giovedì 30 agosto 2007

Il Mezzogiorno è vivo


di Antonio Maglietta - 30 agosto 2007


Nel Mezzogiorno il 25% dei laureati meridionali a tre anni dal termine degli studi trova lavoro con canali «informali», contro il 12% dei colleghi che si sono trasferiti al Nord. E nonostante la conquista del titolo di studio, la mobilità sociale resta scarsa: nel periodo in esame, sul totale degli occupati, il 72% al Sud non hanno modificato il proprio status, contro il 61% del Centro-Nord. Lo rilevano le anticipazioni di uno studio di Margherita Scarlato che sarà pubblicato sul prossimo numero della Rivista Economica del Mezzogiorno, trimestrale della Svimez (Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno). Nonostante il conseguimento di un titolo di studio superiore, nella ricerca di un posto di lavoro al Sud a farla da padrona restano la conoscenza diretta, la segnalazione da parte di parenti e conoscenti o la prosecuzione di un'attività familiare già esistente. Nel 2004 (ultimi dati disponibili) è stato forte anche il numero di coloro che sono ricorsi ai concorsi pubblici (15%), mentre trovare lavoro con il collocamento pubblico e privato è servito solo a un'estrema minoranza: rispettivamente 1,7 e 2,3%.
Nel Sud, infatti, laurearsi è importante, si legge nello studio, ma «se si proviene dalla famiglia "giusta", non solo perchè ricca ma pure perchè inserita in un reticolo di rapporti sociali». Per le famiglie dei ceti sociali più bassi l'investimento negli studi universitari è rischioso. «La laurea riduce il rischio che lo studente resti disoccupato, ma non riduce il rischio di trovare un'occupazione mal retribuita». Lo dimostra il fatto che i giovani meridionali nel Centro-Nord ottengono spesso condizioni contrattuali peggiori di quelle conseguite da coloro che restano nel Mezzogiorno. Il 60,3% dei laureati meridionali che lavorano al Centro-Nord, a tre anni dalla laurea, sono impiegati con un contratto a tempo determinato e lo 0,9% lavora senza contratto a fronte del 41,7% e dello 0,3% dei laureati e occupati nel Mezzogiorno. A livello regionale, i laureati meridionali più fortunati abitano in Sardegna, con il 64% degli occupati che nel 2004 avevano studiato e trovato lavoro in regione, a fronte di una media (riferita sempre al Mezzogiorno) del 53,6%. I più sfortunati in Molise, con solo il 39,9% degli occupati. I meridionali laureati al Centro-Nord presentano tassi di occupazione assai elevati, con un minimo del 69,1% in Calabria e un massimo dell'83,9% in Abruzzo e Sicilia.
Insomma, si tratta di uno studio (attendiamo comunque la pubblicazione integrale) con nuove luci e vecchie ombre (l'alta incidenza del collocamento formato «spintarella»). Parliamo delle nuove luci. L'incidenza del lavoro nero sul totale dei giovani occupati neolaureati del Sud è pari allo 0,9% al Nord ed allo 0,3% nel Mezzogiorno. Insomma un'inezia. Questo significa, inoltre, che la stragrande maggioranza del «lavoro nero», piaga sociale endemica del mondo del lavoro italiano in generale, si concentra pressoché totalmente nei lavori poco qualificati o, in ogni caso, riguarda i lavoratori senza laurea e quindi con un minor potere contrattuale.
Altro dato che vale la pena di sottolineare con forza, forse il più importante, è che finalmente si parla di qualità del lavoro dei giovani del Sud e non di disoccupazione. Meglio un contratto a termine di un lavoro nero o, peggio ancora, della disoccupazione. Queste due ultime realtà sono i veri elementi di precarietà della realtà giovanile. Inoltre, se al primo impiego è alta l'incidenza del lavoro atipico, diversi studi, anche specifici sui neolaureati come quello del IX Rapporto AlmaLaurea («a cinque anni dalla laurea sono stabili 31 laureati su cento nel pubblico contro 72 nel privato»), ci dicono che la stabilità non è una chimera. Insomma, i primi dati trapelati sullo studio condotto dalla Svimez ci dicono che il Sud è vivo e vegeto e non ha bisogno dell'assistenzialismo statale che tanti danni ha fatto in passato.

