, sono stati aggiunti numerosi e interessanti argomenti. Tra questi, si segnalano: l'ulteriore garanzia di ammortizzatori sociali in deroga e strumenti per la cassa integrazione; il sostegno al reddito dei lavoratori a progetto (aumento dell'indennità per i co.co.pro.); la riduzione contributiva per le assunzioni di lavoratori titolari di indennità di disoccupazione o degli ultracinquantenni; l'intervento su varie tipologie di contratti flessibili, quali la somministrazione di lavoro, l'apprendistato, il lavoro accessorio; il rinnovo della misura di detassazione di contratti di produttività, le norme per il contrasto alle frodi in materia di invalidità civile.

Quali sono state le sue proposte di modifica?

Tra le principali proposte di modifica, evidenzio innanzitutto quella introdotta in Commissione Lavoro, che ha ripristinato una normativa di maggior rigore per la tenuta del documento unico di regolarità contributiva (DURC), anche nei confronti di determinate categorie che ne erano state esonerate.

Tra gli emendamenti presentati dal Governo alla Finanziaria 2010 ci sono una serie di misure in materia di welfare: dall'aumento dell'indennità per i co.co.pro alla proroga degli ammortizzatori in deroga, dalla detassazione del salario di produttività agli incentivi al ricollocamento dei cinquantenni, dal rilancio dell'apprendistato alla stretta sui falsi invalidi. Come giudica queste ulteriori misure previste Governo?

Le misure indicate, come prima evidenziate, si muovono tutte lungo una linea di serietà e responsabilità, che il Governo e la maggioranza hanno convenuto di mantenere per fronteggiare in misura adeguata un periodo di difficoltà come quello attuale, da un lato aiutando i lavoratori e, dall'altro, mettendo le imprese nelle condizioni di tenere inalterato il livello occupazionale.

Secondo gli ultimi dati Istat, il tasso di disoccupazione nel mese di ottobre è salito all'8% (+0,1% rispetto al mese precedente e +1 % rispetto a ottobre 2008). La disoccupazione giovanile - sottolinea l'Istat presentando per la prima volta la rilevazione sulle forze di lavoro mensili e ricordando che si tratta di stime provvisorie - ha raggiunto il 26,9% con un aumento di 0,6 punti rispetto a settembre e di 4,5 punti rispetto a ottobre 2008. Un commento su questi dati.


I dati sono oggettivamente preoccupanti, ma vanno letti con attenzione. Anzitutto, è evidente che gli effetti di una crisi economica sull'occupazione si sentono solo qualche tempo dopo che la crisi stessa abbia prodotto i suoi effetti più gravi. Pertanto, siamo di fronte all'inizio di una ripresa che porterà con sé, nel medio periodo, anche un recupero sul versante occupazionale. Inoltre, l'Italia è uno dei Paesi nei quali maggiore è la tenuta occupazionale, poiché si registrano livelli di disoccupazione sensibilmente più bassi di quasi tutti gli altri Stati europei. Infine - e si tratta di stime che la Commissione da me presieduta ha potuto acquisire direttamente a Parigi, dai responsabili dell'Ocse che hanno stilato il rapporto 2009, nel corso di un incontro internazionale - i dati sulla disoccupazione giovanile sono meno preoccupanti di quanto non sembri: è ovvio che il lavoro giovanile è il primo a «flettersi» nella fasi di crisi, ma altrettanto vero che esso è il primo a reagire positivamente agli inizi della ripresa.

Secondo gli ultimi dati Inail, nel primo semestre 2009 gli infortuni e le morti sul lavoro sono diminuiti rispettivamente dell'11,1% e del 13,1% rispetto allo stesso periodo del 2008. Secondo l'Anmil (Associazione Nazionale Mutilati ed Invalidi del Lavoro), l'obiettivo fissato dall'Ue, di ridurre gli infortuni sul lavoro del 25% entro il 2012, se si prosegue su questa strada, sarà raggiungibile dal nostro Paese con un confortante anticipo. Lei cosa ne pensa?

I dati sugli infortuni sono incoraggianti e ci inducono a proseguire sulla strada intrapresa. Peraltro vorrei dire che la Commissione da me presieduta ha avuto un ruolo importante anche in questo settore, poiché - con l'articolato parere reso sul decreto correttivo al testo unico della sicurezza sul lavoro, emanato agli inizi di agosto 2009 - ha contribuito al miglioramento del testo, coniugando il rigore e il rafforzamento del regime dei controlli a una forte spinta semplificativa, che consente di investire sulla cultura della sicurezza nelle aziende e in tutti i luoghi di lavoro.

mercoledì 16 dicembre 2009

Vignali (Pdl): Occorre uno statuto delle imprese

Roma, 16 DIC (Velino) - "A quarant'anni dallo Statuto dei lavoratori, è giunta l'ora di riconoscere un corpus di diritti a chi, fino ad ora, ha avuto solo doveri: le imprese". E' quanto dichiara, in un'intervista rilasciata a Ragionpolitica.it, giornale on line fondato da Gianni Baget Bozzo e diretto da Alessandro Gianmoena, l'onorevole Raffaello Vignali (Pdl), vicepresidente della Commissione Attività Produttive, Commercio e Turismo della Camera e autore di un progetto di legge sullo Statuto delle imprese.
"Lo Statuto - prosegue Vignali - introduce nell'ordinamento diritti delle imprese verso le amministrazioni statali e verso il fisco; prevede una serie di interventi di semplificazione ad ogni livello per le PMI; semplifica l'avvio delle nuove imprese". E conclude: "Dal punto di vista culturale, lo Statuto opera una rivoluzione copernicana: non si parte dal sospetto verso la persona e la sua libera iniziativa, ma dalla fiducia verso chi, ogni giorno, con il suo impegno, la sua responsabilità e il suo sacrificio, contribuisce a creare il Pil e l'occupazione nel nostro Paese".

Lo Statuto delle imprese. Intervista all'onorevole Raffaello Vignali


di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

lunedì 14 dicembre 2009


Raffaello Vignali è nato a Bologna il 10 aprile 1963. Laureato con lode in Filosofia, con una tesi su cristianesimo e ideologia, ha iniziato a svolgere attività di ricerca e di didattica presso il Dipartimento di Sociologia (Facoltà di Scienze Politiche) dell'Università di Bologna. Nel 1997 è stato chiamato all'IReR (Istituto Regionale di ricerca della Lombardia), diventandone, dal 1998 al 2004, Direttore generale. Dal settembre 2004 a marzo 2008 è stato Presidente della Compagnia delle Opere, associazione di piccole e medie imprese e realtà non profit. Nel 2004 ha partecipato come fondatore alla costituzione di CDO Jerusalem. Dal 2000 al 2003 è stato membro del Consiglio di Amministrazione dell'Università degli Studi di Milano Bicocca; dal 2004 al 2007 membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione AVSI (Associazione volontari per il servizio internazionale, ONG); dal 2003 al 2007 membro del Comitato Scientifico della Fondazione Politecnico di Milano e dal 2002 al 2008 membro del Consiglio di Amministrazione della Casa Editrice Marietti. Nel 2002 ha partecipato alla costituzione della Fondazione per la Sussidiarietà, di cui è stato Vice Presidente fino al 2005. Il 13 aprile 2008 è stato eletto alla Camera dei Deputati con il Popolo della Libertà e da maggio 2008 è Vice Presidente della Commissione Attività Produttive, Commercio e Turismo della Camera dei Deputati.

La Camera ha licenziato il testo relativo alle disposizioni sulla commercializzazione di prodotti tessili, della pelletteria e calzaturieri. Che cosa prevede questo provvedimento per la tutela del made in Italy?

È un provvedimento importante, volto ad assicurare la tracciabilità dei prodotti di questi settori, in modo da tutelare i consumatori sotto il profilo dell'informazione sul processo di lavorazione e sulla sicurezza dei prodotti medesimi, dando quindi al consumatore la possibilità di distinguere il prodotto che sia stato realizzato in Italia. Non è dunque un provvedimento protezionistico ma, al contrario, un intervento che garantisce una reale concorrenza. È pure una importante sfida che l'Italia lancia all'Unione Europea: in quella sede combattiamo da anni perché tutte le merci importate dall'esterno della UE indichino chiaramente provenienza e lavorazione. Infine è anche il riconoscimento delle centinaia di migliaia di micro, piccoli e medi imprenditori che non hanno preso la via - facile - della delocalizzazione per abbassare il costo del lavoro, ma che hanno scelto di puntare sulla qualità per affrontare la competizione globale.

A suo avviso sono possibili nel prossimo futuro interventi legislativi a favore degli altri settori non toccati da questo provvedimento?

Certamente sì. Questo sul tessile e calzaturiero è una «nave rompighiaccio», un cuneo nella normativa italiana ed europea. Ma, come ho affermato nella dichiarazione di voto per il gruppo del Pdl, siamo ancora solo all'inizio. Tanti altri settori aspettano provvedimenti analoghi: mobile, arredo, complementi d'arredo, ecc... Inoltre dobbiamo attivare strumenti efficaci per contrastare la contraffazione, che si fa anche sul territorio italiano, con l'utilizzo del lavoro clandestino e minorile. L'unanimità, registrata tanto in Commissione quanto in Aula è di ottimo auspicio. Se poi mi è concessa una considerazione più ampia, vorrei sottolineare che con questo provvedimento abbiamo fatto anche «cultura parlamentare»: la centralità del Parlamento non sta infatti nella possibilità di bloccare pretestuosamente i provvedimenti del Governo, ma nell'approvare le leggi di iniziativa parlamentare, come questa, che servono per il bene comune.

