mercoledì 21 dicembre 2011

Art. 18, il falso totem dello Statuto dei lavoratori



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
martedì 20 dicembre 2011

Nel dibattito pubblico si è accesa la discussione sulla riforma del mercato del lavoro. Ogni volta che si parla di quest’argomento nel nostro Paese i toni salgono, i nervi diventano tesi e le parole man mano sempre più pesanti.

Tutto è iniziato quando il ministro del lavoro, Elsa Fornero, in un’intervista al Corriere della Sera, ha affermato che bisogna dire basta ai contratti precari e aprire una discussione senza tabù sull'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, aggiungendo che nel mercato del lavoro i giovani sono «i più penalizzati, insieme alle donne, perché la via italiana alla flessibilità ha riguardato solo loro».

Il giorno dopo l’uscita della Fornero, sempre dalle colonne del quotidiano di via Solferino, è arrivato l’attacco del segretario della Cgil, Susanna Camusso, secondo cui il contratto unico per i giovani proposto dall’attuale ministro del lavoro «sarebbe un nuovo apartheid a danno dei giovani». E ancora: «La precarietà c'è soprattutto nelle piccole aziende, dove non si applica l'articolo 18», che è «una norma di civiltà. Vogliamo superare il dualismo? Lancio una sfida: facciamo costare il lavoro precario di più di quello a tempo indeterminato e scommettiamo che nessuno più dirà che il problema è l'articolo 18?». In questa discussione, ampia e articolata, su un tema peraltro molto spinoso come quello delle riforme in materia di lavoro, occorre essere precisi e mettere qualche punto fermo.

Innanzitutto il primo a proporre l’introduzione del contratto unico nel nostro ordinamento è stato il senatore del Partito Democratico, il professor Pietro Ichino, che non si è limitato solo alle parole ma è passato anche ai fatti, depositando nel 2009 un disegno di legge a Palazzo Madama. Partiamo dal presupposto che nessuno ha intenzione di avallare norme sui cosiddetti licenziamenti selvaggi ma solo bilanciare la flessibilità con le garanzie a tutela dei lavoratori. Aggiungiamo che le tutele dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori non si applicano alle aziende sotto i 15 dipendenti.

Già allo stato attuale, senza dilungarci in inutili tecnicismi in materia di tutela reale e tutela obbligatoria, esiste un sistema duale in cui ad alcuni lavoratori si applica una tutela più forte (quella dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori) e ad altri quella più debole (ex art. 2 della Legge n. 108/1990) se paragonata con la prima. Oggi i costi della flessibilità sono tutti a carico dei giovani e delle donne e questa situazione non è più accettabile. Allo stato attuale un giovane che entra nel mercato del lavoro non ha la possibilità di guardare con serenità al proprio futuro perché non ha accesso al credito (nella stragrande maggioranza dei casi, soprattutto in un momento di crisi come questo, le banche chiedono garanti e contratti a tempo indeterminato per erogare prestiti e mutui), non percepisce un reddito in linea con quello dei coetanei europei (il divario tra il reddito di un giovane e quello di una persona più matura in Italia è più ampio di quello esistente in Francia, Germania e Gran Bretagna), nel tempo ha visto eroso il proprio potere di acquisto e se perde il posto di lavoro spesso l’unico ammortizzatore sociale che gli resta è la propria famiglia.

E’ bene capire che chi difende l’attuale sistema contribuisce, consapevolmente o no, a mantenere questa situazione intollerabile. E' bene accetta, quindi, la proposta del ministro Fornero di mettere le mani sulle norme in materia di lavoro per porre fine alle iniquità prendendo come base di partenza della discussione la proposta del senatore Pietro Ichino. Chi alimenta la polemica contro qualsiasi riforma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori e contro quel testo forse non ha letto bene il disegno di legge nella parte in cui si parla dell'estensione a tutti del trattamento speciale di disoccupazione, pari all'80% dell'ultima retribuzione per il primo anno dopo il licenziamento, e dove tutti avrebbero un contratto tempo indeterminato e le protezioni essenziali, ma nessuno sarebbe inamovibile.

Dove è l’apartheid a danno dei giovani evocata con enfasi da Susanna Camusso in questa prospettiva? E’ evidente che le critiche della Cgil sono infondate e che non ci sarebbe alcuna discriminazione a danno dei giovani e spiace vedere gli altri due sindacati confederali accodarsi su questo punto alle posizioni estremiste della confederazione rossa.

FONTE

giovedì 15 dicembre 2011

Perché accanirsi sui proprietari di case?



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
mercoledì 14 dicembre 2011

La manovra varata dal governo Monti è una vera e propria frustata ai cittadini italiani. Al netto delle varie considerazioni di ordine politico, è indubbio che il provvedimento sia molto sbilanciato sul fronte delle tasse e poco su quello dei tagli. Diciamo subito che sostenere questi provvedimenti con il voto parlamentare, anche se si tratta d’interventi spesso iniqui e sempre impopolari, è un atto di responsabilità. Detto questo, però, appare evidente che ci sono delle criticità in questo testo che dovranno essere corrette quanto prima possibile.

Il pezzo più pesante della manovra, e forse anche quello più contestato, è rappresentato dall’introduzione della nuova Imu sulla casa (11 miliardi di euro). Le disposizioni dell'articolo 13 della manovra sono finalizzate ad anticipare, in via sperimentale a decorrere dall'anno 2012 e fino al 2014, l'applicazione dell'imposta municipale propria (Imu) prevista dagli articoli 8 e 9 del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23, con alcune modifiche rispetto alla formulazione originaria del testo.

L'Imu, che sostituisce per la parte immobiliare l'imposta sul reddito delle persone fisiche e le relative addizionali dovute in relazione ai redditi fondiari attinenti ai beni non locati e l'imposta comunale sugli immobili (Ici), verrà applicata a regime dal 2015. Sono compresi tra gli immobili anche l'abitazione principale e le pertinenze della stessa. E qui casca l’asino, perché non stiamo parlando dell’ennesima casa di proprietà ma dell’abitazione principale e cioè quella che, nella maggior parte dei casi, molti hanno acquistato con i sacrifici di una vita (propri o della propria famiglia).

Quando il governo Berlusconi eliminò la tassa sulla prima casa, la ratio era molto semplice: non è concepibile far pagare altre tasse su un bene primario per ogni famiglia italiana su cui già gravano tantissime spese aggiuntive, oltre che immensi sacrifici, all’atto dell’acquisto «L'abitazione è luogo e supporto della vita familiare e di quella comunitaria; è oggetto culturale, usato per contrassegnare lo spazio, per esprimere sentimenti, per comunicare identità; può essere luogo o strumento di lavoro, merce, bene di consumo; inoltre espressione di status e risorsa da cui dipendono le condizioni di vita della famiglia» (Antonio Tosi, Enciclopedia delle Scienze Sociali, Treccani).

L’abitazione principale è il centro della nostra stessa vita ed è parte della nostra identità. Come si fa a tassare ulteriormente un bene su cui gravano già tante spese al momento dell’acquisto tra agenzie, notaio, mutuo e tasse che ne fanno lievitare enormemente il costo finale? La prima casa non è un oggetto che identifica uno status di ricchezza sopra la media ma un bene spesso frutto del risparmio.

INel corso del iter nelle commissioni parlamentari, le disposizioni sulla nuova Imu sono state modificate rispetto al testo originario.nizialmente era stata prevista solo una detrazione di 200 euro per tutti sulla prima casa (abitazione principale). Ora con le nuove modifiche per gli anni 2012 e 2013 la detrazione è maggiorata di 50 euro per ciascun figlio di età non superiore a ventisei anni, purché dimorante abitualmente e residente anagraficamente nell’unità immobiliare adibita ad abitazione principale. L’importo complessivo della maggiorazione, al netto della detrazione di base, non può superare l’importo massimo di euro 400. I comuni, peraltro, possono disporre l’elevazione dell’importo della detrazione, fino a concorrenza dell’imposta dovuta, nel rispetto dell’equilibrio di bilancio.

E’ evidente che si tratta comunque di un miglioramento rispetto alla formulazione originaria, frutto del lavoro svolto dal Pdl durante la discussione del provvedimento nelle commissioni parlamentari a Montecitorio. La richiesta iniziale del Pdl era di alleviare il peso dell’introduzione di una tassa sulla prima casa con la previsione di detrazioni per i nuclei familiari numerosi e per le giovani coppie che accendono il primo mutuo. La prima richiesta è stata accolta mentre la seconda no e già questo è un punto a sfavore del governo Monti perché non tutelare i giovani che decidono di formare una famiglia è l’ennesimo atto che danneggia chi in questo Paese ha meno di 35 anni.

Altra nota negativa è la detrazione a tempo, limitata ai soli anni 2012 e 2013. Sarebbe stato opportuno, invece, rendere strutturale la detrazione per dare più certezze a chi ha una famiglia numerosa. Tutti sappiamo che stiamo attraversando un momento difficile e che i sacrifici da affrontare saranno tanti ma è pur vero che introdurre elementi di equità li avrebbe resi quantomeno leggermente più digeribili. Questi elementi di equità avrebbero dovuto tenere conto del reddito del nucleo familiare, del numero dei componenti e dell’età (giovane) di quelle coppie che accendono il primo mutuo. Non aver preso in considerazione questi parametri significa rifiutare di introdurre nella manovra, nella parte concernente la tassazione sulla casa, elementi a favore delle categorie più deboli. E’ vero che siamo in una situazione particolare ma è proprio in questi momenti delicati che bisogna tutelare (a saldi invariati) chi è più in difficoltà e chi ha meno possibilità di difendersi dalla tempesta scatenata dalla crisi economica.

giovedì 24 novembre 2011

E' giusto adottare lo ius soli?



