domenica 23 dicembre 2007

Sicurezza e integrazione

di Antonio Maglietta - 22 dicembre 2007

L'Accordo di Schengen del 14 giugno 1985, sottoscritto da Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi, intendeva eliminare progressivamente i controlli alle frontiere comuni e introdurre un regime di libera circolazione per i cittadini degli Stati firmatari, degli altri Stati membri della Comunità o di Paesi terzi. La Convenzione di Schengen completò l'Accordo e definì le condizioni di applicazione e le garanzie inerenti all'attuazione della libera circolazione. Firmata il 19 giugno 1990 dagli stessi cinque Stati membri, entrò in vigore solo nel 1995. L'Accordo e la Convenzione di Schengen, le regole adottate sulla base dei due testi e gli accordi connessi formarono l'«acquis di Schengen». Dal 1999 esso venne integrato nel quadro istituzionale e giuridico dell'Unione Europea in virtù di un protocollo allegato al Trattato di Amsterdam.
Gli accordi di Schengen si estesero, nel tempo, all'insieme dei quindici vecchi Stati membri dell'UE: l'Italia firmò gli accordi nel 1990, la Spagna e il Portogallo nel 1991, la Grecia nel 1992, l'Austria nel 1995 e la Finlandia, la Svezia e la Danimarca (con uno statuto adattato) nel 1996. L'Irlanda e il Regno Unito, dal canto loro, decisero di partecipare solo parzialmente all'acquis di Schengen e di mantenere i controlli alle loro frontiere. Anche due Paesi terzi - l'Islanda e la Norvegia - fanno parte dello spazio di Schengen dal 1996. La loro partecipazione al processo decisionale è tuttavia limitata.
L'aggettivo «storico» ha contrassegnato le celebrazioni per l'estensione di Schengen a Estonia, Repubblica Ceca, Lituania, Ungheria, Lettonia, Malta, Polonia, Slovacchia e Slovenia, avvenuta il 21 dicembre. In effetti, la vita cambierà per molti milioni di cittadini, che potranno spostarsi liberamente in 24 Paesi, con ricadute economiche positive dovute soprattutto alla crescita del turismo e dell'attività commerciale transfrontaliera. Il presidente della Commissione Europea, José Manuel Barroso, ha affermato: «Da oggi possiamo viaggiare liberi tra i 24 Paesi dello spazio Schengen senza subire controlli alle frontiere interne, terrestri e marittime, dal Portogallo alla Polonia e dalla Grecia alla Finlandia. Desidero congratularmi con i nove nuovi Stati Schengen, con la presidenza portoghese e con tutti gli Stati membri dell'Unione per tutto il lavoro svolto. Assieme abbiamo superato i controlli alle frontiere come tanti ostacoli artificiali alla pace, alla libertà e all'unità in Europa, creando i presupposti di una maggiore sicurezza».
Tuttavia, come succede sempre quando si aprono le porte di casa, c'é anche chi teme che tale apertura delle frontiere interne possa rendere più difficile la lotta all'immigrazione clandestina e alla criminalità. Ad esprimersi in questo senso, nei giorni scorsi, è stato Ilkka Laitinen, direttore generale di Frontex, l'Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell'Unione europea, il quale ha spiegato che a suo giudizio l'eliminazione delle frontiere interne significa la perdita di uno strumento molto efficace per la lotta all'immigrazione clandestina. L'Agenzia è stata istituita con il regolamento (CE) n. 2007/2004 del Consiglio del 26 ottobre 2004 (GU L 349 del 25.11.2004). Frontex ha il compito di coordinare la cooperazione operativa tra gli Stati membri in materia di gestione delle frontiere esterne; assistere gli Stati membri nella formazione di guardie nazionali di confine, anche elaborando norme comuni in materia di formazione; preparare analisi dei rischi; seguire l'evoluzione delle ricerche in materia di controllo e sorveglianza delle frontiere esterne; aiutare gli Stati membri che devono affrontare circostanze tali da richiedere un'assistenza tecnica e operativa rafforzata alle frontiere esterne; fornire agli Stati membri il sostegno necessario per organizzare operazioni di rimpatrio congiunte; opera in stretto collegamento con altri organismi comunitari e dell'UE responsabili in materia di sicurezza alle frontiere esterne, come Europol (l'Ufficio europeo di polizia), Cepol (l'Accademia europea di polizia), Olaf (l'Ufficio europeo per la lotta antifrode), e di cooperazione nel settore delle dogane e dei controlli fitosanitari e veterinari, al fine di garantire la coerenza complessiva del sistema.
In un quadro in cui le frontiere interne perdono la loro funzione di barriere frangiflutti, per la lotta all'immigrazione clandestina e alla criminalità diventerà sempre più importante la cooperazione interna tra i Paesi membri e tra Europa e Paesi confinanti, oltre ad una buona legislazione interna che sia in grado di coniugare il più possibile il binomio sicurezza-integrazione.
Antonio Maglietta