Secondo il Censis l'Italia ha resistito meglio alla crisi economica perché la finanza non ha vinto sull'economia reale. Quale è il suo parere a riguardo?

Non solo non ha vinto la finanza, ma non hanno vinto nemmeno i guru nostrani ed esteri dell'economia (consulenti e professori) che, negli anni scorsi, hanno demonizzato il sistema economico italiano, definendolo arretrato e anomalo (mentre anomala era la finanza creativa!), quelli che accusavano le nostre imprese di nanismo e familismo, come fossero dei tumori... economici! Siamo il Paese con il più alto tasso di imprenditori al mondo, siamo una delle sette maggiori potenze industriali mondiali, abbiamo retto alla globalizzazione quando i guru ci davano per morti. C'è, nelle nostre imprese, un'innovazione sommersa, tanto reale quanto invisibile. C'è anche l'hi-tech. E poi, dall'incrocio tra le lavorazioni tradizionali e le nuove tecnologie pervasive (ICT, nanotecnologie, materiali innovativi) possiamo ricavare la crescita per i prossimi decenni. Ma, soprattutto, è a partire dall'impeto dei nostri piccoli (ma grandissimi!) imprenditori che possiamo guardare con fiducia la ripresa.

Parliamo di piccole e medie imprese e banche. Il 3 agosto 2009 il Ministro dell'Economia e delle Finanze, il Presidente dell'ABI e le Associazioni dei rappresentanti delle imprese hanno firmato un Avviso comune per la sospensione dei debiti delle piccole e medie imprese verso il sistema creditizio, con l'obiettivo di dare respiro finanziario alle imprese aventi adeguate prospettive economiche e in grado di provare la continuità aziendale. Secondo il presidente dell'ABI è necessario un corretto orientamento delle politiche fiscali e di regolamentazione affinché il sistema bancario possa svolgere in maniera sempre più ampia la sua funzione di supporto all'economia reale. Qual è la sua opinione in materia?

Sono d'accordo, ma con alcune sottolineature. La prima è sulle regole: servono regole nuove, non «più regole» nell'accezione quantitativa. Prendiamo Basilea2. È insufficiente: non possiamo ridurre il valore di un'impresa al suo bilancio, sarebbe come valutare una persona basandosi solo sul suo scheletro. Se l'impresa del futuro è quella del capitale umano, la valutazione deve tornare ad essere basata su questo, non sui numeri. Dico tornare perché da noi, prima di Basilea2, è stato quasi sempre questo il sistema. Se non ci fossero stati migliaia di «ragionier Bianchi» a dirigere le filiali delle nostre banche, capaci di dare credito (nel senso di fiducia) alle persone e di erogare loro il credito (cioè i soldi), non avremmo avuto il miracolo italiano. Anche le banche devono riprendere la loro funzione costitutiva: dare credito. Sulle politiche fiscali bene ha fatto il Governo in Finanziaria a premiare fiscalmente le banche che hanno aderito alla moratoria, perché significa premiare il merito. Ma occorre anche intervenire fiscalmente sulle imprese, perché sia favorita la loro capitalizzazione.

Lei è il promotore di un progetto di legge sullo Statuto delle Imprese. Il testo è stato firmato da altri 130 parlamentari ed ha riscosso l'approvazione da parte delle associazioni di rappresentanza e dal sistema delle Camere di Commercio. Di che cosa si tratta?

A quarant'anni dallo Statuto dei lavoratori, è giunta l'ora di riconoscere un corpus di diritti a chi, fino ad ora, ha avuto solo doveri: le imprese. Lo Statuto introduce nell'ordinamento, per la prima volta, diritti delle imprese verso le Amministrazioni statali e verso il Fisco; prevede una serie di interventi di semplificazione ad ogni livello per le PMI, sulla base dello Small Business Act dell'Unione Europea; semplifica l'avvio delle nuove imprese eliminando per i primi cinque anni ogni fardello burocratico (in pratica valgono solo Codice civile e Codice penale) e fiscale. Insomma, se sei un Bill Gates e vuoi aprire l'impresa nel garage, puoi farlo senza che vengano l'ASL o l'ARPA o i Vigili a soffocare il tuo embrione di azienda! Inoltre lo Statuto prevede la costituzione di un'Agenzia per le PMI e di una Commissione bicamerale che valuti - anticipatamente - l'impatto di norme e regolamenti sulle PMI, prevedendo oneri minori e tempi di adeguamento più lunghi. In sostanza, si chiede che in questi casi non si parta da norme pensate sulle grandi imprese (che sono, purtroppo, appena lo 0,3% del totale) ma dalle piccole. Dal punto di vista culturale, lo Statuto opera una rivoluzione copernicana: non si parte dal sospetto verso la persona e la sua libera iniziativa, ma dalla fiducia verso chi, ogni giorno, con il suo impegno, la sua responsabilità e il suo sacrificio, contribuisce a creare il PIL e l'occupazione nel nostro Paese. Anche in economia dobbiamo sostenere il popolo della libertà.

domenica 13 dicembre 2009

Segnali positivi per l’economia italiana



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

venerdì 11 dicembre 2009


Si rafforzano i segnali della ripresa economica a livello globale secondo l'indice Ocse e l'Italia si conferma in cima alla classifica. A novembre l'indice Ocse è salito a quota 101,4 segnalando il rafforzamento della ripresa mentre per l'Italia l'indice migliora a 106,5 con un +1,1 sul mese precedente; su base annuale la crescita dell'indice è addirittura imponente con ben + 12,5 punti, tanto da essere la performance più robusta tra tutti i paesi Ocse. Il valore indica con i numeri e non con le chiacchiere che l'economia italiana è in fase di espansione. Oltre al nostro paese, registrano buoni segnali di ripresa anche Francia, Germania, Canada e Gran Bretagna.

L'indice Ocse registra un miglioramento di 5,7 punti rispetto al novembre del 2008 portandosi a 101,4, in crescita di 8,8 punti per l'area euro a 103,7. Per gli Stati Uniti esso sale di un punto rispetto al mese precedente e di 3,9 punti rispetto a dodici mesi fa, posizionando l'America ancora in fase di ripresa. Frena invece la crescita dell'indice per Cina e India, mentre a ottobre la migliore performance è quella della Russia con un aumento dell'indice di 1,6 punti, ma rispetto a un anno fa l'economia russa accusa una flessione di 1,1 punti. Peggio solo il Brasile con -4,2 su base annuale e +0,7 punti a novembre sul mese precedente.

Questi numeri non possono che spingere il governo a percorrere la strada già intrapresa e cioè quella della stabilità dei conti pubblici, della salvaguardia dei posti di lavoro, della liquidità per le imprese, di un robusto sistema di ammortizzatori sociali che non lasci indietro nessuno in tempi di crisi.

Per capire bene i termini della questione è opportuno spiegare che cosa è quello che viene comunemente definito superindice Ocse. Il superindice, in gergo tecnico CLI (Composite Leading Indicators), è un sistema di vari indicatori che forniscono informazioni economiche qualitative sul futuro, con l'obiettivo di individuare punti di svolta nel ciclo economico. Tuttavia ci sono anche segnali negativi visto che, secondo uno studio condotto dall'Istat sulle esportazioni delle regioni italiane, nei primi nove mesi del 2009, rispetto al corrispondente periodo dell'anno precedente, il valore delle esportazioni italiane registra una flessione del 23,1%, dovuta a consistenti riduzioni tendenziali dei flussi sia verso i paesi Ue (-25,5%) sia, in misura più contenuta, verso i paesi extra Ue (-19,7%). Tuttavia va aggiunto che la dinamica congiunturale, valutata sulla base dei dati trimestrali depurati della componente stagionale, evidenzia, nel terzo trimestre 2009, rispetto al trimestre precedente, variazioni positive delle esportazioni in tutte le ripartizioni. Insomma, anche per quanto riguarda le esportazioni si possono leggere degli elementi positivi visto che, seppur nel medio periodo si registrano segni negativi, nel breve periodo (l'ultimo trimestre) in tutte le regioni appaiano indicazioni positive che fanno ben sperare.

E proprio in materia di made in Italy, punto di forza delle esportazioni del nostro Paese, è stata approvato nei giorni scorsi un disegno di legge alla Camera che mira ad assicurare la tracciabilità dei prodotti del tessile, della pelletteria e del calzaturiero. L'obiettivo è di tutelare i consumatori sul processo di lavorazione e sulla sicurezza di questi prodotti, consentendo di distinguere chiaramente il prodotto realizzato in Italia.

Tutto questo dimostra che le chiacchiere non portano a nulla e che i catastrofisti, nazionali ed internazionali, che ci perseguitano sui media, compresi tutti quegli anti-italiani che provano piacere a pronosticare un futuro buio ed incerto per il nostro Paese, sono stati sbugiardati ancora una volta dai numeri e messi alla berlina per le loro pompose analisi, che sempre più spesso si rilevano gigantesche patacche.

venerdì 11 dicembre 2009

Più ammortizzatori sociali e innovazione. La risposta del governo alla crisi


di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

giovedì 10 dicembre 2009


La crisi sociale in Europa potrebbe aggravarsi nel 2010: è quanto sottolinea la bozza delle conclusioni del vertice dei leader Ue riuniti a Bruxelles. «La situazione economica - si legge nel testo - si è stabilizzata e la fiducia sta aumentando. Le previsioni suggeriscono una ripresa debole nel 2010, seguita dal ritorno di una forte crescita nel 2011. Ma restano incertezze e fragilità - si aggiunge - mentre si prevede che l'occupazione e la situazione sociale si deterioreranno ulteriormente nel 2010». Per questo motivo si ribadisce come «le politiche a sostegno dell'economia devono restare sul terreno ed essere ritirate solo quando la ripresa sarà pienamente garantita».