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
mercoledì 23 novembre 2011

Nel dibattito pubblico, oramai ciclicamente, si discute se sia necessario o meno modificare la normativa nazionale in materia di cittadinanza per introdurre lo ius soli (è cittadino originario chi nasce sul territorio dello Stato, indipendentemente dalla cittadinanza posseduta dai genitori) in sostituzione dello ius sanguinis. In questa discussione è necessario focalizzare l’attenzione su tre punti strettamente collegati tra loro: la normativa, la volontà dell’individuo, l’identità collettiva.

La normativa. La legislazione italiana si basa principalmente sullo «ius sanguinis» (diritto di sangue): il figlio nato da padre italiano o da madre italiana è italiano. L'acquisto automatico della cittadinanza secondo lo ius soli è limitato solo ad alcuni casi. Altri modi per acquistare la cittadinanza sono la iuris communicatio (trasmissione all´interno della famiglia da un componente all´altro con il matrimonio, il riconoscimento o la dichiarazione giudiziale di filiazione, l’adozione) e la naturalizzazione. Chi nasce in Italia da genitori stranieri non acquista automaticamente la cittadinanza italiana ma mantiene quella dei genitori. Al compimento del 18° anno di età, il cittadino extracomunitario nato in Italia, e sempre regolarmente residente, può chiedere, entro un anno dal raggiungimento della maggiore età, di ottenere la cittadinanza italiana. Si tratta, quindi, di una scelta volontaria e non di un automatismo.

La volontà dell’individuo. L'espressa richiesta da parte dello straniero di avviare la procedura prevista dall'attuale normativa, in contrasto con l’ipotesi di acquisizione automatica, trova il suo fondamento nel fatto che, attraverso quest’atto spontaneo ed esplicito, si dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana dopo un reale percorso di integrazione. Non è un atto qualsiasi, ma un passaggio importante per la vita di una persona che sancisce la fine di un processo attraverso il quale l'individuo diventa parte integrante di un sistema sociale, aderendo ai valori che ne definiscono l'ordine normativo. Introdurre un automatismo (la concessione della cittadinanza per il solo fatto di nascere in Italia) in sostituzione di un atto volontario, trasformerebbe l’individuo nato da genitori stranieri da soggetto attivo, partecipe di una scelta che comunque condizionerà profondamente la sua vita, a passivo, dove altri deciderebbero per lui. Chi nasce in Italia, cresce in Italia, studia in Italia, non è detto che voglia diventare italiano. Magari si sente molto più vicino alla cultura espressa dal luogo di provenienza dei genitori e non vuole la cittadinanza italiana, oppure vive una sorta di inquietudine interiore che non lo fa sentire né italiano né altro e ha bisogno di tempo per decidere, oppure ha maturato la decisione di diventare cittadino italiano. Lo stato d’animo che porta a decidere chi siamo e cosa vogliamo essere non percorre un’unica strada ma è un percorso ad ostacoli pieno di incroci. Se l’individuo nato da genitori stranieri non si sente italiano, secondo quale principio dovremmo concedergli la cittadinanza andando contro la sua volontà?

L’identità collettiva. E’ un concetto che fa riferimento a come l’attore sociale comprende la propria appartenenza e in base a tale comprensione parla di sé come di un noi (noi italiani per esempio). E’ un «io» che si identifica in un «noi». La cittadinanza, in quest’ambito, non è solo la semplice faccia legale dell’identità collettiva ma qualcosa di più profondo. Se non vogliamo distruggere la nostra identità nazionale, occorre guardare alla cittadinanza non solo come a uno «status legale», ma come a «una forma di identificazione, un tipo di identità politica: qualcosa che deve essere costruito e non di empiricamente dato» (cfr. Mouffe Ch., Democratic Citizenship and the Political Community, in Ead., Dimensions of Radical Democracy. Pluralism, Citizenship, Community, London-New York, 1992, pp. 225-239). Per costruire dobbiamo creare delle forme di adesione all’identità collettiva nazionale che siano volontarie e non certo automatiche. Basare la nostra normativa sullo ius soli, quindi, limiterebbe la libertà dell’individuo nato da genitori stranieri di decidere la propria identità legale (relativa alla cittadinanza), renderebbe la cittadinanza un semplice «status legale», e non una forma di identificazione, e annacquerebbe la nostra identità collettiva.

martedì 15 novembre 2011

Democrazia, finanza, tecnocrazia


di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
lunedì 14 novembre 2011

Mario Monti si avvia a formare il proprio governo e il dibattito pubblico alimentato dai giornali sembra più preoccupato alla lista dei possibili futuri ministri che ai provvedimenti che verranno adottati dal nuovo esecutivo. Vedremo quali saranno gli atti qualificanti di questo governo e, nell’attesa, possiamo comunque fare almeno tre considerazioni.

La prima sui governi tecnici; George Washington, in riferimento al suo Paese, affermò che «la base del nostro sistema politico è il diritto della gente di fare e di cambiare la costituzione del loro governo». E’ ancora così anche in Italia? E’ indubbio che negli ultimi 20 anni, per ben due volte, la politica, intesa come arte di governare la società, è stata figlia del tecnicismo e non della piena democrazia: la prima volta con il governo Amato e ora con il nascente governo Monti.
Il tecnicismo non è mai neutro ma è sempre orientato dalle idee. Il professor Monti è un seguace della dottrina economica che teorizza il disimpegno dello Stato dall'economia. A rigor di logica gli atti del suo esecutivo dovrebbero essere dettati da questa visione. La facciata del cosiddetto governo tecnico è solo un alibi collettivo che serve per fare dei provvedimenti che per vari motivi la democrazia declinata nella logica degli schieramenti non è in grado di portare a compimento in un dato momento storico. Detto questo, è fuori di dubbio che prima ritorna un governo eletto dal popolo e meglio sarà per tutti. Non possiamo dare in mano per troppo tempo il nostro presente e il nostro futuro a chi non è ‘bagnato’ dal voto popolare. Anzi sono molte le voci che si levano, anche con tesi molto valide, che sostengono che, seppur solo temporaneamente, in generale mai e poi mai sia concepibile comprimere la pienezza della democrazia.
Resta il fatto, comunque, che, sempre nell’alveo della democrazia, la scelta tecnocratica può essere digerita, seppur con spasmi e grande fatica, solo se è dettata da contingenze straordinarie, dura pochissimo, compie poche scelte (condivise dalla stragrande maggioranza delle forze presenti in Parlamento), non si rivela ostile contro una parte politica e, una volta finito celermente il proprio lavoro, si mette subito da parte.

La seconda considerazione è sul ruolo della finanza nella democrazia moderna; Blaise Pascal affermò che in democrazia non essendosi potuto fare in modo che quel che è giusto fosse forte, si è fatto in modo che quel che è forte fosse giusto. Oggi la democrazia è debole e la finanza è politicamente forte. Sembra davvero paradossale che, nel momento in cui un certo modo discutibile di fare finanza si trova sul banco degli imputati come una delle cause principali della crisi economica mondiale, e che l’onorabilità di un certo modo di fare banca sia ai minimi storici, sia proprio uno strumento della finanza (lo spread) a influenzare la politica e una banca (la Bce) a dettare l’agenda delle cose da fare.
In democrazia nessun fatto di vita si sottrae alla politica disse Gandhi, oggi con i governi che sono decisi dallo spread, la parolina magica sulla bocca di tutti, anche il Mahatma avrebbe forse convenuto che la finanza oggi è parte della politica e gioca un ruolo non proprio secondario. Berlusconi non è mai stato sfiduciato dal Parlamento e le sue dimissioni, anche agli occhi del più livoroso dei suoi avversari, non sono certamente frutto del lavoro delle opposizioni parlamentari ma della pressione dei mercati. La scissione dei cosiddetti finiani può anche essere il «peccato originale», i salti di qualche deputato dalle fila della maggioranza parlamentare a quelle dell’opposizione ha avuto sicuramente un ruolo importante, ma è chiaro che l’affondo decisivo è arrivato dalla finanza e dalla crisi economica mondiale.
Il governo Berlusconi ha fatto tutto il possibile, viste le contingenze, per difendere i cittadini e le imprese italiane dagli effetti negativi della crisi economica mondiale. Una crisi che, come ha fatto bene a ricordare Berlusconi, certamente non è nata in Italia e non dipende né dal nostro debito né dalle nostre banche. Il centro della crisi finanziaria oggi non è l’Italia ma l’Europa. Noi abbiamo sempre onorato il nostro debito, abbiamo un basso debito privato e un sistema bancario solido, i fondamentali della nostra economia sono stabili e forti, siamo la sesta potenza industriale del mondo, la seconda potenza manifatturiera dell’Europa e la settima del mondo. Prima di parlare a vanvera bisognerebbe tenere ben presente questi aspetti.