Autunno caldo: l'età pensionabile delle donne


di Antonio Maglietta - 25 agosto 2007


Dopo la chiusura dell'accordo a livello politico e sindacale sul tema del welfare, e la sottoscrizione del relativo protocollo del 23 luglio scorso, Romano Prodi ha tirato un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo. Mai come in quei giorni di fine luglio il suo Governo è sembrato una barca alla deriva pronta a schiantarsi sugli scogli. Il pericolo, per ora, è scampato, anche se è lo stesso Prodi il primo a sapere che la materia resta incandescente per tanti motivi; se non altro perché quella unione di intenti registrata a fine luglio, già sgretolatasi sotto i colpi della sinistra radicale, ora dovrà essere tramutata in legge in autunno, probabilmente all'interno della prossima Finanziaria.
Sono tanti i problemi rimasti irrisolti, e sui quali la sinistra radicale ha promesso battaglia in Parlamento ed un fantomatico referendum da promuovere all'interno del suo elettorato di riferimento: lo scalone Maroni sostituito con tanti scalini, la lista dei lavori usuranti, i contratti a termine, l'abolizione della legge Biagi. Sul primo punto è bene ricordare che una delle ipotesi al vaglio dei tecnici del ministero dell'Economia, per trovare la copertura finanziaria per il superamento dello scalone, era l'innalzamento dell'età pensionabile per le donne o, addirittura, una sua equiparazione con quella degli uomini. L'ipotesi, come sappiamo, è tramontata e la soluzione è stata un'altra. Tuttavia è passato inosservato un ricorso (Causa C-46/07) presentato il 1º febbraio 2007 dalla Commissione delle Comunità europee alla Corte di Giustizia (rappresentanti: L. Pignataro-Nolin e M. van Beek, agenti) contro la Repubblica italiana. Un ricorso che, qualora andasse a buon fine, avrebbe effetti devastanti per gli equilibri politici del centrosinistra.
La Commissione ritiene che il regime pensionistico gestito dall'Inpdap (Istituto Nazionale della Previdenza per i Dipendenti dell'Amministrazione Pubblica) costituisca un regime professionale discriminatorio contrario all'art. 141 CE, dal momento che prevede come età pensionabile generale per gli uomini 65 anni e per le donne 60. Ex art. 141 del Trattato CE:
1. Ciascuno Stato membro assicura l'applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore.
2. Per retribuzione si intende, a norma del presente articolo, il salario o trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell'impiego di quest'ultimo.
La parità di retribuzione, senza discriminazione fondata sul sesso, implica:
a) che la retribuzione corrisposta per uno stesso lavoro pagato a cottimo sia fissata in base a una stessa unità di misura;
b) che la retribuzione corrisposta per un lavoro pagato a tempo sia uguale per uno stesso posto di lavoro.
3. Il Consiglio, deliberando secondo la procedura di cui all'articolo 251 e previa consultazione del Comitato economico e sociale, adotta misure che assicurino l'applicazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, ivi compreso il principio della parità delle retribuzioni per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore.
4. Allo scopo di assicurare l'effettiva e completa parità tra uomini e donne nella vita lavorativa, il principio della parità di trattamento non osta a che uno Stato membro mantenga o adotti misure che prevedano vantaggi specifici diretti a facilitare l'esercizio di un'attività professionale da parte del sesso sottorappresentato ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali.
La Commissione chiede alla Corte di dichiarare che, mantenendo una normativa in forza della quale i dipendenti pubblici hanno diritto a ricevere la pensione di vecchiaia ad età diverse a seconda che siano uomini o donne, la Repubblica italiana ha mancato agli obblighi di cui all'articolo 141 CE (e pertanto condannare la Repubblica italiana al pagamento delle spese di giudizio). Se l'Italia sarà condannata, e quindi invitata a conformarsi alla decisione della Corte, cosa farà il governo Prodi? Aumenterà l'età pensionabile delle donne, portandola allo stesso livello di quella degli uomini, e provocare così le ire della sinistra radicale, che ai richiami giurisprudenziali di Bruxelles e dintorni (la Corte ha sede in Lussemburgo) preferisce, ancora, quelli ideologici dell'Avana? Deciderà di aprire un contenzioso con la Commissione, rischiando di subire l'apertura di una procedura d'infrazione, per restare attaccato alla poltrona (sempre se sarà ancora in sella...)? Inutile aspettarsi scelte di buon senso. Fino ad ora ha prevalso l'ideologia regressista della sinistra radicale e l'interesse di bottega o di «Botteghino».