Secondo il bollettino di dicembre della Banca Centrale Europea, la maggior parte delle stime indica che la crisi finanziaria ha ridotto e continuerà a ridurre la capacità produttiva delle economie dell'area dell'euro ancora per qualche tempo. Per promuovere la crescita sostenibile e l'occupazione saranno necessari un mercato del lavoro flessibile e incentivi al lavoro più efficaci. Occorrono inoltre urgenti politiche di stimolo alla concorrenza e all'innovazione per accelerare la ristrutturazione e gli investimenti e creare nuove opportunità imprenditoriali. Insomma, in questo quadro di luci e ombre diventa fondamentale irrobustire gli ammortizzatori sociali e puntare con decisione alle politiche di stimolo all'innovazione del sistema produttivo nazionale.

Che cosa ha fatto il governo italiano per rispondere a questa esigenza? Ha aggiunto 1 miliardo di euro, con il pacchetto welfare della Finanziaria, ai 16 miliardi di stanziamenti previsti già dallo scorso anno per gli ammortizzatori sociali. In pratica sono le somme previste per il biennio 2009-2010 per gli ammortizzatori sociali ordinari e speciali (24 miliardi, di cui 12 per il 2010) e per gli ammortizzatori sociali in deroga, per i quali, sempre nel biennio, erano previsti 8 miliardi (di cui 4 per il 2010). Il capitolo sugli ammortizzatori in deroga - CIG, mobilità e disoccupazione speciale - figura anche tra le norme inserite nel pacchetto welfare in quanto, oltre a prorogare nel 2010 gli interventi in deroga già disposti nel 2009, serviva una nuova disposizione per intervenire nel 2010 con gli ammortizzatori in deroga su quelle situazioni che presentano problematiche occupazionali per le quali l'attuale normativa non prevedeva alcun intervento. La nuova disposizione consente inoltre di proseguire gli interventi già iniziati negli anni precedenti e non completati. In pratica il governo ha allungato la coperta per venire incontro alle esigenze del maggior numero di persone possibile, ribadendo con i fatti l'intenzione di non lasciare indietro nessuno di fronte alla crisi.

Nella Finanziaria c'è anche una buona notizia per le imprese che fanno ricerca e innovazione, visto che la dotazione per i crediti di imposta è salita a 854 milioni nel 2010. La somma è stata aumentata di 200 milioni per il 2010, mentre, rispetto agli iniziali 65,4milioni, altri 200 sono previsti nel 2011.

Non va poi dimenticato che il 3 agosto 2009 il ministro dell'Economia e delle Finanze, il presidente dell'ABI e le Associazioni dei rappresentanti delle imprese hanno firmato un Avviso comune per la sospensione dei debiti delle piccole e medie imprese verso il sistema creditizio, con l'obiettivo di dare respiro finanziario alle imprese aventi adeguate prospettive economiche e in grado di provare la continuità aziendale. Secondo i dati del ministero dell'Economia, sono state circa 46 mila le domande di sospensione dei debiti delle piccole e medie imprese pervenute al 31 ottobre 2009 e relative alle prime settimane di piena applicazione della moratoria. In un paese come il nostro, in cui la stragrande maggioranza delle imprese ha dimensioni medio-piccole, questo tipo di interventi non solo rafforza il sistema produttivo nazionale ma, soprattutto, salvaguarda i posti di lavoro che queste realtà sono in grado di offrire.

Poi si può sempre discutere circa la possibilità di fare qualcosa di più (anche se l'opposizione non ha presentato alcuna contro-proposta organica rispetto alla Finanziaria del governo), ma è un dato di fatto che il nostro paese ha sulle spalle il macigno di uno spaventoso debito pubblico, e che qualsiasi intervento non può certo prescindere da questo elemento fondamentale.

giovedì 26 novembre 2009

Biotestamento: cinque domande all'onorevole Di Virgilio



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

mercoledì 25 novembre 2009

Domenico Di Virgilio è un medico prestato alla politica. Prima di essere eletto alla Camera dei Deputati ha svolto per 38 anni la professione negli ospedali romani ed è stato per 21 anni primario medico presso l'ospedale Giuseppina Vannini di Roma. E' autore di oltre 100 pubblicazioni a contenuto bioetico, epatologico, gastroenterologico, diabetologico, cardiologico e di medicina preventiva. Oggi siede tra i banchi di Montecitorio nelle file del Popolo della Libertà, di cui è uno dei vice presidenti del gruppo alla Camera, ed è il relatore del ddl Calabrò sul testamento biologico.

Onorevole Di Virgilio, sono stati circa 2.600 gli emendamenti presentati in Commissione Affari Sociali alla Camera sul ddl Calabrò. Come giudica l'atteggiamento tenuto dell'opposizione su un argomento così delicato?

Desidero interpretare un così elevato numero di emendamenti come un segno di grande sensibilità e di interesse da parte dei parlamentari, anche se i 2.400 presentati dai colleghi radicali fanno pensare ad un larvato ostruzionismo, ma spero di sbagliarmi. Certamente le dichiarazioni dell'ex ministro Livia Turco, che reclama «una legge più umana», che imponga l'astensione dall'accanimento terapeutico, un maggior aiuto alle famiglie, mi sembrano superflue in quanto già contenute nel testo proveniente dal Senato e comunque da me annunciate sia nella relazione introduttiva a luglio che nella replica di alcuni giorni fa in Commissione Affari Sociali, ma soprattutto contenuti negli emendamenti da me presentati.

Tra i punti di attrito emersi nel corso della discussione in Commissione sul disegno di legge in questione ci sono il valore non vincolante delle DAT (Dichiarazioni anticipate di trattamento) e la gestione del rapporto medico-paziente. A quale soluzione si potrebbe arrivare su questi punti nel passaggio a Montecitorio?

I sei emendamenti che ho presentato vanno a migliorare il testo pervenuto dal Senato su tre aspetti fondamentali della legge, e cioè l' alleanza terapeutica, il consenso informato e le dichiarazioni anticipate di trattamento. Tra questi emendamenti ve n'è uno che intende estendere la normativa a tutti i casi in cui il medico curante riscontri un'incapacità di comprendere le informazioni e non solo nello stato vegetativo. Le DAT non possono essere vincolanti per il medico in quanto, se così fosse, al paziente non potrebbero essere applicati quei vantaggiosi progressi della medicina che si potrebbero realizzare nell'intervallo temporale tra il momento della DAT e l'eventuale momento in cui si realizzi, nel futuro, una determinata situazione patologica imprevista. Un altro emendamento vuole proporre una soluzione in caso di controversia tra fiduciario e medico curante, e quindi nel caso che l'alleanza terapeutica cessi di sussistere; la soluzione prevede il ricorso ad un collegio di medici il cui parere è vincolate per il medico curante, il quale però non è tenuto a condividerle. Con l'alleanza terapeutica si vuole recuperare idealmente il rapporto medico-paziente anche in una situazione estrema, in cui il soggetto non è più in grado di esprimersi. In tal modo quel rapporto di fiducia che da sempre lega direttamente o indirettamente il paziente al medico, continua anche davanti all'impossibilità del malato di interagire, concretizzandosi nel dovere del medico di prestare tutte le cure di fine vita, agendo sempre nell'interesse esclusivo del bene del paziente. Inoltre desidero evidenziare che esiste un rischio grave, che spesso è sottovalutato o non percepito adeguatamente, quello dell'abbandono terapeutico, un rischio grande, che nasce dalla crescente conflittualità, dalla paura dei medici, dalla sfiducia dei pazienti e dei familiari che a volte portano il medico a mettersi sulla difensiva.

Altro tema spinoso è quello della nutrizione e dell'idratazione del paziente. Quali sono le posizioni emerse sul tema e quale, secondo lei, il possibile punto di equilibrio?

Resta fermo che privare un paziente che è ancora in grado di farne uso per il suo metabolismo di cibo ed acqua non significa sospendere una terapia (un'azione che, a certe condizioni e in determinate circostanze, può essere lecita o addirittura doverosa), ma non prendersi più cura di un malato (un'azione, l'abbandono di una persona non fisiologicamente autosufficiente, che è sempre un male). Idratazione e nutrizione, anche artificiali, sono sempre da considerare sostegni vitali anche se richiedessero tecniche sofisticate per essere adeguatamente attuate. In un mio emendamento, comunque, è prevista la possibilità della sospensione di alimentazione e idratazione, che comunque non costituendo terapie non possono far parte della DAT, soltanto nel caso in cui queste non risultino efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari.

Quali tempi prospetta per l'arrivo in aula del provvedimento?

C'è un impegno dei capigruppo perché la discussione in aula inizi nel mese di dicembre.

Una volta arrivato in aula, quali potrebbero essere a suo avviso i margini di modifica del testo uscito dalla Commissione?

Questo è imprevedibile, in quanto esiste per tutti libertà di coscienza. Spero però che, una volta raggiunta una convergenza sui miei emendamenti, questa convergenza possa realizzarsi anche in aula.

venerdì 20 novembre 2009

Diminuiscono le morti e gli infortuni sul lavoro nei primi 6 mesi del 2009



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

giovedì 19 novembre 2009

Forte calo di infortuni e morti sul lavoro nei primi sei mesi del 2009: rispettivamente -10,6% e -12,2%. I dati sono stati resi noti dall'Inail, che sottolinea come una quota tra i 5 e i 6 punti percentuali del calo sia da attribuire ad una componente «accidentale», rappresentata dalla contingente congiunta economica.