venerdì 21 dicembre 2007

Immigrazione: possibile sanatoria senza controllo

di Antonio Maglietta - 20 dicembre 2007

Nuovo assalto, ma inferiore a quello di sabato scorso, al sistema telematico del Viminale nel secondo appuntamento, martedì, dedicato alle domande on line per colf e badanti provenienti da tutte le nazionalità non comprese tra i 14 Paesi del primo «click day». Le richieste sono state 136.567 (63.478 quelle inviate da singole persone e 73.089 quelle inviate da patronati e associazioni) che, aggiunte a quelle arrivate in precedenza, portano il totale a circa 500.000, a fronte dei 170.000 posti disponibili. Il ministro della Solidarietà Sociale, Paolo Ferrero, ha chiesto che le domande in esubero non decadano, ma vengano acquisite in una grande lista. Le nazionalità dei lavoratori extracomunitari che hanno fatto registrare il maggior numero di domande nella seconda tornata sono Ucraina (34.089), Cina (23.995), India (23.415), Perù (16.963), Ecuador (5.464). Le richieste più numerose sono giunte dalla Lombardia (41.600), dall'Emilia Romagna (15.221), dal Veneto (13.909), dal Lazio (11.815), dalla Campania (11.259), dal Piemonte (9.224) e dalla Toscana (8.419). Venerdì ci sarà l'ultimo «click day», riservato alle altre tipologie di lavoratori (57.900 ingressi programmati).
Le richieste di lavoratori extracomunitari, dunque, superano abbondantemente l'offerta e Ferrero sottolinea che «i 170.000 posti che abbiamo stabilito sono un numero inferiore rispetto alle necessità del mercato italiano. Ma, d'altra parte, il decreto flussi è una toppa e deve solo garantire il passaggio ad una forma più seria». Bisognerà - osserva - «fare una riflessione su quale strada intraprendere per dare una risposta ai tanti che restano fuori dal decreto flussi. Nel 2006 abbiamo scelto di fare un secondo decreto flussi, ma con l'attuale legge, la Bossi-Fini, si è visto che le procedure farraginose creano lungaggini. Io credo che non possiamo fare quello. Forse la risposta più snella è la nuova legge». Sulla stessa lunghezza d'onda il sottosegretario all'Interno, Marcella Lucidi, che, nella Giornata mondiale del migrante, auspica l'approvazione del disegno di legge Amato-Ferrero, la cui utilità, osserva, «è palese soprattutto in questi giorni in cui si sta svolgendo la corsa telematica per i 170.000 posti del decreto flussi 2007 e in cui si sta evidenziando la sproporzione tra la domanda di lavoro migrante e le quote effettive».
Insomma, sembra essere alle porte una nuova sanatoria, ma - cosa ancor più grave - ambienti istituzionali cercano di spingere per la celere approvazione del disegno di legge governativo che vorrebbe scardinare la Bossi-Fini e mettere una pietra tombale sul concetto di «immigrazione economica», cioè su quella regolata dallo stretto legame tra contratto di lavoro e permesso di soggiorno. In pratica, si vogliono allargare le maglie degli ingressi degli stranieri in Italia senza il minimo accenno ai controlli, per poi arrivare alla seconda sanatoria, ancora non accennata ma passo successivo inevitabile alla luce di questi presupposti di fatto: l'approvazione del disegno di legge governativo che porta a 5 anni, rispetto agli attuali 10, il dato temporale che permette all'immigrato che vive regolarmente in Italia di poter accedere alle procedure per la richiesta della cittadinanza. E' evidente che il governo trascuri il dato della sicurezza quando parla di immigrazione.
Prendendo spunto dalle cronache provenienti da altri Paesi, ben più organizzati del nostro nelle politiche di accoglienza e prevenzione dei rischi, è palese che le maglie della sicurezza non sono mai abbastanza strette e necessitano sempre di una costante attenzione. Dalla Gran Bretagna arriva la notizia che un clandestino nigeriano ha lavorato per 19 mesi come guardia al ministero dell'Interno. La scoperta è stata fatta venerdì scorso da ufficiali dell'immigrazione nel corso di controlli dei documenti relativi a 11.000 stranieri con permessi di lavoro sospetti. L'uomo, ora in stato di arresto, lavorava alla reception del quartier generale del dipartimento governativo di Marsham Street, nel quartiere di Westminster, dal maggio dello scorso anno, ma non aveva accesso ad alcun documento o ufficio ministeriale. Il nigeriano era stato assunto dalla Security Industry Authority, un'azienda subappaltatrice che lavora per l'Home Office (il ministero dell'Interno britannico), grazie a documenti contraffatti.
In una dichiarazione scritta, il ministro Smith ha fatto sapere ieri che «il segretario generale ha preso provvedimenti immediati per irrigidire le procedure di controllo dello status degli immigrati che lavorano per il ministero dell'Interno, sia nel ruolo di funzionari pubblici assunti da un subappaltatore, sia in qualsiasi altra capacità». Smith ha insistito sul fatto che la responsabilità dei controlli dei documenti di possibili impiegati è dei subappaltatori che si occupano delle assunzioni. Ma il ministro ombra dell'Interno, il conservatore David Davis, ha respinto questa spiegazione: «Se Smith vuole evitare di prendersi responsabilità in questo modo dovrebbe almeno controllare prima che ci sia ordine in casa sua. Chi perseguirà legalmente e multerà ora l'Home Office? Se stesso? E' chiaro che il governo è parte del problema e non della soluzione». La rivelazione dell'impiego del clandestino nel servizio di sicurezza dell'Home Office è il colpo di grazia per il ministero, già nell'occhio del ciclone, in questi giorni, per la concessione di una sanatoria di emergenza a 165.000 immigrati richiedenti asilo nel Regno Unito dopo che membri del personale addetti al servizio avevano per errore dimenticato per troppo tempo, su scaffali impolverati, i documenti relativi ai rifugiati.
Insomma, il problema del delicato rapporto tra sicurezza ed immigrazione è un elemento su cui occorre vigilare costantemente. Le decisioni da prendere in materia necessitano di raziocinio, dibattito, idee e lungimiranza e non certamente di fretta, emotività ed approssimazione. Speriamo che Ferrero e Lucidi prendano spunto dalle notizie provenienti dalla Gran Bretagna e cambino idea sul fatto che la sicurezza sia un dato da ritenere marginale quando si parla di immigrazione.