La terza è sull’indegna gazzarra andata in scena davanti a Palazzo Chigi, al Quirinale e sotto la residenza privata romana di Silvio Berlusconi. Gli insulti, il lancio delle monetine, le scene di esultanza sono solo ed esclusivamente il frutto di un odio alimentato spesso dall’invidia sociale e dalla frustrazione personale. Anche questa è democrazia. Certo una democrazia che non piace. Si tratta, peraltro, di persone che vivono senza rendersi conto di quello che fanno.
Sono stati capaci di protestare in poco tempo contro le banche e poi applaudire subito dopo le dimissioni di un Presidente del Consiglio scelto dal popolo e l’ascesa di un governo cosiddetto tecnico, figlio della contingenza economico-finanziaria ed esecutore delle disposizioni dettate con una lettera da una banca (la Bce). E’ difficile vedere gente così felice di pagare una sorta di mutuo (gli atti del nuovo governo avranno una ricaduta anche sulle loro tasche) senza essere neanche proprietaria della casa (il nuovo governo non l’hanno certo deciso loro).

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venerdì 28 ottobre 2011

Gli impegni dell’Italia per il mercato del lavoro


di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
giovedì 27 ottobre 2011

Nella lettera inviata dal governo italiano all’Ue, c’è l’impegno ad approvare misure addizionali concernenti il mercato del lavoro: «1. In particolare, il Governo si impegna ad approvare entro il 2011 interventi rivolti a favorire l'occupazione giovanile e femminile attraverso la promozione: a. di contratti di apprendistato contrastando le forme improprie di lavoro dei giovani; b. di rapporti di lavoro a tempo parziale e di contratti di inserimento delle donne nel mercato del lavoro; c. del credito di imposta in favore delle imprese che assumono nelle aree più svantaggiate. 2. Entro maggio 2012 l’esecutivo approverà una riforma della legislazione del lavoro a. funzionale alla maggiore propensione ad assumere e alle esigenze di efficienza dell’impresa anche attraverso una nuova regolazione dei licenziamenti per motivi economici nei contratti di lavoro a tempo indeterminato; b. più stringenti condizioni nell'uso dei «contratti para-subordinati» dato che tali contratti sono spesso utilizzati per lavoratori formalmente qualificati come indipendenti ma sostanzialmente impiegati in una posizione di lavoro subordinato».

In pratica il governo italiano ha deciso di puntare sull’implementazione dell’occupazione giovanile e femminile, sulla modifica della normativa sui licenziamenti per motivi economici nei contratti di lavoro a tempo indeterminato e sull’introduzione di paletti più fermi nell’uso dei contratti para-subordinati. Si tratta di una scelta condivisibile per una serie di motivi. Innanzitutto c’è un impegno chiaro e preciso per varare una serie di provvedimenti a favore dei soggetti storicamente più deboli nel mercato del lavoro: giovani e donne. L’alto tasso di disoccupazione degli under 24 e il basso tasso di occupazione delle donne sono le note dolenti sulle quali occorre intervenire quanto prima.

I giovani, oltre ad un welfare più attento alle loro esigenze, hanno bisogno di avere maggiori canali di ingresso nel mercato del lavoro, di investimenti nella loro formazione professionale e di tutele contro l’uso improprio dei contratti flessibili.

Le donne, invece, di strumenti utili per coniugare al meglio l’attività professionale con il lavoro di cura. Ben vengano quindi, la promozione del contratto di apprendistato, di quello a tempo parziale e di inserimento e la stretta sull’uso dei contratti para-subordinati. Per quanto riguarda la questione della modifica della normativa sui licenziamenti per motivi economici, invece, andrebbe sgomberato il campo dalle polemiche inutili sul fatto che innovare la materia significherebbe ledere i diritti dei lavoratori.

Non c’e’ scritto da nessuna parte che ci saranno licenziamenti facili e sicuramente sarà istituito un tavolo tra governo e parti sociali per cercare di arrivare a una soluzione condivisa. Si tratta, peraltro, di un provvedimento in linea con le raccomandazioni che il Consiglio europeo ha rivolto all'Italia nel mese di luglio. In quel testo si citava proprio l’eccesso di rigore e di onerosità delle nostre procedure concernenti il licenziamento dei lavoratori con contratto a tempo indeterminato e si raccomandava «di rafforzare le misure intese a combattere la segmentazione del mercato del lavoro, anche rivedendo aspetti specifici della legislazione a tutela dell’occupazione, comprese le norme e le procedure che disciplinano i licenziamenti».

Guardiamo quale è la situazione attuale. Il licenziamento individuale per motivi economici rientra nel novero del licenziamento per giustificato motivo oggettivo previsto dall’art. 3 legge n. 604 del 1966 e cioè il licenziamento determinato «da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa». Per capire per grandi linee quali strade potrebbe percorrere ipoteticamente il Legislatore, senza contare le possibili e probabili mediazioni con le parti sociali, occorre dare uno sguardo a quali sono gli orientamenti delle decisioni giurisprudenziali in questa materia. Uno, che potremmo definire di stampo liberale, parte dal presupposto che una volta dimostrata l’effettività della criticità della situazione economica (anche con riguardo all’incremento del profitto), la valutazione del giudice sul nesso con il licenziamento è limitata alla verifica della non pretestuosità o arbitrarietà (vedi sentenza Cass. 21121/04). Un altro, invece, molto più restrittivo, secondo cui questo tipo di licenziamento può avvenire solo per far fronte a una situazione che imponga un’effettiva necessità di ridurre i costi (non rientra l’incremento del profitto) e alla presenza della prova dell’impossibilità di reimpiego e di uno stretto collegamento con le ragioni della ristrutturazione (vedi sentenza Cass. 21282/06).

Tuttavia è pacifico, qualunque sia l’orientamento seguito dai giudici, che l’onere della prova incomba sul datore di lavoro mentre il lavoratore ha quello di allegare delle possibili occupazioni alternative. Secondo il professor Ichino, oggi senatore del Partito Democratico, i giudici nella maggior parte dei casi concreti mettono su di un piatto della bilancia il costo sociale del licenziamento e sull’altro la perdita che l’azienda dovrebbe patire se il rapporto continuasse, e giustificano il licenziamento solo quando quest’ultimo prevalga nettamente sul primo (Il costo sociale del licenziamento e la perdita aziendale attesa per la prosecuzione del rapporto come oggetto del bilanciamento sociale, in Riv. It. Dir. Lav., 2007).

mercoledì 26 ottobre 2011

L'importanza della riforma delle pensioni


di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
martedì 25 ottobre 2011

Quando si parla di riforma delle pensioni, si tocca sempre un tema delicato e, spesso e volentieri, la confusione la fa da padrone. Occorre, dunque, fare un po’ di chiarezza sul perché sarebbero necessari questi provvedimenti, quale è stata l’evoluzione della materia negli ultimi vent’anni, quali sarebbero le ipotesi di riforma e chi i destinatari.

Innanzitutto la riforma delle pensioni è necessaria nell’ambito della generale operazione di risanamento dei conti pubblici, resa sempre più urgente e indispensabile dal perdurare della crisi economica, ma anche per uscire quanto prima dal sistema dei pensionamenti anticipati che crea uno squilibrio finanziario pagato in toto solo dai giovani. Per capire meglio la situazione è importante dare una breve occhiata a quali sono state le riforme degli ultimi vent’anni e quali gli obiettivi perseguiti. Innanzitutto va detto che l’Italia ha una peculiarità che la contraddistingue in negativo dagli altri paesi europei: la pensione di anzianità (prestazione di natura economica e previdenziale erogata, a certe condizioni, a chi ha maturato il limite minimo di età anagrafica e/o di anzianità contributiva, prima del raggiungimento dell'età pensionabile).

Se in Europa la pensione di vecchiaia (si consegue quando si raggiungono i requisiti di età pensionabile) è il perno dei sistemi previdenziali, in Italia questo primato assoluto è stato eroso dal problema delle rendite di anzianità. Introdotta con la legge n. 903 del 1965, la pensione di anzianità è una delle cause principali della rilevante spesa del nostro sistema previdenziale. Veniamo alle riforme degli ultimi vent’anni. La cosiddetta riforma Amato, D.Lgs n. 503 del 1992, è stato il primo atto di una certa importanza in materia di pensioni. L’intento era di stabilizzare il rapporto tra spesa previdenziale e prodotto interno lordo (PIL). In seguito, il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo con la legge n. 335 del 1995 (la cosiddetta riforma Dini), ha portato un maggiore equilibrio nei conti pubblici poiché se prima la pensione era rapportata alla media delle retribuzioni (o redditi per i lavoratori autonomi) degli ultimi anni lavorativi, da quel momento in poi (per tutti i lavoratori privi di anzianità contributiva al 1° gennaio 1996) il calcolo si è basato su tutti i contributi versati durante l'intera vita assicurativa. Nel tempo ci sono stati altri aggiustamenti, alcuni positivi perché l’intento era sempre di proseguire nell’obiettivo di rimettere in equilibrio i conti pubblici (legge n. 449 del 1997, riforma Prodi; legge n. 243 del 2004, riforma Maroni; la manovra anti-crisi dell’ultimo Ferragosto), altri molto meno perché vanificavano parte del lavoro di riassestamento economico svolto negli anni precedenti (legge n. 247 del 2007, protocollo sul welfare, durante l’ultimo governo Prodi).