Precariato: numeri e propaganda


di Antonio Maglietta - 21 agosto 2007


La sinistra, in preda ad un'inarrestabile crisi di consensi e credibilità, è alla disperata ricerca di nuovi totem ideologici in grado di creare il giusto appeal per le nuove classi sociali «proletarie», figlie della globalizzazione e della modernizzazione. In questo contesto, far proprie le tematiche relative al fenomeno del precariato potrebbe diventare la chiave di volta per superare la crisi. Il tema, se ben alimentato nel mito e, soprattutto, se ancor meglio cavalcato attraverso proposte demagogiche che, a detta dei guru della sinistra, porterebbero alla sua eliminazione, potrebbe diventare il nuovo generatore di consensi politici, soprattutto tra i giovani. L'ambiente in cui muoversi è sempre lo stesso: il mondo del lavoro. I temi dello scontro anche: ci sono pochi padroni che per avidità sfruttano le masse (ieri proletari, oggi, invece, giovani e precari) e lo Stato non solo è inerte nel privato, ma addirittura è connivente, vista la presenza del fenomeno anche nel settore pubblico. Inoltre il precariato investe un valore sociale fondante della sinistra: l'uguaglianza. Insomma, ci sono tutti i presupposti affinché il precariato diventi il nuovo tema forte da cavalcare in chiave politica.
Ma quali sono le cifre? Partiamo con il dettaglio del settore pubblico. Secondo il conto annuale 2005 della Ragioneria Generale dello Stato, nel totale del pubblico impiego si contano:
Lavoro a tempo indeterminato: 3.369.493 lavoratori con un contratto a tempo indeterminato;
Lavoro non a tempo indeterminato:
124.283 lavoratori con un contratto a tempo determinato;
9.067 lavoratori interinali;
34.459 lavoratori socialmente utili (lsu);
4.786 lavoratori con contratto di formazione lavoro.
Secondo l'ispettore generale della Ragioneria Generale dello Stato, Giuseppe Lucibello, a questi dati bisogna aggiungere circa 200 mila cosiddetti «precari storici» della scuola (con «storici» si intendono i docenti inseriti nelle graduatorie per concorsi e titoli e quelli delle graduatorie permanenti della legge n. 124 del 1999, che sono comunque soggetti in possesso di abilitazione, o perché hanno conseguito l'idoneità in base a una procedura concorsuale nelle scuole speciali - cosiddette SIS - o in analoghi istituti). Insomma, nel totale del pubblico impiego, stando ai dati ufficiali, si contano circa 350 mila lavoratori flessibili, con un tasso d'incidenza, sull'intero settore pubblico, inferiore al 10%.
In generale (pubblico e privato), secondo gli ultimi dati dell'Istat (19 giugno 2007), i lavoratori dipendenti con contratto a termine sono 2.126.000 su un totale di 22.846.000, con un tasso d'incidenza del 9,3% (rimasto invariato nel trimestre 2007 rispetto a quello dell'anno precedente). Va aggiunto che le cifre menzionate si riferiscono genericamente al lavoro flessibile e che, in tutto il globo terrestre, all'equazione flessibile=precario credono solo i comunisti nostrani (lo stesso ministro del Lavoro, il diessino Cesare Damiano, ha candidamente ammesso che esiste la «buona flessibilità»). Questo significa che quelle citate non sono le cifre del precariato, ma che i numeri del fenomeno vanno ricercati all'interno di quei dati. Per un'analisi dettagliata occorrono altri fattori che potremmo chiamare «elementi d'insicurezza». Secondo il presidente dell'Istat, Luigi Biggeri, tali elementi s'identificano nella mancanza di continuità nella partecipazione al mercato del lavoro e alla conseguente mancanza di un reddito adeguato su cui poter contare per pianificare la propria vita nel presente e nel futuro. Insomma, i numeri del precariato, in generale, vanno ricercati all'interno del dato Istat che parla di 2.126.000 contratti a termine su un totale di circa 23 milioni di lavoratori (tasso d'incidenza 9,3%).
E' chiaro, quindi, che l'allarmismo della sinistra non trova riscontro nella realtà dai fatti. Il problema precariato esiste, ma va inquadrato come fenomeno circoscritto e non come allarme sociale. La tanta vituperata (a sinistra) legge Biagi, mettendo regole e garantendo diritti laddove prima non c'erano e sottraendo quindi prezioso terreno al lavoro nero e all'illegalità, ha rappresentato un argine a difesa dei lavoratori più deboli e, in generale, al dilagare del precariato. La sinistra, invece, puntando tutto sulle sanatorie assistenzialiste (nel pubblico impiego con la Finanziaria 2007) e sull'irrigidimento dei contratti (nel privato con il protocollo sul welfare, da tradurre in legge in autunno) sbaglia totalmente l'obiettivo, danneggiando ulteriormente i cittadini, che già si sono visti mettere le mani in tasca dal governo Prodi per finanziare pseudo-iniziative sociali dannose ed improduttive.