Nel dettaglio: nel primo semestre 2009 gli infortuni sul lavoro sono stati 397.980, contro 444.958 del primo semestre 2008, mentre i casi mortali sono stati 490 a fronte dei 558 dello stesso periodo dell'anno precedente. La riduzione degli infortuni e dei casi mortali ha riguardato soprattutto i lavoratori nell'effettivo esercizio della loro attività (cioè in occasione del lavoro): rispettivamente -11,1% e -13,1%. Più contenuta, invece, la flessione degli infortuni in itinere, ovvero quelli che si sono verificati sul percorso casa-lavoro e viceversa (-5,8%), e dei relativi casi mortali (-9,2%). Molto rilevante, infine, il calo dei morti sulla strada in occasione di lavoro (-20,5%). Il dato - sottolinea l'Inail - accentua sensibilmente il miglioramento in atto ormai da molti anni.

Ma va detto che il primo semestre di quest'anno è stato un periodo particolarmente negativo per l'economia italiana, sia sul versante dell'occupazione, diminuita dello 0,9% nel primo trimestre e dell'1,6% nel secondo, che su quello della produzione industriale, calata di oltre il 20%. Se a questo si aggiunge il massiccio ricorso alla cassa integrazione, «appare chiaro come al sostenuto calo della quantità di lavoro effettuata corrisponda, ovviamente, una considerevole flessione dell'esposizione ai rischi di infortunio».

Quanto ai singoli settori di attività, il decremento ha interessato soprattutto l'industria (-21,5% di infortuni e -18,7% di casi mortali) e in particolare il comparto metalmeccanico, che ha fatto registrare una riduzione del 27,3% per gli infortuni e del 20% per i casi mortali. Anche le costruzioni segnano un consistente calo degli infortuni (-15,8%) e uno molto più modesto dei casi mortali (-3,9%). Molto più limitata, invece, la flessione registrata nell'agricoltura e nei servizi, che segnano entrambi un calo degli incidenti del 2,2%, accreditando ulteriormente l'ipotesi che vede nell'andamento negativo della produzione industriale una delle principali cause della diminuzione degli infortuni nei primi 6 mesi di quest'anno. Il miglioramento dei livelli infortunistici ha favorito soprattutto gli uomini (-13,95%) e in misura più contenuta le donne (-2,1%), mentre la riduzione dei casi mortali è stata molto sostenuta per entrambi i sessi (-18,2% per le femmine e -11,7% per i maschi). Infine, i maggiori cali in termini infortunistici hanno riguardato il nord: in particolare il nord-est ha registrato una riduzione del 14,3% degli infortuni e del 20,9% dei casi mortali. Al centro - unico caso in controtendenza - in tutto il panorama infortunistico si registra un incremento di una decina di infortuni mortali: 107 casi contro 98 dello stesso periodo del 2008.

Il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, considera «confortanti» i dati diffusi dall'Inail, ma ha chiesto comunque di «non abbassare la guardia», perché l'obiettivo sugli incidenti, soprattutto mortali, è comunque «tendere a zero». Insomma, sarà pure vero che la diminuzione degli infortuni e delle morti sul lavoro è in parte frutto anche della congiuntura economica, ma è altrettanto vero che questo dato dimostra come sempre più aziende investano in sicurezza, come la normativa sia nella maggior parte dei casi applicata e come il dialogo tra le parti sociali, dove c'è, sia in grado di dare i suoi frutti.

Tuttavia questi dati positivi, come ha fatto bene a ricordare Sacconi, non devono far calare la tensione sull'argomento, ma spingere a fare sempre di più e meglio, anche perché il lavoro può essere tutto tranne che un appuntamento con la morte. Un paese che si definisce civile si misura anche su questo tema. Questo significa che tutti gli attori in campo dovranno puntare con decisione su tre cose fondamentali: un dialogo sempre più stretto e proficuo tra le parti sociali (dando vita a comitati paritetici, agli enti bilaterali, a forme di condivisione per garantire ambienti di lavoro più sicuri), volto a produrre un controllo aggiuntivo sui luoghi di lavoro in affiancamento a quello svolto dalle istituzioni; un percorso formativo costante del lavoratore; un'informazione chiara e capillare.

mercoledì 11 novembre 2009

La tolleranza parte dall’accettazione della diversità



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

martedì 10 novembre 2009

«Al problema dell'immigrazione, che rappresenta uno dei «grandi cambiamenti sociali in atto», «occorre dare risposte avendo chiaro che non ci può essere uno sviluppo effettivo se non si favorisce l'incontro tra i popoli, il dialogo tra le culture e il rispetto delle legittime differenze». Lo ha affermato Papa Benedetto XVI nel suo discorso al VI Congresso Mondiale della Pastorale dei Migranti e dei Rifugiati. «In questa ottica - si è chiesto il Pontefice - perché non considerare l'attuale fenomeno mondiale migratorio come condizione favorevole per la comprensione tra i popoli e per la costruzione della pace e di uno sviluppo che interessi ogni Nazione?».

Secondo il presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale dei migranti e gli itineranti, mons. Antonio Maria Veiò, che ha aperto lunedì mattina in Vaticano il Congresso: «Occorre superare le paure che nascono dalle migrazioni viste come un'incognita, talvolta ridotta esclusivamente ad una questione di ordine pubblico da affrontare con la repressione. Guardando al futuro - ha aggiunto -, si potrà probabilmente pensare a strumenti addizionali per provvedere alle lacune che emergono in un fenomeno umano in continua evoluzione e crescita o a una nuova convenzione internazionale che sintetizzi la normativa sui diritto e doveri dei migranti. Oggi - ha sottolineato - tuttavia, appare sempre più importante puntare sulla integrazione, che non equivale a un processo di assimilazione».

Sul tema dell'integrazione e della tolleranza è intervenuto anche lo scrittore franco-marocchino Tahar Ben Jelloun, a margine della cerimonia di apertura della XV edizione del Medfilm Festival a Roma, che ha affermato di aver sentito il bisogno di tornare sull'argomento dopo gli episodi di intolleranza verificatisi negli ultimi tre anni in Italia. Per uscire dalla spirale dell'odio nei confronti dell'altro, secondo lo scrittore, «bisogna puntare sui bambini, perché è inutile spiegare a un adulto di quarant'anni, cresciuto nel pregiudizio, cosa sia la tolleranza». E ancora: «Nelle scuole pubbliche il crocifisso non deve esserci. Negli istituti privati e cattolici la cosa è diversa. La religione deve rimanere un fatto privato, a qualsiasi latitudine e in qualsiasi mondo, sia in quello cristiano che in quello musulmano e ebraico». «L'Italia, però, non è un Paese laico, è una nazione estremamente attaccata alla religione cristiana e ai suoi simboli, almeno sul piano formale», ha affermato polemicamente l'intellettuale francofono più tradotto al mondo. Impossibile quindi immaginare che in Italia venga varata una legge come quella introdotta in Francia nel 2004 dal governo Raffarin, che vieta i simboli religiosi nelle scuole? «Per ottenerla - ricorda Ben Jelloun - ci sono voluti cento anni. E in Italia, di laicità dello Stato, si è iniziato a parlare da poco».

Insomma Ben Jelloun predica la tolleranza a modo suo giacché proprio lui non tollera la cultura del nostro paese, giudicata con piglio severo come cosa ben diversa da quella francese. Parla di fantomatici episodi d'intolleranza nel nostro paese ma dimentica colpevolmente i gravissimi episodi di violenza che hanno scosso le banlieues di alcune città francesi e i motivi dello scoppio di quelle terribili ondate. Ah, les français! A suo avviso la tolleranza non consiste nella semplice accettazione delle diversità. Serve di più: l'intervento dello Stato, nelle vesti di padre-pardone, per cancellare le diversità in favore del totem statalista. Quindi niente simboli religiosi, come il crocifisso nelle scuole pubbliche; e pazienza se si tratta di segni tangibili della nostra cultura e non di imposizioni di natura religiosa (come sarebbe ad esempio la preghiera in classe).

Per lo scrittore francese la via maestra per l'integrazione passerebbe esclusivamente per l'appiattimento culturale, sia da parte del paese ospitante che dell'immigrato, e l'asservimento del singolo alla legge dello Stato. Stiamo parlando, quindi, della riproposizione del modello assimilazionista francese, quello miseramente fallito alla pari di tutti gli altri modelli d'integrazione avanzati fin qui conosciuti. Secondo Angelo Panebianco, questo modello si fonda sulla «concessione della "cittadinanza repubblicana", con i suoi diritti di libertà, in cambio di una privatizzazione del credo religioso, del divieto di far valere entro l'arena pubblica le appartenenze religiose». Tuttavia «in Francia, non solo settori rilevanti della nuova immigrazione musulmana ma anche molti figli e nipoti di quegli immigrati nordafricani che, alcuni decenni fa, scelsero con orgoglio di diventare "cittadini francesi" rifiutano oggi l'assimilazione: sposano, polemicamente, il separatismo culturale, contro l'appartenenza francese» (Panebianco A., Corriere della Sera, 6 dicembre 2004). Bisognerebbe ricordare a Ben Jelloun, così caustico nel giudicare il rapporto tra religioni e tolleranza, che, com'è possibile leggere anche sull'Enciclopedia Treccani, questo principio si è affermato originariamente in campo religioso come riconoscimento della libertà di coscienza in nome della coesistenza pacifica di tutte le confessioni e gli orientamenti di fede. In senso più vasto, la tolleranza è intesa come libertà di coscienza, come rispetto di tutte le convinzioni non solo in materia di religione, ma anche di politica, morale e scienza. Così intesa, la tolleranza si identifica con il pluralismo dei valori, dei gruppi e degli interessi nella società, e il suo significato finisce per coincidere con quello di libertà.