In che direzione andremo? Le ipotesi in campo sono diverse. E’ possibile affermare, tuttavia, che la soluzione migliore sarebbe l’innalzamento dell’età pensionabile ad almeno 67 anni e l’introduzione della cosiddetta ‘quota 100’ (calcolata addizionando gli anni di contributi versati con l’età), con la quale i 35 anni di contributi dovranno essere accompagnati da almeno 65 anni di età mentre i 40 ad almeno 60 anni. Secondo uno studio dell’Ocse (Pensions at a Glance 2011), nel 2010, l'Italia era il secondo Paese dell’OCSE più anziano dal punto di vista demografico dopo il Giappone con solo 2,6 persone in età lavorativa (20-64) relative a quelle di età pensionabile.

Il contesto demografico è il motore principale del livello elevato di spesa pensionistica di vecchiaia e superstiti: il 14,1% del PIL rispetto a 7,0% in media nell’OCSE. Tra i paesi Ocse, l'Italia ha speso la quota più elevata del reddito nazionale in pensioni – circa un settimo del PIL nel 2007. Altri paesi con alta spesa pensionistica pubblica sono: Austria, Francia e Grecia a circa il 12% del PIL e in Germania, Polonia e Portogallo al 11% circa. Come in altri paesi demograficamente anziani, in Italia la spesa pensionistica rappresenta una proporzione importante della spesa pubblica totale: 29,4% nel 2007. Con un’aspettativa di vita che aumenta sempre più (oggi circa 80 anni) e una età media di pensionamento di circa 58 anni (più bassa della media europea), non è più sostenibile economicamente pagare pensioni per 25-30 anni. Per questo motivo è necessario portare l’asticella dell’età pensionabile a 67 anni e fissare ‘quota 100’.

L’intervento sulle pensioni non è dettato da un cinico capriccio del Legislatore ma è una necessità che non nasce certamente ora, e ne sono prova gli interventi normativi di riequilibrio degli ultimi vent’anni. Mai come in questo momento, però, con una crisi che sta mettendo in ginocchio l’economia del mondo, l’ipotesi di riformare la materia diventa una questione centrale se non vogliamo far saltare uno dei pilastri fondamentali per il risanamento dei conti pubblici e continuare a tenere in piedi questo iniquo sistema previdenziale, dove i conti li pagano solo i giovani.

Chi è già in pensione non ha nulla da temere perché i diritti acquisiti non si toccano. Chi saranno i maggiori destinatari (e beneficiari) di questi interventi? Le nuove generazioni, quelle che oggi pagano lo squilibrio economico del vecchio sistema e che hanno un bisogno vitale che queste disposizioni siano adottate quanto prima. L’innalzamento dell’età pensionabile e la fissazione della ‘quota 100’ è l’unica strada maestra da percorrere, e magari da puntellare con altri interventi, per rispondere concretamente ai problemi derivanti dalla concomitanza di fattori come l’entrare tardi nel mondo del lavoro, l’avere un sistema pensionistico contributivo e una situazione non sempre lineare nei versamenti previdenziali dovuta alle carriere discontinue.

venerdì 7 ottobre 2011

La tragedia di Barletta offre qualche spunto di riflessione



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
venerdì 07 ottobre 2011

La tragedia di Barletta ha colpito il cuore di tante persone per vari motivi: l'assurdità di quelle morti, le polemiche sulla prevedibilità o meno del crollo della palazzina, il fatto che le vittime fossero donne che lavorassero in nero e sottopagate. Sul caso specifico di quanto è avvenuto nella cittadina pugliese la giustizia farà il suo corso. La Procura di Trani ha aperto un fascicolo per disastro colposo e omicidio colposo plurimo.

Restano due fatti: la morte di quelle povere persone per il crollo della palazzina e la loro condizione lavorativa. In quest'ambito, ci occuperemo della seconda questione per fare alcune considerazioni di carattere generale.

La prima sulla sicurezza dei luoghi di lavoro. Le donne morte sotto le macerie lavoravano in nero. La magistratura farà luce, oltre che sui motivi che hanno causato il crollo della palazzina, sulle condizioni del luogo in cui queste persone operavano. La materia è molto complessa. Come insegna un'altra tragedia, quella degli operai morti nelle acciaierie ThyssenKrupp di Torino, la sicurezza del luogo del lavoro è inquadrata in un complesso quadro di disposizioni (c'è una direttiva-quadro europea modificata nel tempo e la normativa italiana), non dipende dal fatto che l'attività d'impresa sia ubicata al nord o al sud del paese, che l'azienda sia grande o piccola e che sia italiana o straniera.

La seconda riflessione riguarda la recente modifica della normativa in materia di sicurezza e sull'attività di vigilanza e controllo sui luoghi di lavoro. Spesso si fa lo sbaglio di confondere e intrecciare questa delicata questione con la burocrazia fine a se stessa. Due anni fa il Governo è intervenuto sul tema con il decreto legislativo 5 agosto 2009, n. 106, che ha integrato e corretto il testo unico (decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81). Questa norma ha introdotto un sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi in settori a particolare rischio infortunistico e ha puntato sul superamento di un approccio meramente formalistico e burocratico al tema della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, prestando maggiore attenzione ai profili sostanziali e agli obiettivi da raggiungere. In sostanza quello che conta è la tutela reale del lavoratore e non la burocratizzazione del sistema, che nulla aggiunge in termini di sicurezza e molto toglie alle dinamiche economiche delle attività produttive. Nello stesso momento, inoltre, il Ministero del Lavoro ha disposto nel tempo una serie d'iniziative per stanare il lavoro nero come, tra le altre cose, l'aumento delle attività ispettive con tanto di valutazione delle attività svolte fino ad ora e pianificazione per il futuro, il piano straordinario di vigilanza per le regioni del Sud nei settori a maggiore rischio di morti e infortuni come l'agricoltura e l'edilizia, le convenzioni per la cooperazione tra le Direzioni provinciali del Lavoro, la Guardia di Finanza e l'Arma dei Carabinieri.
Il caso di Barletta, come anche diverse altre tragedie che l'hanno preceduta, sono la dimostrazione evidente che ci sono situazioni che purtroppo sfuggono alle norme e ai controlli e che appesantire inutilmente la normativa della sicurezza sul lavoro non salva alcuna vita. Servono, invece, sempre più controlli (razionali) da parte delle istituzioni, più occhi vigili da parte di tutti gli operatori coinvolti nel sistema economico-sociale, norme chiare e severe per la tutela della salute dei lavoratori, pene certe.

La terza considerazione riguarda la condizione delle donne nel mercato del lavoro. Le differenze di genere sono un dato storico che trascende i confini nazionali. Gli studi sul tema si sprecano. Basterebbe citarne uno a caso per quantificare il problema in numeri e in tutta la sua gravità. Per esempio l'International Migration Outlook 2008 segnalò che, in tutto il mondo, la differenza salariale tra lavoratori immigrati e autoctoni (in media tra il 15% ed il 20% in meno a sfavore degli immigrati) è più piccola di quella tra uomo e donna. Il problema ha radici profonde. John Stuart Mill sosteneva che la differenza fra uomo e donna era visibile solo perché le donne non avevano le stesse possibilità degli uomini, ma, una volta eliminate le disparità, e una volta aperte le porte dell'istruzione e della carriera alle donne, esse sarebbero diventate in tutto simili agli uomini (The subjection of women, 1869). Dopo quasi un secolo e mezzo siamo qui a parlare di donne che lavoravano in nero e che guadagnavano 4 euro all'ora. Ovviamente ci sono anche tanti uomini che svolgono attività in nero e con paghe da fame. Il problema per le donne, tuttavia, è che spesso sono pagate meno anche quando sono in regola.

La quarta considerazione riguarda la concorrenza nel mercato globale. Il problema del lavoro irregolare e dei bassi salari va inquadrato anche, e soprattutto, in alcune dinamiche negative prodotte dalle attuali regole del mercato mondiale. Il caso di Barletta è quasi un classico esempio di come in certi tipi di produzione le attività italiane, ma si potrebbe dire occidentali, non sono più competitive perché ci sono realtà nel mondo dove le condizioni socio-economiche, che spesso trascendono in un vero e proprio sfruttamento, permettono di produrre con costi minori rispetto ai nostri. Se si vuole competere a quel livello e in quel tipo di produzione, quindi, non resta che ricreare in parte o in tutto quelle condizioni che permettono alla merce di essere concorrenziale in quel segmento di mercato. Si tratta di un ragionamento che, preso così, è totalmente inaccettabile per tanti motivi (c'è l'alternativa della riconversione della produzione, l'innalzamento della qualità, lo spostamento in un altro segmento di mercato, ecc.). Resta che questa spirale negativa è chiara e porta a produrre due tipi di pensiero: da un lato chi afferma che questo tipo di attività, pur se irregolare e sottopagata, permette di vivere o almeno sopravvivere e chi non accetta che comunque in Italia si crei quel tipo di condizione lavorativa. Il tema è incandescente e l'unica cosa certa è che non possiamo risolverlo da soli e, quasi certamente, neanche in compagnia dei soli partners comunitari.

martedì 4 ottobre 2011

Marchionne lascia Confindustria



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
martedì 04 ottobre 2011

L’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, con una lettera inviata al Presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, come già preannunciato nella lettera del 30 giugno scorso, ha comunicato la decisione di Fiat e Fiat Industrial di uscire dall’organizzazione dal 1° gennaio 2012. Facciamo due considerazioni: una più ampia sul fatto in sé e l’altra più breve di tipo generale sul corporativismo italiano.