Parte da Forza Italia un'iniziativa contro l'assenteismo


di Antonio Maglietta - 9 agosto 2007


Un'interrogazione presentata da Simone Baldelli (Forza Italia) ha fatto puntare i riflettori dei media su una norma, presente nell'ipotesi di contratto collettivo relativa al comparto ministeri, che prevedeva sanzioni più leggere, rispetto al precedente contratto, per gli assenteisti che manomettevano i cartellini marcatempo. La questione, da tema di carattere tecnico-giuridico, si è spostata sul piano politico allorquando lo stesso deputato azzurro, insieme al collega della Rosa nel Pugno Lanfranco Turci, ha promosso, sul punto in questione, una lettera aperta al governo, sottoscritta, in maniera trasversale, da onorevoli di centrodestra e centrosinistra: Enrico La Loggia (Forza Italia), Roberto Maroni (Lega Nord), Pietro Armani (Alleanza Nazionale), Angelo Compagnon (Udc), Nicola Rossi (Ulivo), Marco Boato (Verdi), Franco Grillini (Sinistra Democratica), Benedetto Della Vedova (Forza Italia), Cinzia Dato (Ulivo), Andrea Gibelli (Lega Nord), Felice Belisario (Italia dei Valori), Osvaldo Napoli (Forza Italia), Salvatore Buglio (Rosa nel Pugno), Bruno Mellano (Rosa nel Pugno), Carlo Castellani (Alleanza Nazionale), Angelo Piazza (Rosa nel Pugno), Ettore Peretti (Udc), Renato Galeazzi (Ulivo), Gianpaolo Dozzo (Lega Nord), Luigi Fabbri (Forza Italia), Carmelo Porcu (Alleanza Nazionale), Salvatore Greco (Udc), Mauro Del Bue (Dc per le Autonomie-Nuovo Psi). L'iniziativa, dal punto di vista tecnico, ha registrato anche il sostegno del professor Pietro Ichino, da tempo impegnato in una battaglia culturale contro il fenomeno della nullafacenza nel pubblico impiego.
Nella lettera si legge: «La preintesa sottoscritta dall'ARAN (Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni, l'organismo tecnico che svolge ogni attività relativa alla negoziazione e definizione dei contratti collettivi del personale dei vari comparti del pubblico impiego, ndr) determina... un grave alleggerimento del vigente regime sanzionatorio, già di difficile applicazione, che, ove la preintesa diventasse definitiva, risulterebbe del tutto inattuabile. Ci riferiamo, in particolare, all'introduzione di una nuova fattispecie nel codice disciplinare, specificamente riferita all'elusione dei sistemi di rilevamento elettronici della presenza e dell'orario, sanzionabile con il licenziamento solo in caso di recidiva plurima. Tale previsione finisce per rendere inapplicabile la sanzione, anche qualora i gravi episodi di assenteismo siano stati accertati in sede penale, ma non siano stati contestati dall'amministrazione». I promotori della lettera, inoltre, hanno espressamente chiesto al governo che «i prossimi contratti nazionali di lavoro del pubblico impiego prevedano comunque che l'eventuale sentenza che abbia accertato casi di assenteismo gravi, a tal punto da essere sanzionati dal giudice penale, determini il licenziamento disciplinare senza preavviso, come previsto dalla disciplina contrattuale vigente».