Antonio Maglietta

mercoledì 19 dicembre 2007

Le incaute rimozioni del governo di centrosinistra


di Antonio Maglietta - 18 dicembre 2007

E' da un pò di tempo evidente che qualcuno, nel governo, ha perso la bussola del senso del dovere istituzionale e, pur di innescare un gioco di potere e di poltrone che gli permetta di sopravvivere alle intemperie che si stanno per abbattere su Palazzo Chigi e dintorni, ha deciso irresponsabilmente di calpestare tutto e tutti: uomini, leggi e, più in generale, lo stesso stato di diritto. Le figuracce inanellate da Prodi e Padoa-Schioppa con i casi Petroni (CdA Rai) e Speciale (Guardia di Finanza), che hanno fatto perdere il proverbiale sorriso al ministro dell'Economia, sembrano non aver insegnato nulla a chi pensa che le istituzioni possano essere usate a proprio uso e consumo.
Ora, forse si profila un altro caso simile. Questa volta, però, il protagonista è il ministro della Solidarietà Sociale, Paolo Ferrero. Spesso fortemente critico con le scelte del governo, ma nei fatti mai coerente con le sue parole, Ferrero ha forse deciso di seguire il non proprio edificante esempio del collega del ministero di Via XX settembre, e sta cercando di forzare un po' la mano - tanto per usare un eufemismo - per cambiare gli assetti dirigenziali che fanno riferimento al suo dicastero. «Per cacciarmi, il governo, con il ministro Ferrero, cambia nome e statuto all'Ente che presiedo, l'Istituto Italiano di Medicina Sociale, dopo il tentativo di commissariamento andato a vuoto per l'intervento del Consiglio di Stato: il mio caso è analogo al caso Speciale nella Guardia di Finanza e al caso Petroni al CdA della Rai». Sono dure le accuse lanciate da Antonio Guidi, ex ministro per le Politiche Familiari nel governo Berlusconi, da tre anni presidente del citato Istituto, poi commissariato nel maggio scorso e a fine novembre reintegrato dal Consiglio di Stato al vertice di quello che ora, secondo le intenzioni comunicate da Ferrero, dovrebbe diventare l'Istituto per gli Affari Sociali, perdendo la qualifica sanitaria e cambiando dunque in parte la sua ragione sociale e l'attuale dirigenza.
«Contro di me sono scesi in azione i "bombardieri"», protesta Guidi. «Forse non vogliono che continui ad indagare sulle tante malefatte del passato, a cominciare dall'eccesso di contratti esterni firmati dall'Istituto. Alla magistratura, alla Corte dei Conti e ai carabinieri ho già esposto elementi di grandissima preoccupazione in merito. Io - spiega - non ne faccio una questione di lesa maestà, ma in nome di uno spoil-system scriteriato e scellerato si arriva, pur di sostituirmi, addirittura ad attaccare un Istituto che vanta una tradizione lunga ottant'anni». E sulle aspettative Guidi è chiaro: «Spero che il presidente del Consiglio Romano Prodi venga a conoscenza di quello che sta accadendo, perché credo non ne sappia ancora nulla. E' un uomo saggio e non credo che permetterà di fare scempio di un Istituto solo per togliere di mezzo il suo presidente. Quanto a me, che fui nominato presidente da Berlusconi circa tre anni fa, non voglio certo esserlo a vita. Ma intendo resistere, anche alla luce della sentenza del Consiglio di Stato, per portare a termine l'operazione di pulizia e di trasparenza che ho iniziato e per la quale forse sono adesso attaccato».
Già Libero di Vittorio Feltri aveva denunciato il caso in un articolo del 7 dicembre scorso: «Lo hanno prima emarginato. Poi commissariato. Infine, dopo la pronuncia del Consiglio di Stato che restituiva al professor Guidi la sua carica illegittimamente revocata, lo hanno mobbizzato. Gli hanno tolto il fax, staccato il telefono, impedito l'accesso ai documenti, militarizzato l'ufficio. Gli hanno persino tolto l'auto di servizio, conoscendo le sue difficoltà motorie. Per giorni, Antonio Guidi, pur di lavorare ha dovuto utilizzare il suo telefonino personale». Insomma, un trattamento con i fiocchi.
Ma Guidi resiste e va avanti nella sua battaglia. Dopo Petroni e Speciale, si prospetta una ennesima figuraccia per il governo con il caso Guidi? Non c'è due senza tre, tanto dalle parti di Palazzo Chigi, da quando c'è il Professore, sono abituati a fare brutte figure e tirare avanti come se nulla fosse. Poco importa, se c'è né una in più o una in meno, a chi non ha rispetto per il ruolo istituzionale che ricopre.