Il gruppo dirigente della Fiat ha deciso che la permanenza in Confindustria avrebbe bloccato il processo di sviluppo del gruppo torinese. Il motivo è altrettanto chiaro ed esplicito: la mancanza di garanzie su quelle certezze indispensabili per lo sviluppo economico non solo del Paese nel suo complesso ma anche delle singole attività imprenditoriali che agiscono entro i suoi confini. Per capire ancora meglio di quali certezze si stia parlando, è giusto fare riferimento a tre passi in avanti fatti negli ultimi tempi nell’ambito delle relazioni industriali nel nostro Paese.

Il primo: gli accordi sugli stabilimenti Fiat di Pomigliano d’Arco, Termini Imerese e Grugliasco hanno rappresentato un buon modello di «flessibilità contrattata» in grado di coniugare al meglio le richieste dalla parte datoriale, necessarie per restare competitivi sul mercato globale, con l’indispensabile tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori.
Il secondo: l’accordo interconfederale del 28 giugno scorso ha introdotto innovazioni positive sul tema delle regole per la rappresentanza sindacale, sulle garanzie di efficacia per gli accordi firmati dalla maggioranza dei rappresentanti dei lavoratori e sulla definizione degli ambiti di interesse dei contratti nazionali e di quelli aziendali. Tuttavia, nonostante l’apprezzamento per i contenuti di quest’accordo, Marchionne aveva già avvisato con una lettera la Marcegaglia che, in assenza di altri passi che avessero consentito di acquisire quelle garanzie di esigibilità necessarie per la gestione degli accordi raggiunti per Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco, Fiat e Fiat Industrial sarebbero state costrette a uscire dal sistema confederale con decorrenza dal 1° gennaio 2012. Il terzo: l’art. 8 della manovra, oltre ad introdurre degli innovativi strumenti di flessibilità, ha previsto l’estensione della validità dell’accordo interconfederale ad intese raggiunte prima del 28 giugno. Una questione, quella della retroattività, che tocca direttamente gli accordi siglati dalla Fiat. Marchionne ha contestato che, dopo tre passi in avanti, è arrivato un salto indietro dopo la firma dell’accordo interconfederale del 21 settembre dato che, come scrive lo stesso amministratore delegato della Fiat, «è iniziato un acceso dibattito che, con prese di posizione contraddittorie e addirittura con dichiarazioni di volontà di evitare l’applicazione degli accordi nella prassi quotidiana, ha fortemente ridimensionato le aspettative sull’efficacia dell’Articolo 8. Si rischia quindi di snaturare l’impianto previsto dalla nuova legge e di limitare fortemente la flessibilità gestionale». E continua: «da parte nostra, utilizzeremo la libertà di azione applicando in modo rigoroso le nuove disposizioni legislative. I rapporti con i nostri dipendenti e con le Organizzazioni sindacali saranno gestiti senza toccare alcun diritto dei lavoratori, nel pieno rispetto dei reciproci ruoli, come previsto dalle intese già raggiunte per Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco».

Marchionne è uscito da Confindustria per avere le mani libere nel senso che il sistema corporativo che difende gli interesse dei datori di lavoro, a suo avviso, non è più in grado di fare quelli di un grande gruppo come la Fiat che opera sul mercato globale. Non è, insomma, un rifiuto delle regole, poiché lo stesso amministratore delegato del gruppo torinese ha affermato che si atterrà alle disposizioni di legge e alle intese già raggiunte in passato sulle situazioni di singoli stabilimenti, ma un vero e proprio rifiuto delle logiche e delle dinamiche del sistema corporativo di cui faceva parte. E qui, a questo punto, è possibile fare una seconda e breve considerazione di carattere generale. In un’epoca in cui le regole del libero mercato sono in corso di riscrittura, perché oramai obsolete non solo dinanzi alla crisi economica mondiale, ma anche di fronte alle moderne esigenze siano esse singole o collettive, è ancora utile per il bene comune tenere in piedi i sistemi corporativi (Confindustria, ordini professionali, ecc.) così come li conosciamo ora? Cui prodest?

venerdì 30 settembre 2011

Buone notizie sul lavoro dall’Istat



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
venerdì 30 settembre 2011

Secondo gli ultimi dati diffusi dall'Istat, nel secondo trimestre del 2011 il numero degli occupati è cresciuto rispetto allo stesso periodo dello scorso anno dello 0,4% (+87.000 unità). Questo risultato è dovuto esclusivamente allo sviluppo dell'occupazione femminile. Gli occupati a tempo pieno tornano a diminuire su base annua (-0,2%, pari a -32.000 unità) mentre quelli a tempo parziale (involontari) continuano ad aumentare (+3,4%, 119.000 unità). Il tasso di disoccupazione è pari al 7,8% (era 8,3% nel secondo trimestre 2010), in diminuzione su base annua per gli uomini (-0,6 punti percentuali) e, in misura di poco inferiore, per le donne (-0,5 punti). Il tasso di disoccupazione dei giovani sotto i 24 anni scende dal 27,9% del secondo trimestre 2010 al 27,4%. Purtroppo si registra una crescita della popolazione inattiva. Il fenomeno, secondo quanto riferito dall'istituto nazionale di statistica, interessa sia coloro che cercano lavoro non attivamente (+38.000 unità) e quelli che non cercano ma sono disponibili a lavorare (+17.000 unità), sia, e soprattutto, quanti non cercano e non sono disponibili a lavorare (+184.000 unità). Il tasso di inattività si è attestato al 37,9%, registrando una variazione positiva dello 0,4% rispetto a un anno prima.

Ad agosto 2011 gli occupati sono stati 23.003 unità, in aumento dello 0,1% (26 mila unità) rispetto a luglio e dello 0,8% (191 mila unità) nel confronto con lo stesso periodo dell'anno precedente. Il tasso di occupazione si è attestato al 57%, in aumento di 0,1 punti percentuali nel confronto congiunturale e di 0,3 punti in termini tendenziali. Il numero dei disoccupati, pari a 1.965 mila, diminuisce dell'1,8% (-36 mila unità) rispetto a luglio. La flessione riguarda sia la componente maschile sia quella femminile. Il tasso di disoccupazione è al 7,9%, e registra un confortante -0,1% rispetto a luglio e -0,4 punti su base annua. Il tasso di disoccupazione giovanile è pari al 27,6%, con un aumento congiunturale di 0,1 punti percentuali. Gli inattivi tra i 15 e i 64 anni non hanno registrato variazioni rispetto al mese precedente e anche il tasso di inattività è rimasto stabile al 38%.
Guardiamo le cose positive:
* il tasso di disoccupazione è in continua diminuzione dopo il picco raggiunto a ottobre del 2010 e registra delle performance che stanno smentendo le previsioni, seppur in parte positive se confrontate con gli altri paesi europei, fatte da ultimo dal Fondo monetario internazionale, secondo cui il dato si sarebbe attestato all'8,2% a fine 2011;
* i disoccupati sono tornati sotto la soglia dei 2 milioni;
* il tasso di disoccupazione dei giovani è sceso di 0.5 punti percentuali tra il secondo trimestre 2010 e lo stesso periodo del 2011;
* aumenta il numero degli occupati e si registra un dato positivo che è il migliore degli ultimi 2 anni;
* aumentano le donne occupate;
* il tasso di inattività è rimasto stabile tra luglio e agosto.
Gli aspetti negativi:
* diminuiscono gli occupati a tempo pieno e aumenta il part time involontario;
* il tasso di inattività è aumentato di 0,4 punti percentuali tra il secondo trimestre 2010 e lo stesso periodo del 2011;
* il tasso di disoccupazione giovanile è in lieve aumento ad agosto (+0,1%) rispetto a luglio.
I numeri dell'Istat sono molto confortanti e rappresentano una boccata d'ossigeno per il mercato del lavoro italiano, che sta rispondendo in maniera positiva alle sollecitazioni negative derivanti dalla crisi economica mondiale. Se mettiamo su un piatto della bilancia i dati positivi e negativi dell'ultima rilevazione dell'Istituto nazionale di statistica, appare evidente che siamo dinanzi ad un trend positivo e i pochi aspetti negativi che emergono sono consolidamenti di situazioni storiche (il tasso di disoccupazione giovanile e quello degli inattivi) o questioni legate direttamente alla crisi (la diminuzione del tempo pieno e l'aumento del part time involontario). Resta la questione fondamentale dell'alto livello del tasso di disoccupazione giovanile che, certamente, non può essere un problema perenne, ma è altrettanto vero che, nonostante le iniziative del governo per combattere il fenomeno, non si può aspettare un rilevante miglioramento del dato in un momento in cui la crisi sta ancora mordendo.

martedì 27 settembre 2011

Ilo e Ocse indicano la strategie contro la disoccupazione



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
martedì 27 settembre 2011

Secondo l'Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro) e l'Ocse (l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), la crisi economica ha bruciato più di 20 milioni di posti di lavoro nei Paesi del G20 e, se persisterà il ritmo di bassa crescita dell'occupazione come in molti di essi, sarà impossibile nel breve periodo recuperare il gap accumulato. L'occupazione dovrebbe crescere almeno dell'1,3% l'anno perché si possa tornare al tasso pre-crisi nel 2015. Se così fosse, si creerebbero circa 21 milioni di posti aggiuntivi per anno, tali da assorbire la disoccupazione accumulata dal 2008 e l'aumento dell'età lavorativa.