Lunedì scorso, con un'intervista apparsa sul quotidiano Il Messaggero, Massimo Masella Ducci Teri, presidente dell'ARAN, ha respinto le critiche sollevate dal fronte politico schierato contro gli assenteisti fraudolenti, affermando testualmente che: «Una sentenza della Cassazione ha stabilito che i cartellini marcatempo non sono atti pubblici. Quindi la loro falsificazione non può essere punita come "falso in atto pubblico". La violazione può essere sanzionabile solo se si configurano gli estremi di "truffa" ai danni dello Stato. Ma perché ci sia la truffa è necessario riconoscere una serie di comportamenti dolosi, e bisogna dimostrare che l'amministrazione ha subito un danno economicamente rilevante. C'era il rischio che le violazioni lievi non fossero più sanzionabili. Ecco perché abbiamo previsto nel contratto una punizione per chi ha semplicemente fatto il furbo, magari con un paio di giorni di assenza. E le sanzioni sono abbastanza forti, arrivano fino a sei mesi di sospensione. Il licenziamento resta possibile nei casi che implicano la truffa. In ogni caso, per escludere qualsiasi interpretazione bislacca di quell'articolo, in piena intesa con i sindacati, abbiamo deciso di aggiungere nei contratti una dichiarazione congiunta».
Da notare, comunque, che l'appello ha avuto il suo effetto, se la stessa Agenzia ha deciso di fare una aggiunta (seppur minima) alla pre-intesa per indirizzare la normativa su una linea maggiormente rigorista rispetto all'ipotesi iniziale. Quanto al merito della replica del presidente dell'ARAN, bisogna fare qualche considerazione sulla giurisprudenza della Corte di Cassazione e di conseguenza sulle ipotesi sanzionatorie a carico degli assenteisti. E' vero che la Cassazione ha stabilito che i cartellini marcatempo non sono atti pubblici (essendo essi destinati ad attestare da parte del pubblico dipendente solo una circostanza materiale che afferisce al rapporto di lavoro, oggi soggetto a disciplina privatistica, tra lui e la Pubblica Amministrazione) e che quindi la loro falsificazione non può essere punita come «falso in atto pubblico» (Cass. pen., S.U., 11 aprile-10 maggio 2006, n. 15983), sconfessando, peraltro, un orientamento sostenuto, ex multis, da una sentenza emessa l'anno prima (Cass. pen., sez. V, 17 gennaio 2005, n. 5676). Ergo, il licenziamento, stante la citata giurisprudenza, è ipotizzabile solo nel caso di truffa ai danni dello Stato.
Tuttavia non è propriamente esatto dire che le sanzioni più lievi rischiavano di non essere più sanzionabili. Teoricamente erano sanzionabili anche in precedenza: non dal giudice ordinario, bensì da quello contabile. Infatti il fenomeno rientra nella tipologia del «danno da disservizio» rilevabile dalla Corte dei Conti. Peraltro, se il fenomeno viene alimentato dalla falsificazione dei cartellini marcatempo, il giudice contabile ha tutto il diritto di intervenire anche se la fattispecie rientra nel campo della disciplina privatistica. Infatti la Corte di Cassazione, con l'ordinanza del 22 dicembre 2003, n. 19667, in merito ai limiti della giurisdizione del giudice contabile, ha stabilito che «l'amministrazione svolge attività amministrativa non solo quando esercita funzioni e poteri autoritativi, ma anche quando, nei limiti consentiti dall'ordinamento, persegue le proprie finalità istituzionali mediante un'attività disciplinata in tutto o in parte dal diritto privato». Da ciò deriva che la giurisdizione contabile, secondo la Cassazione, non è più necessariamente ancorata al quadro di riferimento (diritto pubblico o privato) nel quale si colloca la condotta produttiva del danno, ma al dato essenziale costituito dall'avvenuta verificazione di un evento in danno di un'Amministrazione pubblica. Allora, in teoria, la falsificazione del cartellino marcatempo, rientrando nell'ipotesi di «danno da disservizio», poteva essere benissimo sanzionata dal giudice contabile senza che tale fattispecie fosse tipicizzata (ossia espressamente prevista) in un'ipotesi sanzionatoria ben precisa.