Quindi tolleranza significa libertà e non asservimento. Tuttavia sappiamo che anche il modello pluralista britannico, che concedeva generosamente spazi pubblici alle minoranze etniche o religiose in nome della tolleranza, sotto forma di «diritti collettivi», è miseramente fallito. E allora da dove bisogna partire? Innanzitutto dall'esperienza che ci dice quali sono stati i modelli di integrazione falliti e le motivazioni di queste debacles. La vera sfida che attende i governi dei paesi ospitanti è proprio quella di trovare un nuovo modello di convivenza tra diversi che non ripeta gli errori del passato.

venerdì 6 novembre 2009

Pari opportunità e parità di trattamento nel lavoro tra uomini e donne



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

giovedì 05 novembre 2009

In questi giorni, nelle Commissioni Lavoro (che mercoledì scorso ha già dato parere positivo con osservazioni) e Politiche Europee della Camera, è in discussione, per una richiesta di parere, lo schema di decreto legislativo recante recepimento della direttiva 2006/54/CE riguardante l'attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego. Il testo introduce alcune novità nel nostro ordinamento.

Vengono ampliate le competenze del Comitato nazionale per l'attuazione dei principi di parità di trattamento ed uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici, istituito presso il ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Tale Comitato elaborerà iniziative per favorire il dialogo tra le parti sociali al fine di promuovere la parità di trattamento; promuoverà iniziative per favorire il dialogo con le organizzazioni non governative che hanno un legittimo interesse a contribuire alla lotta contro le discriminazioni fra donne e uomini nell'occupazione e nell'impiego; scambierà informazioni con corrispondenti organismi europei.

Si allargano, altresì, le funzioni della consigliera o del consigliere nazionale di parità, che rileverà gli squilibri nell'accesso al lavoro, nella formazione professionale, nella retribuzione, nel trattamento pensionistico e svolgerà inchieste indipendenti in materia di discriminazioni sul lavoro e pubblicherà relazioni e raccomandazioni in materia.

Inoltre, le lavoratrici in possesso dei requisiti per la pensione di vecchiaia avranno diritto di proseguire il rapporto di lavoro fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini, previa comunicazione al datore di lavoro da effettuarsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto alla pensione.

Nelle forme pensionistiche complementari collettive di cui al decreto legislativo n. 252 del 2005 sarà vietata qualsiasi discriminazione diretta o indiretta per quanto riguarda: il campo di applicazione di tali forme pensionistiche e relative condizioni di accesso; l'obbligo di versare i contributi e il calcolo degli stessi; il calcolo delle prestazioni, comprese le maggiorazioni da corrispondere per il coniuge e per le persone a carico, nonché le condizioni relative alla durata e al mantenimento del diritto alle prestazioni.

Lo schema di decreto legislativo stabilisce anche che i contratti collettivi possono prevedere misure specifiche per prevenire tutte le forme di discriminazione sessuale, e sarà vietata qualsiasi discriminazione per ragioni connesse al sesso, con particolare riguardo ad ogni trattamento sfavorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione alla titolarità e all'esercizio dei relativi diritti. Insomma, seppur l'articolo 3 della nostra Costituzione era già molto chiaro in tema di pari dignità sociale, è sempre meglio prevedere ulteriori specifici interventi in materia con legge ordinaria.

La discriminazione tra uomo e donna nel mercato del lavoro è una brutta realtà. Per capire i termini del problema basterebbe dire che, secondo l'International Migration Outlook 2008, in tutto il mondo, la differenza salariale tra lavoratori immigrati e autoctoni (in media tra il 15% ed il 20% in meno a sfavore degli immigrati) è più piccola di quella tra uomo e donna. John Stuart Mill, che come deputato s'impegnò sul tema della parità tra uomo e donna seppur senza successo, sosteneva che la differenza fra uomo e donna era visibile solo in quanto le donne non avevano le stesse possibilità degli uomini, ma, una volta eliminate le disparità, e una volta aperte le porte dell'istruzione e della carriera alle donne, esse sarebbero diventate in tutto simili agli uomini (The subjection of women, 1869). Sono passati 140 anni dal momento in cui Mill metteva nero su bianco questi concetti e, a distanza di quasi un secolo e mezzo, siamo ancora qui a parlare dello stesso problema. Speriamo non dover aspettare altrettanto per arrivare ad avere finalmente una società in cui vi siano realmente pari opportunità e parità di trattamento fra uomini e donne nel mercato del lavoro.

mercoledì 4 novembre 2009

Immigrazione. Perché non serve gridare al «razzismo dilagante»



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

martedì 03 novembre 2009


Settecento milioni di persone adulte, soprattutto dall'Africa, sono pronte ad emigrare permanentemente per cercare un futuro migliore, malgrado la grave crisi economica mondiale. E' quanto emerge da uno studio Gallup, presentato lunedì ad Atene al Terzo Forum Globale per l'Emigrazione e lo Sviluppo (Gfmd). Secondo lo studio Gallup, la destinazione finale preferita dalla maggior parte di coloro che sono pronti, avendone la opportunità, ad abbandonare i propri paesi sono gli Stati Uniti, seguiti in Europa da Gran Bretagna, Spagna, Francia e Germania. Il Forum Globale ha l'obiettivo di favorire il dialogo tra paesi di origine dell'emigrazione e quelli di arrivo. La conferenza si svolge proprio in Europa dove, sottolinea l'Iamr (Assemblea Internazionale degli Emigranti e dei Rifugiati), «i lavoratori immigrati, e in particolare quelli clandestini, si confrontano con un incerto destino ed un ambiente sempre più ostile».

Ma perché l'ambiente diventa sempre più ostile? Spesso i rapporti stilati da queste organizzazioni internazionali non leggono con spirito obiettivo la realtà dei fatti e cioè non capiscono o non vogliono capire che non ci troviamo dinanzi ad una sorta di razzismo dilagante, ma davanti a qualcosa di molto più complesso. Innanzitutto c'è il problema del rapporto tra immigrazione clandestina e criminalità. Con riferimento al nostro paese, secondo l'International Migration Outlook - Ocse/Sopemi 2009, nel 2008 i cittadini stranieri denunciati sono stati 205.188 (29,7% del totale), mentre gli stranieri arrestati sono stati 97.432 (49,2% del totale); al 1° settembre 2009 i detenuti stranieri erano 23.696 (37% del totale). Si tratta di cifre notevolmente sproporzionate se consideriamo che la stragrande maggioranza degli stranieri che commettono reati sono clandestini.

Poi c'è il problema della concorrenza sleale nel mercato del lavoro. Sempre più spesso alcuni operatori economici usano, o sarebbe dire meglio sfruttano, la leva dell'immigrazione clandestina per risparmiare sul costo del lavoro ed essere maggiormente competitivi sul mercato mondiale o, più banalmente, per massimizzare i profitti. Già l'International Migration Outlook 2008, infatti, segnalava che praticamente in tutto il mondo gli immigrati guadagnano meno dei lavoratori nazionali, eccetto che in Australia.

Questi dati trovano una ulteriore conferma anche in studi su scala più ridotta, come ad esempio quello dell'associazione di assistenza socio-sanitaria milanese Naga, che ha analizzato i dati di oltre 47.500 suoi utenti dal 2000 al 2008: la percentuale dei clandestini occupati che risiedono in Italia da un anno è sotto il 40%, dopo due anni di permanenza la percentuale sale a circa il 65% e continua a salire al 76% dopo quattro anni. L'aspetto più sorprendente di questa evoluzione è la rapidità con cui essa avviene. Nei 9 anni presi in considerazione la condizione lavorativa dei clandestini è migliorata, passando dal 49,2% di occupati del 2000 al 61,6% del 2008. Il lavoro nel 2008 è stabile per il 52% del campione (contro il 47,5% nel 2000), saltuario per il 47%, ambulante per l'1%. Per area geografica, sono più stabili gli immigrati provenienti dall'Europa dell'est (67%), seguiti dai sudamericani e asiatici. Il tempo medio di permanenza in Italia è notevolmente aumentato, spiegano dal Naga: nel 2003 il 53% era in Italia da meno di un anno, mentre nel 2008 sono meno del 25%, contro un 30% che è qui da almeno quattro anni. In generale però «i migranti svolgono lavori non qualificati, mentre nel paese di origine molti erano impiegati in occupazioni con elevato livello di specializzazione». A confermarlo, in particolare, un dato: il 70% delle laureate lavorano come collaboratrici domestiche. Infine, in attesa di un'analisi che verrà presentata a gennaio, il rapporto indaga sulla situazione abitativa: quasi il 12% delle donne vive a casa del datore di lavoro, il 7% degli uomini e il 4% delle donne è senza fissa dimora o vive in insediamenti abusivi (specie per quanto riguarda subsahariani e est-europei) e l'88,6% vive in affitto, con un affollamento abitativo per stanza quasi triplo rispetto alla media milanese: 2,2 abitanti per locale contro lo 0,71 della media di Milano.