Nel mondo ci sono duecento milioni di persone senza lavoro, un dato vicino al picco raggiunto nel periodo della Grande depressione del 1929, e la persistente crisi dell'occupazione si sta traducendo in un cambiamento strutturale caratterizzato da una sempre più alta e crescente disoccupazione giovanile e di lungo-termine. Il segretario generale dell'Ocse, Angel Gurria, e il direttore generale dell'Ilo, Juan Somavia, alla luce di questi dati, hanno lanciano un appello all'attuale presidenza francese del G20 affinché ponga l'occupazione e la tutela sociale al centro delle discussioni politiche globali, insistendo sulla cruciale importanza di fare della creazione di posti di lavoro una priorità.

Secondo il rapporto Ilo/Ocse, i paesi che hanno ancora margini di bilancio dovrebbero dare priorità agli investimenti nel settore delle infrastrutture, mentre laddove le risorse pubbliche sono scarse, ci si dovrebbe concentrare su misure economicamente efficaci per incentivare da un lato l’offerta di lavoro e, dall’altro, per rafforzare i sistemi di protezione per i più deboli. Per quanto riguarda la componente giovanile del mercato del lavoro, occorre puntare sull’apprendistato e l’assistenza nella ricerca di lavoro, onde ridurre il rischio di cadere nel tunnel della disoccupazione di lunga durata e di perdere contatto con il mercato. Bisognerebbe, inoltre, incentivare gli strumenti a sostegno del reddito dei disoccupati cercando di coniugarli efficacemente con i programmi di reimpiego.

Ricapitoliamo. Secondo questi organismi internazionali, le linee guida che dovrebbero seguire i governi per combattere gli effetti negativi della crisi economica sui livelli di occupazione sarebbero: aumentare e stimolare i canali di ingresso nel mercato del lavoro; rafforzare le tutele per i più deboli; mantenere in vita i posti già occupati e legare gli strumenti di protezione del reddito con i programmi di reinserimento nel mondo del lavoro.

La via indicata dall’Ilo e dall’Ocse è con tutta evidenza quella già intrapresa con decisione dal governo italiano in carica sin dalla seconda metà del 2008, che ha rafforzato il nostro sistema di protezione sociale: con interventi normativi (ricordiamo, tra le altre cose, quello a favore dei lavoratori che svolgono attività usuranti) e investendo diversi miliardi di euro per gli ammortizzatori sociali, a tutela dei più deboli, per le imprese dei settori più colpiti e sul fondo strategico; ha puntato anche ad allargare i canali di ingresso nel mercato del lavoro con una serie d’iniziative, come la riforma dell’apprendistato, rientranti nel Piano triennale per il lavoro e nei Piani di azione per l’inclusione delle donne nel mercato del lavoro, per l'occupabilità dei giovani e per l’integrazione delle persone immigrate; ha rivisto il modello nazionale di welfare to work per le politiche di reimpiego con un nuovo piano di intervento.

Altra questione fondamentale è quella del mantenimento dei posti di lavoro già occupati e, in questo ambito la direzione giusta non può che essere quella della cosiddetta «flessibilità contrattata» con le parti sociali, uno strumento utile per combattere la disoccupazione, il lavoro nero e la precarietà. Si tratta di estendere il più possibile quei modelli di accordo già sperimentati per i casi degli stabilimenti Fiat di Pomigliano d’Arco, Mirafiori e Grugliasco che, al momento, sono l’unica via possibile da intraprendere con forza poiché coniuga al meglio la necessaria richiesta di maggiore flessibilità da parte del mercato con la garanzia della salvaguardia dei diritti fondamentali dei lavoratori e, inoltre, nel campo delle relazioni industriali riduce il rischio di innalzare il livello della conflittualità.

mercoledì 21 settembre 2011

Le misure del Governo a sostegno del mercato del lavoro


di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
mercoledì 21 settembre 2011

Secondo le stime del Fondo Monetario Internazione, il tasso di disoccupazione in Italia si attesterà all'8,2% nel 2011 e all'8,5% nel 2012, sotto la media europea. Si tratta di una previsione con luci (il tasso in Italia, secondo la stima, sarà sotto la media europea) e ombre (il +0,3% in un anno) che va presa con le molle, ma certamente non sottogamba, e che comunque non sembra tenere conto dell'andamento del nostro mercato del lavoro nell'ultimo anno.


Come dimostra il grafico dell'Istat, il tasso di disoccupazione in Italia, salvo il picco registrato a ottobre del 2010, è in discesa. L'impatto relativamente basso della crisi economica sul nostro mercato del lavoro, se confrontato con quanto è avvenuto negli altri paesi, è stato certificato da ultimo anche dall'Ocse. Questo non vuol dire che la situazione è tutta rose e fiori, ma solo che previsioni come quelle del Fondo Monetario Internazionale vanno analizzate nella loro complessità.
Secondo l'ultima rilevazione dell'istituto nazionale di statistica, a luglio il tasso di disoccupazione si è attestato all'8,0%, non facendo registrare variazioni rispetto al mese precedente; su base annua il tasso è calato di 0,3 punti percentuali. Il tasso di disoccupazione giovanile, invece, è sceso al 27,6%, con una diminuzione congiunturale di 0,2 punti percentuali.
E' un fatto noto che, soprattutto in una fase delicata come quella che stiamo vivendo, con una crisi che attanaglia tutte le economie dei paesi del mondo e che riversa i suoi pesanti effetti negativi sul mondo del lavoro, i soggetti più deboli siano i primi a essere colpiti. In Italia, ma non solo, i soggetti storicamente deboli sono i giovani, le donne e gli immigrati. Se il nostro sistema riuscirà da un lato a proteggere soprattutto i loro posti di lavoro e, dall'altro, rilanciare la dinamicità del mercato creando le condizioni per aumentare l'offerta di lavoro, allora vorrà dire che avremo risolto gran parte dei problemi.
Il Piano triennale del governo per il lavoro e i Piani di azione per l'inclusione delle donne nel mercato, per l'occupabilità dei giovani e per l'integrazione delle persone immigrate è una risposta concreta che va proprio in quella direzione. Molto importanti sono stati due recenti interventi normativi come:
la riforma dell'apprendistato, che ha semplificato la materia e ha trasformato espressamente questo strumento in un contratto di lavoro a tempo indeterminato con finalità formative e occupazionali;
la riforma dei tirocini formativi, che ha definito i livelli essenziali di tutela dei tirocinanti e ricondotto l'utilizzo dei tirocini alla loro caratteristica principale, e cioè quella di favorire un'importante occasione di formazione e orientamento dei giovani che entrano a contatto con il mondo del lavoro, fornendo al contempo ai servizi ispettivi gli strumenti necessari per contrastare con forza l'utilizzo fraudolento di questo strumento.
Non si tratta di due bacchette magiche, ma certamente di strumenti utili per combattere concretamente, e non a chiacchiere, l'alto tasso di disoccupazione dei giovani e il basso livello di occupazione delle donne. Se qualcuno critica questi interventi, come spesso fanno alcuni esponenti dei partiti di opposizione, bontà vuole che facciano sapere all'universo mondo quali sarebbero le loro proposte alternative, perché dire semplicemente «no» senza aggiungere cosa farebbero loro è solo un inutile giochetto di cui nessuno sente il bisogno, soprattutto in questo momento.