Antonio Maglietta

sabato 15 dicembre 2007

Tutti scontenti di Prodi


di Antonio Maglietta - 15 dicembre 2007
Lancia un duro j'accuse contro l'Italia Carla Del Ponte, lasciando l'incarico di procuratore generale al Tribunale penale internazionale per i crimini di guerra nell'ex Jugoslavia: l'Italia è colpevole di «non volersi occupare dei grandi latitanti» ed è diventata «delfino della candidatura della Serbia all'ingresso in Europa». Dalle colonne di Repubblica il magistrato, che dal 1999 ha fatto della caccia ai grandi criminali di guerra la sua missione, chiama in causa il premier Romano Prodi ed il ministro degli Esteri Massimo D'Alema. Della posizione del ministro degli Esteri, non si dice stupita perchè «è sempre stato piuttosto filo-serbo», mentre si dichiara «esterrefatta» per il comportamento di Prodi. «Uno che - ricorda - è stato presidente della Commissione europea e conosce alla perfezione quanto sia importante l'aiuto dell'Ue per l'arresto dei grandi latitanti». «Mi ha addirittura evitata», racconta il giudice svizzero che ripercorre i tentativi falliti di parlare al telefono con il Presidente del Consiglio. «Per un anno ho cercato di incontrarlo, ma senza successo. A ottobre l'ultimo tentativo».Per il procuratore dell'Aja, Prodi non aveva neppure pochi minuti. «Era chiaro che non voleva occuparsi dei miei latitanti e si era già schierato con la Serbia».
Ma se in Europa Prodi riceve uno schiaffone sul versante della politica estera, ecco che dall'altra parte dell'oceano il prestigioso New York Times ne molla uno ancora più sonoro sullo stato di salute complessivo del Belpaese. L'Italia sembra non amarsi più scrive il NYT. La parola d'ordine è "malessere" e gli italiani, nonostante abbiano inventato l'arte di vivere, in un recente sondaggio affermano di essere il popolo meno felice dell'Europa occidentale. L'Italia ha tracciato il proprio modo di appartenere all'Europa, lottando come pochi altri paesi con una politica frammentata, la mancanza di crescita, la criminalità organizzata e un debole senso dello Stato. Ora la frustrazione sta crescendo perchè queste vecchie debolezze non migliorano, mentre il mondo sorpassa il paese. Il modo di vivere poco tecnologico degli italiani può essere interessante per i turisti, ma l'utilizzo di Internet è tra i più bassi in Europa, così come gli investimenti esteri e la crescita. Le pensioni, il debito pubblico e i costi del governo, invece, sono tra i più elevati del vecchio continente. Le ultime analisi mostrano una nazione più vecchia e più povera e quelli che erano i punti di forza stanno diventando una debolezza. Il piccolo commercio, le aziende a conduzione familiare si trovano a combattere contro la globalizzazione e in particolare con la competitività della Cina. I debiti colpiscono le famiglie: il 70% degli italiani tra i 20 e i 30 anni vivono ancora a casa condannando i giovani a un'adolescenza estesa e improduttiva. La maggioranza dei più bravi lascia il paese.
Ma se dall'estero arrivano solo bocciature, la situazione vista dall'interno non è migliore. Tutte le categorie professionali sono sul piede di guerra, gli scioperi si susseguono ad un ritmo impressionante nonostante che i sindacati confederali abbiano sacrificato il loro animo belligerante alla logica sempre più evidente del «governo amico». Neanche sugli incrementi salariali degli statali e la sanatoria dei precari del pubblico impiego, asse portante della commistione di interessi governo-sindacati, Prodi è riuscito a dare seguito alle promesse fatte: i primi restano solo un miraggio; la sanatoria, invece, è un grande bluff perché non ci sono i soldi per finanziarla a livello centrale. Si respira un'aria di sconforto e rassegnazione soprattutto nelle giovani generazioni che non riescono a vedere la luce alla fine del tunnel. Neanche il criterio del merito, unico appiglio per emergere al di fuori delle clientele, così profondamente mortificato dalle scelte di questo governo, sembra essere la strada giusta per emergere nella società italiana. Gli esempi sono tanti: penalizzazione dei giovani vincitori di concorso nella pubblica amministrazione che continuano ad essere assunti con il contagocce e, peggio ancora, scavalcati dalle progressioni interne del personale di ruolo, il tutto con l'avallo dei sindacati confederali; tagli al settore della ricerca che penalizzano i progetti dei giovani ricercatori a discapito dei «baroni universitari»; sistema ingessato nelle libere professioni che reprime ambizioni e sogni dei giovani professionisti; e si potrebbe continuare all'infinito. Insomma, sia all'estero che in Italia sono tutti scontenti di Prodi. Qualcuno dice che siamo alla frutta: speriamo, però, che almeno non ci vada di traverso.