Insomma, se il clandestino viene percepito dagli autoctoni come una persona che in genere commette reati e determina un abbassamento del costo del lavoro a loro danno è chiaro che, indipendentemente dal fatto che egli possa essere una brava persona o meno, ci troveremo dinanzi ai presupposti per la costruzione di un ambiente ostile per questa gente. E allora la risposta a questo problema non può che essere articolata in una serie di azioni rivolte all'esterno (cooperazione allo sviluppo con i paesi di provenienza per diminuire il numero delle partenze; corsi di formazione professionale in loco; progetti per agevolare gli investimenti in quei territori, ecc...) e all'interno dei confini nazionali (razionalizzazione dei flussi in ingresso sulla base di vari parametri che non siano solo quelli legati al mondo del lavoro ma anche alle politiche scolastiche, a quelle abitative e al welfare state; rispetto delle regole per l'ingresso e la permanenza nel territorio nazionale; parità di trattamento tra lavoratori stranieri ed autoctoni; ecc...).

Non è utile, quindi, puntare il dito e gridare al razzismo dilagante senza indagare sulle cause che creano un ambiente ostile per gli immigrati nel paese ospitante. L'unica via possibile è quella di analizzare razionalmente i motivi di questa situazione ed i possibili rimedi nel breve e nel lungo periodo.

lunedì 2 novembre 2009

Immigrazione e criminalità: Rapporto Caritas-Migrantes 2009



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

mercoledì 28 ottobre 2009

Il Dossier statistico di Caritas-Migrantes 2009 - edizione numero 19, presentato mercoledì 28 ottobre a Roma, dedica un approfondimento specifico al rapporto tra immigrazione e criminalità nella parte intitolata «Immigrati e criminalità. Dati, interpretazioni e pregiudizi», realizzata insieme a Redattore Sociale e già in parte anticipata il 6 ottobre scorso. La prima questione affrontata è se l'aumento della criminalità sia dovuto in maniera più che proporzionale all'aumento della popolazione residente. La risposta, secondo il dossier, è negativa. Nel periodo 2001-2005 l'aumento degli stranieri residenti è stato del 101% e l'aumento delle denunce presentate contro stranieri del 46%.

Seconda questione: ci si chiede se gli stranieri regolari siano caratterizzati da un tasso di criminalità superiore a quello degli italiani. A prima vista sembrerebbe proprio così: nel 2005 l'incidenza degli stranieri sulla popolazione residente è stata del 4,5% e l'incidenza sulle denunce penali con autore noto del 23,7% (130.131 su 550.590). In realtà, solo nel 28,9% dei casi sono implicati stranieri legalmente presenti e ciò abbassa il loro tasso di criminalità, che scende ulteriormente ipotizzando che anche gli italiani che delinquono siano per il 92,5% concentrati tra i ventenni e i trentenni (come accade tra gli stranieri) e considerando che il confronto non tiene conto dei reati contro la normativa sull'immigrazione: alla fine, il tasso di criminalità risulta essere analogo per italiani e stranieri.

Terza questione: ci si domanda se gli stranieri irregolari si caratterizzino per i loro comportamenti delittuosi. Secondo il Rapporto Caritas-Migrantes, è vero che, in proporzione, sono più elevate le denunce a loro carico, da riferire in parte al loro stato di maggiore precarietà e in parte anche al loro coinvolgimento nelle spire della criminalità organizzata. Sembra quasi la scoperta dell'acqua calda visto che si tratta di una semplice conferma di un dato noto sin dal rapporto sulla criminalità in Italiapresentato il 20 giugno del 2007. A questi dati potrebbero essere affiancati gli ultimi disponibili in materia, tratti dall'International Migration Outlook - Ocse/Sopemi 2009, che ci dicono che, per quanto riguarda il rapporto tra immigrazione e criminalità, nel 2008 i cittadini stranieri denunciati sono stati 205.188 (29,7% del totale), mentre gli stranieri arrestati sono stati 97.432 (49,2% del totale); al 1 settembre 2009 i detenuti stranieri erano 23.696 (37% del totale). Queste cifre, se confrontate con il tasso di incidenza degli stranieri sulla popolazione residente in Italia al 1 gennaio 2009 (5,8% secondo) sono davvero sproporzionati. Tuttavia è bene sottolineare che secondo il Censis a delinquere sono soprattutto gli irregolari e i clandestini e che il capo della polizia Manganelli, il 7 maggio scorso, in occasione del 157° anniversario della fondazione della Polizia, ha affermato che in Italia i clandestini arrivano a commettere il 30% dei reati e, in certe zone, il 70%.

Ricordiamo che già nel 2007 il ministro dell'Interno dell'ultimo governo di centrosinistra, Giuliano Amato, aveva affermato che «la criminalità si concentra, per quanto riguarda gli immigrati, nel mondo degli irregolari, sia per i reati in violazione della normativa sull'immigrazione, che per i rati predatori, particolarmente frequenti nel Nord Est italiano, in ragione della concentrazione di ricchezza e della notevole presenza di flussi migratori clandestini anche "mordi e fuggi" dall'Est dell'Europa».

Tutti questi dati ci dicono, quindi, che gli stranieri in regola commettono reati nella stessa percentuale degli italiani e che il vero problema è il tasso di criminalità di irregolari (stranieri che hanno perduto i requisiti necessari per la permanenza sul territorio nazionale, ad esempio quando il permesso di soggiorno è scaduto e non è stato rinnovato, di cui erano però in possesso all'ingresso in Italia) e clandestini (stranieri entrati in Italia senza regolare visto di ingresso). La conclusione da trarne, senza fare tanti giri di parole, è quella di rispondere attraverso la repressione, la cooperazione allo sviluppo con i paesi di provenienza degli immigrati e l'aiuto delle istituzioni comunitarie.

lunedì 26 ottobre 2009

Riforma degli ammortizzatori sociali dopo la crisi



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

venerdì 23 ottobre 2009

«Nella dialettica sul posto fisso la parola chiave sono gli ammortizzatori sociali anche se c'è uno strumento che viene prima: è il diritto della persona alla conoscenza e alla competenza». Lo ha ribadito il titolare del Lavoro, Maurizio Sacconi, nel suo intervento all'assemblea elettiva della Cna evidenziando che se una persona è autosufficiente nel mercato attraverso la conoscenza e la competenza «allora costruiamo persone occupabili». E per il ministro questo vuol dire «fare delle scelte e ritenere che il lavoro deve essere la parte del processo educativo della persona».

Sacconi ha centrato in pieno i termini della questione. In generale l'ideale sarebbe fare (bene) un lavoro che piaccia (e qui non centra il Legislatore), sia esso con contratto a tempo indeterminato, a termine o con partita iva, senza forzature estreme da parte del Legislatore che irrigidiscano o precarizzino il mercato del lavoro ma con interventi in grado di dare una certa stabilità al percorso lavorativo di una persona. Ed è per questo che occorre portare al centro della discussione inerente le dinamiche del mercato del lavoro una riforma degli ammortizzatori sociali che allarghi la platea dei potenziali beneficiari, in modo positivo e non parassitario, verso quelle forme di protezione sociale in grado di dare una certa stabilità e serenità. Il primo passo è già stato fatto (art. 2, comma 36, della legge n. 203/2008; art. 19 della legge n. 2/2009; art. 7-ter della legge n. 33/2009) con l'allargamento della cassa integrazione ad una parte di lavoratori che prima non ne beneficiavano e la speranza è che questa breccia aperta nell'iniquo sistema del welfare nostrano sia l'inizio di un percorso che modifichi lo status quo.

Il governo ha confermato l'intenzione di voler riformare gli ammortizzatori sociali, anche se, secondo il ministro Sacconi, «quello della grande crisi non è il momento più idoneo per farlo». Lo stesso ministro ha precisato l'intenzione di «voler mantenere il concetto assicurativo dell'ammortizzatore sociale». «Dobbiamo pensare a mantenere un sistema degli ammortizzatori a due pilastri: indennità di disoccupazione da un lato, e cassa integrazione o contratto di solidarietà fondato sul ruolo delle parti sociali, non privatistico ma che preveda un prelievo, anche obbligatorio, attraverso la bilateralità», ha detto il ministro. «Siamo pronti a discutere la riforma degli ammortizzatori sociali ma dobbiamo uscire dalla condizione nella quale necessariamente dovremmo fare cose che possono essere in contraddizione con ciò che pensiamo di fare a regime».

Secondo il Rapporto Svimez 2009 l'anomalia del sistema del welfare italiano è soprattutto nella sua composizione, troppo sbilanciata verso i trattamenti previdenziali, ai quali destina circa il 20% in più degli altri partners europei. «Per quel che riguarda la spesa per le politiche di sostegno al reddito, nei casi di disoccupazione o di corsi di formazione per il reinserimento nel mercato del lavoro, restano forti differenze tra i vari Stati europei: la media dell'Ue è del 5,6% sul totale ma varia tra il 12% di Belgio e Spagna e il 2% dell'Italia. La riorganizzazione e razionalizzazione della spesa sociale passa attraverso la realizzazione di politiche di welfare to work, puntando sempre più su un'inclusione attiva nel mercato del lavoro. Ma tale obiettivo è condizionato dal sistema previdenziale, in particolare per quel che riguarda la sua sostenibilità finanziaria. Oggi l'Italia è tra i partners Ue quello con la maggiore incidenza degli oneri previdenziali sul totale delle prestazioni sociali».