sabato 17 settembre 2011

La crisi e la disoccupazione giovanile



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
venerdì 16 settembre 2011

Secondo i dati del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, elaborati da Elan International, società di executive search, l'occupazione giovanile, tra i 15-34 anni, è per il 77% di contratti a tempo indeterminato, mentre il 23% è a tempo determinato. Per quanto riguarda il tasso di disoccupazione giovanile tra i 15-24 anni a livello europeo, tra il 2008-2009, è stato registrato un forte aumento (dal 21,2% al 25,3%), mentre in Italia negli ultimi 10 anni c'è stata una graduale diminuzione.
Secondo l'Employment Outlook 2011 dell'Ocse, «l'impatto della crisi recente sul mercato del lavoro italiano è stato fino a oggi moderato, ma la ripresa è stata lenta». Per l'organizzazione parigina il mercato del lavoro italiano è sempre più duale, con lavoratori in età matura in impieghi stabili e protetti e molti giovani senz'altro sbocco immediato che posti più precari, e la crisi ha colpito duramente i giovani (compresi tra i 15 e i 25 anni): il tasso di disoccupazione giovanile si è attestato al 27,6% nel luglio 2011, uno dei più alti tassi nell'area Ocse. Il tasso di disoccupazione italiano (nella definizione dell'Ilo), ricorda l'Ocse, è cresciuto di 2,5 punti percentuali tra l'inizio della crisi (nel secondo trimestre del 2007) e il primo trimestre del 2010 quando ha raggiunto l'8,5%. «Questo incremento rimane tuttavia inferiore all'aumento medio osservato nell'intera area Ocse - si legge nel rapporto - da allora, però, la ripresa occupazionale è stata alquanto moderata. Il tasso di disoccupazione italiano è sceso di solo mezzo punto percentuale, in linea con l'evoluzione media degli altri paesi Ocse e il recente rallentamento della ripresa economica nell'area euro suggerisce che la disoccupazione italiana rimarrà sopra i livelli precedenti alla crisi per un certo tempo».
Secondo l'organizzazione di Parigi, «nella fase di recessione il tasso di disoccupazione giovanile aumentato di 9,7 punti percentuali, raggiungendo il 28,9% (tasso destagionalizzato) nell'aprile 2010. Da allora i segni di ripresa sono timidi». Inoltre, rileva il rapporto, «il declino della disoccupazione appare dovuto interamente alla creazione di posti di lavoro con contratti a termine o atipici (inclusi i cosiddetti collaboratori), mentre il numero di posti con contratto indeterminato tende ancora a contrarsi».
Insomma la situazione italiana, per quanto riguarda la disoccupazione giovanile, non ha quelle tinte fosche che molti vorrebbe dipingere per soli interessi legati all'opportunità politica del momento. La questione è molto complessa e bisogna valutarla tenendo ben presente alcuni aspetti, in primis il rispetto per tutte le persone, le loro storie e le loro sofferenze legate alla disoccupazione che stanno dietro i numeri e le statistiche. Perché è proprio questo rispetto che deve spingere chi si cimenta nell'analisi di questi temi a cercare di dare un contributo ragionato al dibattito per focalizzare sempre meglio il problema. Sappiamo che il mercato del lavoro italiano ha storicamente e per motivi diversi tre soggetti deboli: giovani, donne e immigrati. Parliamo dei giovani: in questo caso il problema è che nel momento in cui la crisi economica riversa i suoi effetti negativi sul mercato del lavoro, i primi a saltare sono stati i contratti a termine o atipici che, nella stragrande maggioranza dei casi, riguardano i giovani lavoratori. Per quanto riguarda il fatto, invece, che il mercato del lavoro italiano è sempre più duale (da un lato lavoratori anziani superprotetti e dall'altro giovani con poche tutele), sarebbe bene ricordare che la flessibilità è l'unico strumento utile per combattere la disoccupazione. Il passaggio dalla flessibilità al precariato avviene quando non c'è un sistema di ammortizzatori sociali e un mercato del lavoro dinamico.
Il governo, pur zavorrato dal terzo debito pubblico del mondo, si è mosso da un lato tutelando queste persone proprio con gli ammortizzatori sociali con l'istituzione, tra le altre cose, della cassa integrazione in deroga e dall'altro con l'introduzione di misure a sostegno dell'occupazione rientranti nel «Piano di azione per l'occupabilità dei giovani attraverso l'integrazione tra apprendimento e lavoro». Una strategia che, come certificato anche dai dati ufficiali dell'Ocse e del Ministero del Lavoro, relativamente all'impatto della crisi sulle dinamiche occupazionale, ha dato certamente i suoi frutti positivi.
Coloro che criticano sempre a prescindere tutto quello che di buono è stato fatto in questi anni sono gli stessi esponenti del conservatorismo rosso che hanno sempre contestato con durezza qualsivoglia riforma del mercato del lavoro, delle prestazioni a sostegno del reddito e delle pensioni, andata in porto o meno, che aveva l'obiettivo di dare un minimo di serenità ai giovani lavoratori. Quali sono le loro proposte alternative? Nessuno ne sa nulla. Un motivo ci sarà.

lunedì 12 settembre 2011

Il polverone rosso contro l’art. 8 della manovra



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
lunedì 12 settembre 2011

La manovra economica è all'attenzione della Camera dei Deputati e tra i punti fondamentali del testo si annovera sicuramente il tanto citato articolo 8 recante «Sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità». Prima di analizzare la questione, bisogna vedere cosa c'è scritto nel disegno di legge: «I contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vigenti, compreso l'accordo interconfederale del 28 giugno 2011, possono realizzare specifiche intese con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati, a condizione di essere sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali, finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all'adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all'avvio di nuove attività».
Cosa c'è scritto di così terribile da scatenare la reazione scomposta della Cgil e del Partito democratico? Secondo il segretario del sindacato rosso, Susanna Camusso, «la nostra Costituzione è basata sull'uguaglianza dei diritti e l'articolo 8 deroga a tutto questo. Non è mai successo nella storia italiana che un governo agisse così violentemente contro libera contrattazione delle parti e contro i sindacati. È una vendetta contro i lavoratori da parte del ministro del Lavoro». E il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, ha aggiunto che l'articolo 8 della manovra, che, di fatto, «cancella i contratti nazionali di lavoro» deve essere abrogato, se necessario, anche con un referendum. Non è stato tenero neanche il capogruppo democratico del Pd nella commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano, che ha dichiarato che «la vergogna dell'articolo 8 va cancellata. Più passa il tempo e più appare chiaro il tentativo del governo e del ministro Sacconi di destabilizzare le relazioni industriali e impedire ogni percorso unitario dei sindacati. Togliere di mezzo questa norma è la condizione di partenza per poter ricostruire, su basi nuove, il modello contrattuale e della rappresentanza, come delineato dall'accordo di Cgil, Cisl, Uil e Confindustria del 28 giugno scorso».
Innanzitutto va chiarito che non c'è alcuna libertà di licenziamento perché, come riporta la stessa diposizione in esame, le specifiche intese potranno riguardare, tra le altre cose, le modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite Iva, la trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e le conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio, il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio, il licenziamento della lavoratrice dall'inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione al lavoro, nonché fino ad un anno di età del bambino, il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore ed il licenziamento in caso di adozione o affidamento. Il testo, insomma, mette una serie di paletti la cui presenza è certamente in contrasto con la vulgata che vuol far credere che questa disposizione dia il via libera ai licenziamenti selvaggi.
Seconda questione. E' verissimo che queste specifiche intese operano anche in deroga alle disposizioni di legge che disciplinano le materie in questione e alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro, fermo restando ovviamente il rispetto della Costituzione, nonché i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro. E' altrettanto vero, però, che la disposizione definisce in maniera chiara i requisiti necessari al contratto collettivo aziendale per derogare alla legge e, com'è giusto che sia, esclude le materie coperte da garanzie costituzionali.
Terza questione. Non è vero, come afferma l'ex ministro del lavoro del governo Prodi, Cesare Damiano, che in questo modo si destabilizzano le relazione industriali perché solo la Cgil nel mondo dei sindacati maggiormente rappresentativi è contraria a questa disposizione e, come è ampiamente noto, l'organizzazione guidata dalla Camusso è da tempo su posizione isolate su tutto quello che riguarda la riforma del mercato del lavoro. E anche nel partito di Damiano ci sono voci, come quella del senatore Pietro Ichino, in parte favorevoli (anche se comunque critiche su alcuni punti) a questa disposizione.
Quarta questione. Non si capisce bene se i vertici della Cgil si fidino o no dei propri rappresentanti territoriali e aziendali o pensino che gli stessi non possano essere in grado di salvaguardare adeguatamente i diritti dei lavoratori. Oppure se la deroga in questione, dando più spazio alle figure sindacali locali, non sia vista come una perdita di potere da parte degli apparati centrali.
Un'altra cosa è certa, oltre al fatto che non ci sarà alcun licenziamento selvaggio: quando si parla di modernizzare il mercato del lavoro, la Cgil e il Partito democratico sono sempre contrari.

martedì 2 agosto 2011

Mercato del lavoro: la crisi c’è, ma stiamo meglio di molti altri



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
martedì 02 agosto 2011

Siamo in tempo di crisi e nessuno si sogna di dire il contrario. Molte volte, però, nel dibattito pubblico, c'è chi si straccia le vesti e disegna scenari a tinte fosche con il solito intento provinciale di usare gli effetti negativi di una crisi economica mondiale per fare speculazione politica a livello nazionale. I problemi concernenti la disoccupazione e l'inattività non devono essere assolutamente banalizzati in questo modo perché le persone coinvolte in tali situazioni meritano tutto il rispetto possibile. Non bisogna mai dimenticare che dietro quei numeri ci sono persone che soffrono e dare una giusta dimensione al problema significa anche volerlo risolvere e non limitarsi alla semplice propaganda. Per restare ai fatti e non annegare nel mare di parole che ogni giorno sono pronunciate con enfasi a riguardo, l'unica cosa da fare è guardare i dati per avere una visione completa di quello che sta succedendo nel mercato del lavoro italiano, europeo e statunitense. Per farlo, bisogna prendere in considerazione l'andamento del tasso di disoccupazione, del tasso degli inattivi e il tiraggio della cassa integrazione.