martedì 7 agosto 2007

Pubblico impiego: una sanatoria tira l'altra?


di Antonio Maglietta - 7 agosto 2007


E' ormai noto che, con la Finanziaria 2007, il governo di centrosinistra, attraverso le cosiddette «stabilizzazioni» di tutti i lavoratori che non avevano un contratto a tempo indeterminato (ma che già prestavano la loro attività) nella Pubblica Amministrazione, ha promosso una vera e propria sanatoria nel pubblico impiego. I numeri di tale sanatoria sono ancora tutti da scoprire, perché, almeno per il momento, la norma più demagogica - quella che prevedeva la trasformazione a tempo indeterminato di tutti i contratti che non lo erano (articolo 1, comma 417) - sembra essere finita nel dimenticatoio. La situazione è resa ancor più caotica dalla presenza di circa 70.000 vincitori di concorso (ed altrettanti idonei che reclamano lo scorrimento delle graduatorie) in attesa da anni di firmare l'agognato contratto a tempo indeterminato, ma a cui il governo di centrosinistra, nonostante le continue sollecitazioni ricevute dal parlamento e le legittime aspettative di queste persone, sembra non dare ascolto. Come se non bastasse, è stato previsto che, per gli anni 2008 e 2009, per ogni 10 dipendenti pubblici che cesseranno il servizio saranno assunti 4 precari e solo 2 vincitori di prove selettive pubbliche: il rischio è che questi ultimi, dopo il veto degli anni scorsi dettato dalla presenza del blocco delle assunzioni, si ritrovino con un nuovo ostacolo ed ulteriori dilazioni nell'immissione in ruolo.
Non contenta del caos che si è creato, la sinistra ha pensato bene di porre le basi per una nuova, futura sanatoria, sotto forma di disegno di legge d'iniziativa parlamentare. Chi è il primo firmatario di questo nuovo atto all'insegna del «dentro tutti che c'è posto»? L'onorevole rifondarolo (indipendente), di lotta e di governo, Francesco Saverio Caruso. La proposta di legge reca il titolo: «Disposizioni per la stabilizzazione, attraverso la stipula di contratti a tempo indeterminato, dei lavoratori operanti nelle pubbliche amministrazioni con contratti di lavoro atipici, assegni di ricerca o similari, impegnati in lavori socialmente utili e dipendenti delle ditte o cooperative appaltatrici dei servizi pubblici». Premettiamo che la stabilizzazione di quelle posizioni lavorative che realmente vivono una situazione di precarietà da diversi anni è un atto dovuto, ma definire precariato tutte le forme di lavoro flessibile, senza l'aggiunta - tra le altre cose - del dato temporale, è vera e propria demagogia. All'equazione flessibilità=precariato ormai, in Italia e nel mondo, credono solo quelli delle sinistre «regressiste» - per usare un'espressione cara a Giampaolo Pansa.
Secondo Caruso, basterebbe avere un contratto diverso da quello a tempo indeterminato per essere qualificati come precari. Infatti, all'articolo 1 del suo disegno di legge l'onorevole no global stila con dovizia una lunga lista, tralasciando, come se fosse un inutile orpello, il dato temporale: lavoratori impiegati in lavori socialmente utili o in lavori di pubblica utilità (LSU-LPU); lavoratori con contratti di collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co.); lavoratori con contratti a progetto; lavoratori interinali; lavoratori con contratti di formazione e lavoro; lavoratori con contratto a tempo determinato; titolari di assegni di ricerca o similari alle dipendenze delle università o degli enti pubblici di ricerca; cantieristi; lavoratori dipendenti delle ditte e cooperative che gestiscono i cosiddetti «servizi pubblici esternalizzati». Insomma: un pò tutti. Ed il rispetto dell'articolo 97, comma 3, della Costituzione («Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge»)? Nessun problema: lo stesso disegno di legge (articolo 4) prevede che il governo disponga l'avvio di procedure concorsuali per soli titoli, con buona pace della meritocrazia e del buon andamento della Pubblica Amministrazione (articolo 97, comma 1, della Costituzione). Come se non bastasse, per l'accesso dall'esterno ai concorsi (o, nella dizione più giusta, pseudo-concorsi) il requisito richiesto è l'aver lavorato per dodici mesi nella Pubblica Amministrazione in una delle posizioni contrattuali già citate in precedenza.
Viene da chiedersi: se il governo deciderà di affossare il famoso, e già citato, comma 417 dell'articolo unico della Finanziaria 2007, la sinistra radicale farà pressioni sull'esecutivo per calendarizzare in parlamento una nuova sanatoria con il disegno di legge Caruso e magari, appoggiandone il contenuto, farlo divenire, senza colpo ferire, legge dello Stato? Paganini non replica, il governo di centrosinistra, invece, quando si tratta di sanatorie e di sprechi, ripete eccome.