Antonio Maglietta

giovedì 13 dicembre 2007

Le «Cose» contro il Pd

di Antonio Maglietta - 13 dicembre 2007

La parola «cosa», secondo l'enciclopedia Treccani, «è il nome più indeterminato e più comprensivo della lingua italiana, col quale si indica, in modo generico, tutto quanto esiste, nella realtà o nell'immaginazione, di concreto o di astratto, di materiale o d'ideale. Talora indica un oggetto determinato, di cui non si sa, non si può o non si vuol dire il nome». Come termine della filosofia, «cosa», pur nella sua indeterminatezza, «indica l'essere singolo concreto, l'oggetto naturale o corporeo percepito attraverso l'esperienza sensibile, per cui il mondo delle cose è spesso contrapposto all'uomo come personalità spirituale o coscienza; in senso più generale, qualsiasi oggetto del pensiero o del giudizio, sia esso reale o fittizio, fisico o mentale, concreto o astratto, sensibile o soprasensibile: significati questi che assumono accezioni più particolari presso singoli filosofi o dottrine filosofiche. La cosa in sé, espressione che nella dottrina kantiana, designa la realtà in assoluto, al di là di qualsiasi esperienza possibile, in opposizione alla realtà fenomenica còlta nelle forme dell'intuizione spaziale e temporale e delle categorie. Unito ad un aggettivo, prende il significato del nome astratto corrispondente o assume significati particolari».
Da un pò di tempo a questa parte, dopo l'esperienza non proprio brillante della «Cosa Rossa» di Occhetto, nella politica italiana la parola «cosa» è ritornata prepotentemente alla ribalta: si discute della creazione della «Cosa Bianca» (l'aggregato che nelle intenzioni dei promotori dovrebbe riunire i politici di ispirazione cattolica neo-democristiana) e, nell'aera comunista-antagonista del centrosinistra, si riparla nuovamente della creazione della «Cosa Rossa» (l'aggregato politico che dovrebbe riunire i quattro partiti della sinistra italiana: Rifondazione Comunista, Comunisti Italiani, Verdi, Sinistra Democratica). I due processi, a prima vista, sembrano distinti e separati ma, qualora dovessero andare a buon fine, il risultato cui giungerebbero sarebbe lo stesso: indebolire il Partito Democratico nella sua componente socialdemocratica ed in quella cattolica. In breve, far saltare per aria il progetto del Pd veltroniano, e cioè la fusione dei Ds e della Margherita in un unico soggetto politico in grado di esprimere una sintesi tra le due citate aree politico-culturali. Il Pd si ritroverebbe tra due fuochi, che esprimerebbero con maggior purezza un messaggio politico che il partito guidato dal sindaco di Roma vorrebbe invece rappresentare come una sintesi un po' appannata.
Le avvisaglie di questo processo sono emerse proprio in occasione della querelle scoppiata all'interno del centrosinistra dopo il voto al Senato sul pacchetto sicurezza: da un lato i cattolici teodem della coraggiosa senatrice Paola Binetti, dall'altro i coriacei e combattivi neo-comunisti e nel mezzo, appiattita come la politica del governo, la componente socialdemocratica del Pd. Motivo del contendere: un emendamento dell'area comunista che introduce una presunta norma anti-omofobia. Questo è solo l'antipasto di quello che potrebbe succedere a breve. I cattolici del Pd (per intenderci, gli ex del Ppi poi confluiti nella Margherita) si sentono sopraffati e soffocati dall'egemonia socialdemocratica degli ex Ds e, forse, vedono di buon occhio, quasi come se fosse un'uscita di sicurezza, la creazione di un soggetto politico che altro non sarebbe che una riedizione proprio del Ppi di Franco Marini, Francesco Rutelli e Beppe Fioroni. Questa volta con protagonisti differenti (vedi ad esempio Savino Pezzotta, ex sindacalista, già segretario generale della Cisl). Qualora andasse a buon fine la creazione della «Cosa Bianca», probabilmente assisteremo alla disgregazione (politico-culturale e non dei marchi dei partiti fondatori) dell'unità politica del Partito Democratico.
In pratica, a sinistra si ritornerebbe al vecchio schema a tre: il Pd, nelle vesti del Pds, rappresentante dell'area socialdemocratica; la «Cosa Bianca», in quelle del Ppi, rappresentante dell'area cattolica; e la «Cosa Rossa» a fare le veci di quella che era la vecchia Rifondazione Comunista prima dell'ingresso nel governo, un partito solo di lotta in grado di trasformare in consensi elettorali tutte le spinte neo-comuniste e antagoniste della società italiana. Sarebbe la prova che le tre aree, tutte ovviamente alternative al messaggio politico del centrodestra, non sono in grado di fare massa critica e quindi di unirsi. L'unica soluzione per uscire dall'empasse potrebbe essere il cannibalismo politico, e forse Veltroni, che è un politico sveglio, lo ha già capito.