Secondo gli ultimi dati dell'Istat, il tasso di disoccupazione italiano a giugno è rimasto stabile all'8%, registrando una variazione nulla rispetto al mese precedente. Su base annua, invece, il tasso è diminuito di 0,3 punti percentuali. In pratica nel breve periodo il dato è rimasto stabile, con addirittura una tendenza al ribasso se confrontato con lo scorso anno. In Europa, secondo gli ultimi dati Eurostat, il tasso medio di disoccupazione è al 9,4% e, addirittura, al 9,9% nell'area euro. Similmente alla situazione italiana, anche in Europa si rilevano un tasso invariato su base congiunturale e una diminuzione dello 0,3% a livello tendenziale. Dati alla mano, quindi, si afferma il vero quando si dice che almeno in quest'ambito il nostro paese sta meglio di molti altri visto che tra i grandi paesi europei la Germania ha un tasso di disoccupazione del 6,1%, la Francia 9,7%, la Gran Bretagna 7,7%, la Spagna 21%, e, gettando uno sguardo oltre oceano, gli Stati Uniti 9,2%.
Per quanto riguarda, invece, gli inattivi tra i 15 e i 64 anni, in Italia sono aumentati dello 0,1% (+22 mila unità) rispetto a maggio 2011 e il tasso di inattività si è attestato al 38,1% e su base annua è aumentato di 0,3 punti percentuali. In questo caso, in leggera controtendenza rispetto alle note positive riguardanti il tasso di disoccupazione, si registra un lieve aumento sia congiunturale sia tendenziale del tasso di inattività e questo non è certamente un buon segno. In Europa, sempre secondo gli ultimi dati Eurostat, il tasso medio di inattività è 29,3%. Stiamo parlando di cifre ragguardevoli ma, tuttavia, va sgombrato il campo da imprecisioni e visioni apocalittiche del problema, che non farebbero altro che portare la situazione in una dimensione sovrastimata, tale da non poter essere né ben compresa né affrontata adeguatamente.
Per inattivi s'intende coloro che sono in età lavorativa e non hanno una occupazione e che non la cercano o non sono disponibili ad iniziarla subito. Oggi il numero degli inattivi complessivi in valore assoluto è di 15 milioni e 109 mila persone. Abbiamo un popolo di 15 milioni di individui nel nostro paese che non cercano lavoro? Una persona su 3 in età lavorativa in Italia si trova in queste condizioni? Certamente no, anche perché nessun sistema economico sarebbe in grado di ammortizzare un'anomalia di queste dimensioni e sicuramente il nostro paese non rappresenta l'eccezione. Nel 2009, su un totale di 14 milioni e 723 mila di inattivi, secondo una indagine Rcfl-Istat, il 9% lo era per prendersi cura dei figli, di bambini e/o di altre persone non autosufficienti, il 9% riteneva di non riuscire a trovare lavoro, il 7% per altri motivi familiari (esclusa maternità, cura dei figli o di altre persone) e, infine, ben il 75% era rappresentato dai cosiddetti altri inattivi in età da lavoro (studenti, pensionati, inabili, in attesa dell'esito di passate azioni di ricerca, ecc). In pratica, fermo restando il maggior riconoscimento che dovrebbe avere il lavoro di cura in un sistema economico moderno e civile, la cifra totale va scremata fino ad arrivare a quel 9% rappresentato da coloro che sono inattivi perché non ritengono di poter trovare un lavoro. La questione riguarda a tutti gli effetti una parte ampia e importante della forza-lavoro nazionale, ma sicuramente siamo ben lontani dalla catastrofica cifra di un italiano inattivo su 3 in età lavorativa.
Veniamo alla cassa integrazione. Secondo gli ultimi dati dell'Inps si è consolidata a luglio la flessione delle richieste di cassa integrazione dopo il calo già registrato a giugno. Le domande autorizzate sono calate del 2,1% rispetto al mese precedente (80,7 milioni di ore contro 82,4 milioni a giugno) e del 28,8% rispetto a luglio del 2010, quando le imprese italiane chiesero 113,4 milioni di ore. Il dato di luglio 2011 è inferiore anche a quello del luglio 2009, quando vennero autorizzate 88,5 milioni di ore di cig (-8,8%).
Tenendo presente ben 3 indicatori (l'andamento del tasso di disoccupazione e del tasso degli inattivi, e il tiraggio della cassa integrazione), è possibile affermare, quindi, che, senza banalizzare le problematiche relative a donne, giovani sotto i 24 anni e inattivi, il mercato del lavoro italiano sembra essere uscito dalla fase più acuta della crisi, quella che genera l'aumento del tasso di disoccupazione e il ricorso massiccio alla cassa integrazione, mantenendo vivo il tessuto occupazionale attraverso gli ammortizzatori sociali. Questo vuol dire che tutti gli interventi del governo in materia, con l'ausilio delle regioni, sono stati decisivi per non spingere il nostro paese nel baratro. I numeri ci dicono che oggi il mercato del lavoro italiano, nonostante la crisi economica mondiale ancora in corso e la zavorra dei tre dati storici negativi (il basso tasso di occupazione delle donne, l'alto tasso di disoccupazione degli under 24 e l'alto numero di inattivi), è certamente dopo quello tedesco, e insieme a quello britannico, il sistema che tra i grandi paesi europei ha risposto meglio alle sollecitazioni negative degli ultimi anni.

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martedì 19 luglio 2011

Combattere il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
martedì 19 luglio 2011

La crisi c'è e nessuno dice il contrario. L'importante è valutare bene qual è il suo andamento e non perdersi nell'oblio del «tutto va male» perché una giusta analisi della situazione è importante non solo per studiare gli effetti delle turbolenze dei mercati sull'economia reale, ma è anche la base necessaria per prendere le contromisure idonee per uscire dalle sabbie mobili.

Secondo il rapporto «Economia, lavoro e fiscalità nel terziario di mercato», realizzato dall'Ufficio Studi Confcommercio, dopo il picco raggiunto nel 2010 dai lavoratori in Cassa integrazione e dagli scoraggiati, nel primo semestre del 2011 si sono manifestati i primi timidi segnali di un'inversione di tendenza con un ridimensionamento delle ore di Cig autorizzate per tutti i tipi d'intervento, anche se i livelli sono ancora nettamente superiori a quelli registrati nell'analogo periodo del 2009 sia per la Cig straordinaria sia per quella in deroga; dal punto di vista territoriale, si conferma il dualismo Nord-Sud sul versante delle dinamiche occupazionali (con il primo più reattivo e il secondo stazionario); si accentuano le criticità sul versante della disoccupazione giovanile, che supera il 29%; i contratti flessibili - a tempo determinato e stagionali - soprattutto nei servizi di mercato, hanno reagito più prontamente al riassorbimento di occupazione dopo la crisi (con un incremento di oltre 60 mila occupati nel I semestre 2010 rispetto al I semestre 2009) rispetto a quelli a tempo indeterminato (-214 mila occupati nello stesso periodo); in generale, nonostante l'area dei servizi di mercato si confermi come quella che contribuisce maggiormente ad attutire i cali occupazionali nelle fasi negative del ciclo economico, con i tassi medi di incremento registrati nei primi cinque mesi del 2011 e in assenza di misure di stimolo alla crescita economica, le perdite occupazionali patite durante la recessione saranno assorbite soltanto nel 2017.

Il problema principale resta sempre quello: garantire alla popolazione un livello occupazionale tale, e un giusto guadagno, per rispondere al meglio alle esigenze della vita quotidiana. Tutte le analisi ci dicono che nei prossimi anni la domanda di lavoro si rivolgerà maggiormente verso le professioni qualificate.

Secondo il bollettino trimestrale del Sistema informativo Excelsior di Unioncamere sono state complessivamente programmate dalle imprese 162.600 assunzioni tra luglio e settembre: 29.200 assunzioni di figure dirigenziali, scientifiche e tecniche (il 18% del totale); le figure impiegatizie e terziarie di livello intermedio saranno poco più di 76.000 (46,8%), le figure operaie e non qualificate quasi 57.300 (35,2%). Se limitiamo il campo solo a quest'ultime, i numeri si restringono fino ad arrivare a 23.860 assunzioni. In pratica nell'ambito delle nuove assunzioni i profili professionali non qualificati saranno solo 1 su 7. Nonostante il periodo di crisi, in cui l'offerta di lavoro dovrebbe essere ampia, per il 17,2% delle figure da assumere (con un picco del 20% per quelle non stagionali) le imprese segnalano difficoltà di reperimento. E il tasso di difficoltà diventa maggiore quando si tratta di professioni qualificate: professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione 25,7%; operai specializzati 24%; professioni tecniche 19,8%; conduttori di impianti e operai semiqualificati addetti a macchinari fissi e mobili 17,7%; professioni qualificate nelle attività commerciali e nei servizi 16,9%; impiegati 14,5%. Per i profili non qualificati, invece, la percentuale di difficoltà si attesta a un modesto 8,4%.

Il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro resta dunque un problema complesso su cui intervenire in diversi ambiti: istruzione, passaggio scuola-lavoro, formazione. Sappiamo che sono stati già fatti dei passi importanti con la riforma Gelmini e l'accordo Governo-Regioni dello scorso anno sulla formazione professionale. Ora è arrivata anche la tanto attesa riforma dell'apprendistato, e cioè dello strumento che meglio di tutti è in grado di rispondere alle esigenze del mercato del lavoro e di contrastare il fenomeno del disallineamento.

Avere posti liberi e giovani a spasso è un lusso che, con tutta evidenza, non ci possiamo più permettere. Tanto più che quasi 64 mila nuove assunzioni (il 39,3% del totale) sono esplicitamente orientate verso giovani al di sotto dei 30 anni e a questi se ne aggiungeranno sicuramente altre 59 mila senza indicazione di una preferenza di età.

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