giovedì 2 agosto 2007

Privilegi sindacali: i permessi


di Antonio Maglietta - 2 agosto 2007


Si fa un gran parlare dei privilegi della «casta» e l'attenzione critica dei media spesso si rivolge, in maniera anche qualunquistica e demagogica, verso la politica ed i suoi attori. Bisogna precisare, però, che in Italia sarebbe più corretto parlare di «caste» al plurale, visto che sono molte le categorie interessate. E' un dato innegabile che tra queste categorie rientrino a pieno titolo anche i sindacalisti, con la precisazione che, al pari delle critiche rivolte al mondo della politica, se ci sono delle annotazioni da fare, queste devono collocarsi all'interno del limite dettato da alcuni parametri fondamentali come l'eccesso e l'abuso oppure l'estraneità del privilegio rispetto al ruolo o l'attività svolta.
In generale i privilegi sindacali si qualificano in distacchi, permessi e aspettative e, almeno nella Pubblica Amministrazione, il sindacato nostrano sembra avere una certa mano libera. Il contratto collettivo nazionale quadro (CCNQ) sulle modalità di utilizzo dei distacchi, dei permessi e delle aspettative sindacali è stato sottoscritto il 7 agosto 1998 e strutturalmente si divide in tre parti: la prima, oltre a definirne il campo di applicazione, è dedicata all'attività sindacale; la seconda parte è quella che regolamenta l'utilizzo dei distacchi, dei permessi e delle aspettative; la terza comprende le norme finali e transitorie.
I permessi sono uno strumento che conferisce ai dirigenti sindacali la facoltà di svolgere la loro attività esonerandoli dell'obbligo della prestazione lavorativa. I titolari di questi permessi sono indicati all'articolo 10, comma 1, del già citato CCNQ del 7 agosto 1998:
i componenti delle RSU;
i dirigenti sindacali aziendali(RSA) delle associazioni rappresentative ai sensi dell'articolo 10 dell'accordo stipulato il 7 agosto 1998;
i dirigenti sindacali dei terminali di tipo associativo delle associazioni sindacali rappresentative che, dopo la elezione delle RSU, siano rimasti operativi nei luoghi di lavoro nonché quelli delle medesime associazioni aventi titolo a partecipare alla contrattazione collettiva integrativa, ai sensi dell'articolo 5 dell'accordo stipulato del 1998;
dirigenti sindacali che siano componenti degli organismi direttivi delle proprie confederazioni ed organizzazioni sindacali di categoria rappresentative non collocati in distacco o aspettativa.