Antonio Maglietta

Le «Cose» contro il Pd


di Antonio Maglietta - 13 dicembre 2007
La parola «cosa», secondo l'enciclopedia Treccani, «è il nome più indeterminato e più comprensivo della lingua italiana, col quale si indica, in modo generico, tutto quanto esiste, nella realtà o nell'immaginazione, di concreto o di astratto, di materiale o d'ideale. Talora indica un oggetto determinato, di cui non si sa, non si può o non si vuol dire il nome». Come termine della filosofia, «cosa», pur nella sua indeterminatezza, «indica l'essere singolo concreto, l'oggetto naturale o corporeo percepito attraverso l'esperienza sensibile, per cui il mondo delle cose è spesso contrapposto all'uomo come personalità spirituale o coscienza; in senso più generale, qualsiasi oggetto del pensiero o del giudizio, sia esso reale o fittizio, fisico o mentale, concreto o astratto, sensibile o soprasensibile: significati questi che assumono accezioni più particolari presso singoli filosofi o dottrine filosofiche. La cosa in sé, espressione che nella dottrina kantiana, designa la realtà in assoluto, al di là di qualsiasi esperienza possibile, in opposizione alla realtà fenomenica còlta nelle forme dell'intuizione spaziale e temporale e delle categorie. Unito ad un aggettivo, prende il significato del nome astratto corrispondente o assume significati particolari».
Da un pò di tempo a questa parte, dopo l'esperienza non proprio brillante della «Cosa Rossa» di Occhetto, nella politica italiana la parola «cosa» è ritornata prepotentemente alla ribalta: si discute della creazione della «Cosa Bianca» (l'aggregato che nelle intenzioni dei promotori dovrebbe riunire i politici di ispirazione cattolica neo-democristiana) e, nell'aera comunista-antagonista del centrosinistra, si riparla nuovamente della creazione della «Cosa Rossa» (l'aggregato politico che dovrebbe riunire i quattro partiti della sinistra italiana: Rifondazione Comunista, Comunisti Italiani, Verdi, Sinistra Democratica). I due processi, a prima vista, sembrano distinti e separati ma, qualora dovessero andare a buon fine, il risultato cui giungerebbero sarebbe lo stesso: indebolire il Partito Democratico nella sua componente socialdemocratica ed in quella cattolica. In breve, far saltare per aria il progetto del Pd veltroniano, e cioè la fusione dei Ds e della Margherita in un unico soggetto politico in grado di esprimere una sintesi tra le due citate aree politico-culturali. Il Pd si ritroverebbe tra due fuochi, che esprimerebbero con maggior purezza un messaggio politico che il partito guidato dal sindaco di Roma vorrebbe invece rappresentare come una sintesi un po' appannata.
Le avvisaglie di questo processo sono emerse proprio in occasione della querelle scoppiata all'interno del centrosinistra dopo il voto al Senato sul pacchetto sicurezza: da un lato i cattolici teodem della coraggiosa senatrice Paola Binetti, dall'altro i coriacei e combattivi neo-comunisti e nel mezzo, appiattita come la politica del governo, la componente socialdemocratica del Pd. Motivo del contendere: un emendamento dell'area comunista che introduce una presunta norma anti-omofobia. Questo è solo l'antipasto di quello che potrebbe succedere a breve. I cattolici del Pd (per intenderci, gli ex del Ppi poi confluiti nella Margherita) si sentono sopraffati e soffocati dall'egemonia socialdemocratica degli ex Ds e, forse, vedono di buon occhio, quasi come se fosse un'uscita di sicurezza, la creazione di un soggetto politico che altro non sarebbe che una riedizione proprio del Ppi di Franco Marini, Francesco Rutelli e Beppe Fioroni. Questa volta con protagonisti differenti (vedi ad esempio Savino Pezzotta, ex sindacalista, già segretario generale della Cisl). Qualora andasse a buon fine la creazione della «Cosa Bianca», probabilmente assisteremo alla disgregazione (politico-culturale e non dei marchi dei partiti fondatori) dell'unità politica del Partito Democratico.
In pratica, a sinistra si ritornerebbe al vecchio schema a tre: il Pd, nelle vesti del Pds, rappresentante dell'area socialdemocratica; la «Cosa Bianca», in quelle del Ppi, rappresentante dell'area cattolica; e la «Cosa Rossa» a fare le veci di quella che era la vecchia Rifondazione Comunista prima dell'ingresso nel governo, un partito solo di lotta in grado di trasformare in consensi elettorali tutte le spinte neo-comuniste e antagoniste della società italiana. Sarebbe la prova che le tre aree, tutte ovviamente alternative al messaggio politico del centrodestra, non sono in grado di fare massa critica e quindi di unirsi. L'unica soluzione per uscire dall'empasse potrebbe essere il cannibalismo politico, e forse Veltroni, che è un politico sveglio, lo ha già capito.
Antonio Maglietta