Insomma è chiaro che in Italia c'è un doppio squilibrio nel sistema del welfare: uno tra prestazioni pensionistiche e prestazioni a sostegno del redditto e l'altro all'interno dei beneficiari di queste ultime. La volontà del governo di non voler lasciar indietro nessuno è certamente la strada migliore per portare finalmente in equilibrio il sistema.

mercoledì 21 ottobre 2009

DALLA PARTE DEI LAVORATORI



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

martedì 20 ottobre 2009

«Non credo che la mobilità di per sé sia un valore, penso che in strutture sociali come la nostra il posto fisso è la base su cui organizzare il tuo progetto di vita e la famiglia». Lo ha detto il ministro dell'Economia Giulio Tremonti, chiudendo i lavori di un convegno organizzato dalla Bpm. «La variabilità del posto di lavoro, l'incertezza, la mutabilità - ha aggiunto il ministro - per alcuni sono un valore in sé, per me onestamente no». Una nota del ministero ha poi precisato che Tremonti «ha espresso a voce idee scritte negli anni passati». In particolare: «il primato darwinista del lavoro precario e mobile sul lavoro fisso e stabile è sempre stato contrastato dal prof. Tremonti. Oggi il prof. Tremonti ha espresso a voce idee che ha scritto negli anni passati e da ultimo nel volume La paura e la speranza».

Le parole del ministro, com'era prevedibile, hanno aperto una discussione su quale tipo di contratto sia meglio avere nel mondo del lavoro. Sul tema è intervenuto anche il premier Silvio Berlusconi, che ha dichiarato: «Per noi, come dimostrano i provvedimenti presi in questi mesi a tutela dell'occupazione, è del tutto evidente che il posto fisso è un valore e non un disvalore. Così come sono un valore le cosiddette partite Iva». Il presidente del Consiglio ha poi aggiunto che «il governo è a fianco dei milioni di italiani che lavorano come collaboratori dipendenti così come è a fianco di milioni di italiani che intraprendono, rischiano e producono ricchezza per sé e per i loro collaboratori, nell'interesse dell'Italia. Il governo lavora per una società fatta di libertà, di sviluppo economico e di solidarietà. A questi principi dell'economia sociale di mercato si ispira anche la tutela della famiglia come prezioso elemento di stabilità sociale ed economica, in piena sintonia con la Carta dei Valori del Popolo della Libertà, Carta che è esattamente la stessa della grande famiglia della libertà e della democrazia in Europa che è il Partito del Popolo Europeo».

Innanzitutto partiamo dai numeri per capire i termini della questione. In Italia, secondo gli ultimi dati Istat, su 17,328 milioni di lavoratori dipendenti 15,113 milioni hanno il posto fisso (13,012 a tempo pieno e 2,101 a tempo parziale) con un tasso di incidenza sul totale degli occupati in crescita nel secondo trimestre del 2009 (65,1%) rispetto allo stesso periodo dello scorso anno (63,8%). I lavoratori dipendenti con un contratto a termine, invece, sono 2,214 milioni (1,699 milioni a tempo pieno e 515 mila a tempo parziale) con un tasso di incidenza sul totale degli occupati nel secondo trimestre del 2009 (9,5%) inferiore rispetto allo stesso periodo del 2008 (10,4%). I lavoratori indipendenti sono 5,875 milioni (5,145 milioni a tempo pieno e 730 mila a tempo parziale) con un tasso di incidenza sul totale degli occupati nel secondo trimestre dell'anno in corso (25,3%) inferiore rispetto allo stesso periodo del 2008 (25,8%).

I dati disponibili ci dicono che nel confronto tra il secondo trimestre 2009 e il secondo trimestre 2008, nel pieno della crisi economica mondiale, il tasso di incidenza dei lavoratori con il posto fisso sul totale degli occupati è cresciuto, mentre quello dei dipendenti con contratto a termine e degli indipendenti è diminuito. Il totale degli occupati nel nostro paese nel secondo trimestre dell'anno in corso è pari a 23,203 milioni di persone, con una flessione di 378 mila lavoratori rispetto allo stesso periodo del 2008. L'emorragia di posti di lavoro, secondo l'Istat, nel periodo di riferimento, quindi, è stata pari all'1,6%. Un dato confortante se paragonato a quelli degli altri paesi. Secondo l'ultimo bollettino della Commissione Europea sulla situazione dell'occupazione, infatti, a luglio in Spagna i disoccupati erano 4,3 milioni (18,5%), in Francia 2,8 milioni (9,8%), nel Regno Unito 2,4 milioni (7,7%), in Italia 1,9 milioni (7,4%), in Germania 3,3 milioni (7,7%), in Polonia 1,4 milioni (8,2%).

Ma, guardando al nostro paese, dove c'è stata l'emorragia dei posti di lavoro? Sempre secondo gli ultimi dati Istat, nel secondo trimestre 2009, rispetto allo stesso periodo del 2008, si registrano meno 168 mila lavoratori dipendenti (più 61 mila posti fissi e meno 229 mila persone con contratti a termine) e meno 210 mila lavoratori indipendenti (meno 119 mila a tempo pieno e meno 91 mila a tempo parziale). I dati ci dicono, quindi, che la crisi ha colpito il lavoro dipendente a termine e, in misura maggiore, quello indipendente. A questo punto, però, bisogna aggiungere che il nostro sistema di protezione sociale, e cioè le prestazioni a sostegno del reddito, non coprono ancora tutti i lavoratori. Il governo in carica e le regioni hanno fatto uno sforzo notevole allargando le protezioni sociali con gli ammortizzatori in deroga per l'anno 2009 ad una parte di lavoratori che prima non ne beneficiavano (l'esecutivo ha stanziato risorse nazionali per 5,35 miliardi, di cui 1,4 dal fondo per l'occupazione e 3,95 dal fondo per le aree sottoutilizzate, mentre le regioni 2,65 miliardi a valere sui programmi regionali Fse). E proprio i dati Inps, che indicano che le richieste per la Cigs in deroga sono state pari a 16,2 milioni di ore, il fattore di crescita più dinamico di tutto il sistema, segnalano la bontà del percorso intrapreso.

Il governo, come ha dichiarato il ministro Claudio Scajola a Ballarò, si impegnerà affinché non si sforino determinate livelli di flessibilità e perché non diventi sinonimo di precarietà, bensì di progressiva stabilizzazione. In ogni caso la flessibilità, come ha ricordato il ministro dello Sviluppo Economico, ha consenstito di creare 3 milioni di posti di lavoro in più, di passare da un livello di disoccupazione del 12% ad un 7%. E' interesse degli imprenditori che investono sulla qualità e sulla professionalità dei ruoli stabilizzare figure professionali che essi stessi, con il tempo, hanno contributito a formare.

venerdì 16 ottobre 2009

La strana meritocrazia giudiziaria


di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

giovedì 15 ottobre 2009

Finalmente un caso di meritocrazia nell'Italia imbalsamata, dove l'ascensore sociale è perennemente guasto. Con una delibera, che ne sottolinea «indipendenza, imparzialità ed equilibrio», il Csm ha dato una promozione a Raimondo Mesiano, il giudice del Tribunale civile di Milano che ha condannato senza neanche uno straccio di perizia la Fininvest al risarcimento di 750 milioni di euro a favore della Cir di Carlo De Benedetti per la vicenda del Lodo Mondadori.

Il plenum di Palazzo dei Marescialli ha riconosciuto a Mesiano il massimo grado raggiungibile da un magistrato nella sua carriera, sancendo il superamento da parte sua della settima valutazione di professionalità. Il provvedimento è stato motivato anche dalla «capacità, laboriosità, diligenza ed impegno dimostrati» da Mesiano nell'esercizio delle sue funzioni. La promozione è passata all'unanimità e senza nessuna discussione ed è stata inserita in un ordine del giorno speciale. Il provvedimento è retroattivo, visto che il riconoscimento decorre dal 13 maggio del 2008 e comporterà per il magistrato un aumento di stipendio oltre alla possibilità di concorrere per incarichi che sinora gli erano preclusi. Intanto martedì prossimo la Prima Commissione aprirà una pratica a tutela di Mesiano, dopo gli attacchi ricevuti per la sentenza sul Lodo Mondadori.

Povero giudice! Dopo anni passati a sgobbare, coperto dal cono d'ombra del lavoro dei colleghi mediaticamente più famosi, senza ricevere neanche una pacca sulla spalla, ecco arrivare una bella sentenza a danno della Fininvest per accendere la luce dei riflettori ed aprire le porte alla notorietà. E fino a questo punto nulla di nuovo. La novità è la tempistica con cui il Csm ha premiato il giudice e cioè solo pochi giorni dopo la citata sentenza. Che cosa dovrebbe pensare anche il più ingenuo spettatore dei fatti di questo paese? Non conosciamo il giudice Mesiano: magari merita tutte le promozioni di questo mondo. Ma certo averne una a pochi giorni da una sentenza che colpisce la Fininvest sotto la cintura non può passare come un fatto inosservato e non far sorgere qualche dubbio, almeno sotto il profilo dell'opportunità nella scelta dei tempi.