Insomma, una pletora di persone. Lo stesso articolo, inoltre, nell'indicare i soggetti legittimati a fruire dei permessi, statuisce il fine del loro utilizzo: «per l'espletamento del loro mandato». Una formula generica in cui potrebbe rientrare di tutto e di più ed in cui l'uso potrebbe facilmente trasformarsi in abuso. Infatti, in generale, l'attività sindacale non si esaurisce nella sola attività contrattuale, ma si sviluppa attraverso altre modalità. Per quanto riguarda la partecipazione, a seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, con cui è stato abrogato l'articolo 10 del d.lgs. 29/1993, il quale prevedeva un limite circa il diritto d'informazione esercitabile solo relativamente alla qualità dell'ambiente di lavoro e alle misure inerenti la gestione dei rapporti di lavoro, la materia è stata demandata in toto alla contrattazione collettiva. Infatti l'articolo 9 del d.lgs 165/2001, che ha recepito la modifica voluta dal legislatore, recita: «I contratti collettivi nazionali disciplinano i rapporti sindacali e gli istituti della partecipazione anche con riferimento agli atti interni di organizzazione aventi riflessi sul rapporto di lavoro». Inoltre, l'articolo 48 del d.lgs 29/1993, recante il titolo quanto mai eloquente «Nuove forme di partecipazione alla organizzazione del lavoro», rinvia alla contrattazione collettiva la definizione di nuove forme di partecipazione, dando quindi ulteriormente mano libera agli stessi sindacati in tema di determinazione e regolamentazione delle forme di partecipazione.
E' chiaro che la legislazione corrente, dando ampio potere alla contrattazione collettiva, e quindi di fatto non ponendo alcun limite alla fantasia, rischia di incentivare odiose forme di abuso dello strumento dei permessi sindacali, giocando anche sulla estrema genericità del termine «partecipazione». Il 24 luglio scorso, presso la sede dell'A.Ra.N. (Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni), è stata sottoscritta, tra la stessa Agenzia ed alcuni sindacati (alcune sigle non hanno firmato: CONFEDIR, CSE, CGU, CIDA, RDB CUB, USAE), una Ipotesi di contratto collettivo nazionale quadro d'integrazione del CCNQ sulle modalità di utilizzo di distacchi, aspettative e permessi, nonché delle altre prerogative sindacali del 7 agosto 1998. Inutile sottolineare che un auspicabile intervento restrittivo sulla genericità della disposizione «per l'espletamento del loro mandato», in relazione ai fini dell'utilizzo dei permessi sindacali, non c'è stato.
Google