martedì 11 dicembre 2007

Il rapporto Censis e l'immigrazione

di Antonio Maglietta - 11 dicembre 2007

Attualmente tutto il sistema istituzionale in materia di immigrazione si basa sul ruolo centrale che riveste il Ministero dell'Interno (questioni direttamente legate alla sicurezza pubblica, all'asilo, alla cittadinanza, nonché alcuni aspetti relativi all'integrazione), intorno al quale agiscono, a seconda delle questioni, diverse altre amministrazioni:
- Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale (attraverso il ruolo delle Direzioni provinciali del lavoro in materia di contratti);
- Ministero della Solidarietà Sociale (vigilanza dei flussi di entrata dei lavoratori esteri non comunitari e neo comunitari, nonché coordinamento delle politiche a favore dell'integrazione sociale);
- Ministero per i Diritti e le Pari Opportunità (tutela delle vittime di tratta, lotta alle discriminazioni ed al razzismo, contrasto delle mutilazioni genitali femminili, tutela dei diritti umani);
- Ministero degli Affari Esteri (accertamento del possesso dei requisiti necessari per ottenere il visto di ingresso in Italia e rilascio del visto stesso).
Secondo l'ultimo rapporto del Censis sulla situazione sociale del Paese in materia di immigrazione: se si considera il numero di amministrazioni da cui dipendono le principali decisioni in merito all'immigrazione e che sono incaricate di svolgere i compiti essenziali per la gestione della materia ma, soprattutto, se si guarda agli ambiti di possibile sovrapposizione potrebbe legittimamente sorgere il dubbio (che infatti è stato da più parti sollevato) se un fenomeno così complesso possa essere gestito con la dovuta efficienza e tempestività da una tale pluralità di soggetti. Inoltre, come risulta evidente dall'architettura istituzionale in materia, sembra evidente che l'intero sistema ruoti intorno al dato della sicurezza, e che tutte le questioni vengano trattate in un clima di perenne emergenza. In tal senso, un primo passo auspicabile, da fare anche in tempi brevi, sarebbe quello di cercare di uscire da questo clima ed arrivare a regolare il fenomeno con una programmazione dove siano chiare le responsabilità, i meriti ed i demeriti. Insomma, occorre costruire un sistema in cui vi sia l'azione integrata, coordinata e non confusa, di diversi soggetti (Ue, paesi di origine, associazioni datoriali italiane ecc.), che è impensabile non coinvolgere in una materia che, essendo tanto delicata e complessa, trascende anche i confini e gli interessi nazionali. L'introduzione della blu card, lo strumento per attirare lavoratori altamente qualificati nella Ue, su proposta del Vice-Presidente della Commissione europea Franco Frattini, è un esempio positivo in tal senso.
Per quanto riguarda, invece, gli aspetti del fenomeno legati alla questione dell'integrazione, nello stesso rapporto si evidenzia come: nel corso dell'ultimo anno compaiono i primi segnali d'insofferenza nei confronti degli stranieri, in particolare verso alcune comunità come quella dei rumeni e dei Rom; e iniziano ad apparire le prime crepe nel sistema d'integrazione. In pratica è emerso che proprio sotto il governo di centrosinistra, così attivo nelle chiacchiere sulle politiche di integrazione quanto immobile ed impalpabile negli atti concreti, il sistema dell'accoglienza è diventato sempre più traballante; e di pari passo è aumentata anche l'insofferenza degli italiani verso alcune componenti straniere, a causa dell'aumento dei crimini nel nostro Paese, direttamente collegato con l'ingresso in Italia di un considerevole numero di persone che avevano come unico scopo quello di delinquere sotto l'egida di una legislazione più morbida rispetto a quelle del loro Paese di origine. In questo caso un Paese moderno avrebbe dovuto rendersi attivo nelle politiche di accoglienza e di contrasto al crimine per tracciare un solco profondo tra chi ha voglia di lavorare ed integrarsi e chi vuole solo delinquere e continuare a vivere nell'impunità.
Lo straniero che delinque, inoltre, danneggia anche il connazionale che cerca solo di vivere onestamente lavorando, spesso anche in condizioni difficili, e che si ritrova, senza alcuna colpa, nello stesso calderone delle accuse per l'aumento del tasso di criminalità della componente straniera della società italiana. E' chiaro che non esistono bacchette magiche e la rigida separazione tra onesti e delinquenti non è una questione semplice da affrontare, anche perché spesso ci si trova dinanzi a casi in cui le linee di confine legalità/illegalità, onesto/delinquente, siano, allo stato attuale, veramente sottili ed impossibili da decifrare con chiarezza; ma almeno ci doveva essere la volontà di mettere in campo un piano di azione concreto, che desse almeno la percezione alle comunità straniere che vivono in Italia, ma anche alle singole coscienze che decidono di venire nel nostro Paese, che in generale il sistema italiano è tendenzialmente accogliente con l'onesto e severo con il delinquente. Invece chi arriva in Italia ha la sensazione che delinquere sia più conveniente che lavorare. Questo è il dato fondamentale che potrebbe creare situazioni pericolose ed effetti negativi che rischiamo di trascinarci anche nel medio e lungo periodo.