Ma tutto ciò non bastava e, per non farsi mancare proprio niente, il Consiglio Superiore della Magistratura ha fatto di più ed ha chiuso in bellezza. Nella stessa giornata in cui ha premiato il giudice Mesiano, il plenum del Csm ha deliberato la settima valutazione di professionalità per Felice Casson, il magistrato oggi fuori ruolo perché eletto senatore per il Pd. Il consigliere laico del centrodestra Gianfranco Anedda si è opposto all'approvazione di questa pratica, chiedendone il rinvio in Commissione, ma, essendo stata respinta la sua istanza, ha abbandonato l'aula Bachelet e non ha partecipato al voto. Il Csm ha inoltre conferito la quinta valutazione di professionalità a Lanfranco Tenaglia, altro magistrato fuori ruolo, attualmente responsabile giustizia del Partito Democratico. Stiamo parlando di tre giudici di cui uno ha appena condannato la Fininvest a pagare 750 milioni di euro alla Cir di De Benedetti, e gli altri due sono rispettivamente senatore e deputato del Pd. Per carità, nessuna ipotesi maliziosa su quali siano i loro meriti...

domenica 11 ottobre 2009

I risultati del Governo nella lotta alla criminalità



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

venerdì 09 ottobre 2009


«Ogni giorno sono stati arrestati otto mafiosi dall'inizio del governo Berlusconi». Lo ha affermato il ministro dell'Interno Roberto Maroni illustrando un documento sul contrasto alla mafia svolto nei primi 15 mesi di attività che è stato presentato al Consiglio dei ministri. Maroni ha detto anche che dall'inizio dell'azione di governo sono stati sciolti «12 consigli comunali per infiltrazioni mafiose rispetto agli otto sciolti nello stesso periodo del governo precedente. Sono risultati che non hanno precedenti, è una stagione straordinaria». Ed ha aggiunto un particolare inquietante: l'azione del governo Berlusconi per il contrasto alla mafia sta provocando «preoccupazioni all'interno degli ambienti mafiosi, anzi una forte irritazione che ha portato a registrare segnali nei confronti del governo Berlusconi per fermare questa azione straordinaria. Minacce arrivano da ambienti mafiosi verso i soggetti più esposti, stiamo monitorando e continueremo nell'azione di contrasto perché vogliamo vincere la guerra contro la mafia, non solo qualche battaglia. A fine legislatura vogliamo porre fine a questo cancro che per tanti decenni ha imperversato nelle nostre regioni», ha concluso Maroni. Un'ipotesi ottimistica, quella del ministro, che comunque esplicita con parole forti la volontà del governo in carica di mettere alle strette la malavita organizzata.

Ma le parole non bastano e servono i fatti. Eccoli: durante questo primo periodo del Governo Berlusconi, secondo la relazione del Ministro dell'Interno, sono stati arrestati 270 latitanti, il 91% in più rispetto ai 17 mesi precedenti. Le operazioni di polizia giudiziaria effettuate sono state 335 (+40%), gli arresti complessivi 3.479 (+26%). Dei 270 latitanti finiti in manette, 13 (+62%) sono quelli inclusi nell'elenco dei 30 più pericolosi e 35 (+119%) quelli inseriti nell'elenco dei cento più pericolosi. I 9.118 beni sequestrati alla mafia durante il governo Berlusconi, per un valore di 5 miliardi e 372 milioni di euro, costituiscono un incremento del 52% rispetto ai 17 mesi precedenti. I beni confiscati sono stati 2.219, per un valore di 1 miliardo e 512 milioni di euro, con un incremento del 304%. Riguardo, poi, al Fondo unico di giustizia appena istituito, le somme recuperate al 30 settembre 2009 ammontano a 676,7 milioni di euro. Grazie alla nuova normativa sui respingimenti gli sbarchi dei clandestini sono diminuiti del 90%» dal 5 maggio al 30 settembre (erano 19.000 nel 2008 sono stati solo 1.900 nel 2009).

E' innegabile, quindi, dati alla mano, che il governo in carica non si è limitato ai buoni intenti ma ha agito con fatti concreti cercando di contrastare la criminalità organizzata con tutti i mezzi a disposizione. Ovviamente la repressione deve essere solo un aspetto della lotta al fenomeno e certamente la risposta dello Stato alle sfide lanciate dalla criminalità deve essere fatta senza soste. Le persone oneste che vivono in certe realtà difficili del nostro territorio, non solo al Sud ma anche al Nord, devono sentirsi parte di un unico progetto di lotta contro le mafie in cui ognuno deve fare la propria parte a seconda del ruolo che ricopre. Questo è un argomento che non può essere fonte di divisione, ma deve diventare, se ancora non lo è, un terreno comune dove magari si può discutere sulle modalità di intervento ma non sull'obiettivo finale, che deve essere quello dell'affermazione della legalità in ogni angolo del nostro Paese. Nessuno, dal punto di vista politico, si può appuntare moralmente sul petto la medaglietta dell'unico difensore della legalità in questo Paese perché si tratta di un sentimento condiviso che oltrepassa gli steccati politici ed anche perché, nel momento stesso in cui si compie questa scellerata operazione, si creano divisioni in un campo in cui, invece, occorre la massima unità possibile tra coloro che a vario titolo contrastano la galassia criminale.

Devono essere i fatti a dimostrare che si fa la lotta alla criminalità e non le chiacchiere, le ipotesi campate per aria, le teorie fondate sul nulla e senza alcun riscontro, magari espresse in qualche convegno, studio televisivo o comizio, dove finiti gli applausi e spente le luci tutto resta come prima..

venerdì 9 ottobre 2009

Il rapporto Ue sui conti pubblici



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

mercoledì 07 ottobre 2009

La Commissione Europea si prepara ad aprire una procedura per deficit eccessivo nei confronti dell'Italia ed ha presentato il rapporto sui conti pubblici richiesto dal Patto di stabilità e di crescita come primo passo verso l'apertura di un dossier. Interessati dal provvedimento sono anche il Portogallo, l'Austria, il Belgio, la Repubblica Ceca, la Germania, l'Olanda, la Slovacchia e la Slovenia. La procedura è scattata secondo l'articolo 104.3 del Trattato Ue, nell'ambito del Patto di stabilità e crescita che fissa i tetti da non superare e cioè un deficit non superiore al 3% del Pil e un debito pubblico non oltre il 60% del prodotto interno. Ricordiamo che la precedente procedura nei confronti dell'Italia, aperta nel giugno 2005, era stata chiusa nel giugno 2008.

La Commissione Europea ha sottolineato comunque che si tratta di uno sforamento eccezionale, dovuto alla crisi, non però temporaneo. «Nell'aprile del 2009 - si legge nel testo - le autorità italiane hanno notificato un deficit pubblico programmato al 3,7% del Pil nel 2009, superando così il valore di riferimento del 3%, e un debito pubblico pari al 110,5% del Pil, ben al di sopra del valore di riferimento del 60%». Bruxelles sottolinea che da allora il governo italiano ha modificato le previsioni, vista anche la crisi economica e i costi delle misure straordinarie. Così, sottolinea la Commissione, «secondo il Dpef adottato dall'esecutivo il 22 settembre 2009, il deficit generale del governo secondo i piani raggiungerà il 5,3% del Pil nel 2009, e il debito pubblico sarà al 115,1% del Pil». Dunque, conclude la Commissione, «le cifre pianificate per deficit e debito nel 2009 forniscono la prova evidente dell'esistenza di un deficit eccessivo in Italia ai sensi del Trattato e del Patto di stabilità e crescita. La Commissione ha dunque deciso di avviare una procedura di deficit eccessivo per l'Italia adottando questo rapporto».

Da segnalare che l'Eurostat conferma, nella sua seconda stima, il rallentamento del calo del Pil in Eurolandia e nell'Ue-27 nel secondo trimestre 2009. Un calo, rispettivamente, dello 0,2% (-0,1% la prima stima) e dello 0,3% (-0,2% la prima stima). Nel primo trimestre dell'anno il calo era stato del 2,5% in Eurolandia e del 2,4% nell'Ue-27. Anche in Italia il Pil ha rallentato la caduta, segnando un -0,5% rispetto al -2,7% del primo trimestre.

La Commissione Europea, attraverso le cosiddette procedure di eccessivo-deficit, può stabilire delle scadenze per i paesi dell'Ue per la correzione dei bilanci. Queste raccomandazioni saranno pubblicate prima della fine dell'anno, in attesa dell'approvazione finale da parte dei ministri delle Finanze del blocco europeo.

Ma nel rapporto non ci sono solo ombre. La Commissione, infatti, ha rilevato come «alcuni recenti sforzi di riforma nell'area della Pubblica Amministrazione e dell'Istruzione sono mirati a migliorare l'efficienza della spesa e a limitare i costi, anche se è troppo presto per valutare il loro impatto». Inoltre l'adozione, per la prima volta nel luglio 2008, di un piano pluriennale per il consolidamento di bilancio ha «considerevolmente migliorato il quadro di bilancio di medio termine. Nonostante ciò, anche a causa delle politiche di sostegno alla domanda interna in linea col piano di rilancio europeo, la spesa primaria è prevista crescere in maniera significativamente veloce nel 2009, rispetto a quanto pianificato originariamente». Bruxelles sottolinea anche che il pacchetto di misure anticrisi messe in campo dal governo «rappresenta un'adeguata risposta alla recessione economica», tenendo conto dell'elevato debito pubblico e dei margini di manovra a disposizione del nostro paese.

Ma la Commissione Europea ci fa sapere anche cose (note) che forse non saranno accolte con piacere dalla Cgil e dal Partito Democratico - viste le loro posizioni - e cioè che l'Italia spende troppo in pensioni e stipendi pubblici rispetto al Pil: «La composizione dei conti pubblici in Italia è segnata da un alto costo del debito e da un'alta spesa pensionistica, che tolgono spazio ad una spesa più produttiva così come altre spese sociali e contribuisce alla rigidità complessiva della spesa pubblica» e che «le retribuzioni del settore pubblico mostrano delle tendenze che non sono legate alle condizioni economiche».

Insomma, il rapporto della Commissione Europea bacchetta l'Italia, e altri nove paesi, per lo sforamento (causato dal combinato disposto della crisi economica mondiale e da un debito pubblico enorme) dei parametri previsti dal Patto di stabilità e di crescita e promuove il nostro governo per la validità delle misure anticrisi adottate, cosa peraltro riconosciuta anche dall'ultimo World Economic Outlook del Fondo monetario internazionale, e per gli interventi volti a migliorare l'efficienza della nostra spesa pubblica e a limitare i costi.
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