Antonio Maglietta

giovedì 6 dicembre 2007

La piaga dell'assenteismo nella Pubblica Amministrazione

di Antonio Maglietta - 6 dicembre 2007

L'assenteismo è l'emblema dell'inefficienza e del cattivo funzionamento della Pubblica Amministrazione, il fenomeno più evidente e clamoroso. E' questo il monito lanciato martedì dal presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, il quale, nel corso del suo intervento alla cerimonia di inaugurazione dell'anno accademico alla Luiss di Roma, ha puntato l'indice contro le troppe assenze dei dipendenti della PA. «Compresi i giorni di ferie - ha detto Montezemolo - l'assenteismo nel pubblico impiego è del 30% superiore rispetto alle grandi imprese industriali. Azzerare le assenze diverse dalle ferie porterebbe ad un risparmio di quasi un punto di Pil, 14,2 miliardi: 8,3 negli Enti centrali e 5,9 in quelli locali... Portare la quota di assenze totali, comprese le ferie, a livello di quelle nel settore privato - ha aggiunto - darebbe un risparmio di 11,1 miliardi». Il presidente di Confindustria ha sottolineato come tra ferie e permessi vari «un pubblico dipendente è fuori ufficio mediamente un giorno di lavoro su cinque». Ai costi generati dall'assenteismo si devono sommare quelli derivanti «dalla bassa o nulla produttività di quella parte di dipendenti pubblici che, minoritaria ma non piccola, svolge poco e male la sua attività, pur essendo ufficialmente presente sul luogo di lavoro».
Va al ministero della Difesa il primato negativo per il numero di giornate di assenza lavorativa in un anno. «Tra i ministeri - ha sottolineato Montezemolo - il top si raggiunge al ministero della Difesa, con 65 giornate di assenza in un anno, seguito dal ministero dell'Economia e da quello dell'Ambiente, entrambi con oltre 60 giorni... Altrettanto elevato - ha aggiunto - è l'assenteismo nell'Agenzia delle Entrate». E ancora: «All'Inpdap si sfondano i 67 giorni. Negli Enti locali spicca invece il Comune di Bolzano, con 74 giorni di assenza all'anno, pari al 29% delle giornate lavorative, oltre 70 giorni anche per il Comune di La Spezia e la Provincia di Ascoli Piceno».
Già il professor Ichino aveva segnalato, prima dell'estate, che il tasso di assenteismo tra gli impiegati pubblici era arrivato oramai a livelli inaccettabili, tra il 12 ed il 14%, a fronte di un dato del settore privato che oscilla, invece, tra il 4 ed il 6%. Un allarme preso sottogamba dal governo; il quale, peraltro, nonostante siano passati oltre 5 mesi dalla presentazione, non ha ancora dato alcuna risposta ad una interrogazione parlamentare del deputato azzurro Simone Baldelli sul tema. Baldelli, prendendo spunto dalla vicenda degli arresti nella sanità a Perugia, ha chiesto all'esecutivo quali fossero le iniziative che avesse intenzione di intraprendere per ridurre, in maniera strutturale, il problema dell'assenteismo nella Pubblica Amministrazione.
A novembre l'assessore al personale del Comune di Roma ha dichiarato che, secondo i dati elaborati dal nuovo sistema informatico integrato che rileva le presenze dei comunali, entrato a regime il 1° giugno, risulta che ogni giorno disertano l'ufficio tra 6.000 e 7.000 impiegati full time, su un totale di 27.000 e, quindi, il 25% del totale, che, oltre alle ferie, sommano più di un mese all'anno di assenza (32,5 giorni) per congedi, permessi sindacali, assistenza a familiari, malattie, e chi più ne ha ne metta. Proprio sulle assenze per malattia, sempre il professor Ichino, in un articolo del 10 aprile scorso sul Corriere della Sera, aveva denunciato l'inefficienza del sistema dei controlli: nei moduli sui quali i medici dei servizi ispettivi dell'Inps e delle Asl redigono i referti delle loro visite domiciliari non è neppure contemplato l'accertamento dell'inesistenza dell'impedimento.
Pietro Piovani, su Il Messaggero di mercoledì scorso, ha ricordato che, a differenza del settore privato, in quello statale l'assenza per malattia viene per così dire punita, o quanto meno disincentivata, con una detrazione dalla busta paga: ad esempio, un impiegato ministeriale di medio livello (qualifica B3) ci rimette circa 8 euro lordi per ogni giorno di assenza. Più alta, invece, la trattenuta per un impiegato di un'agenzia fiscale, fino a 20 euro al giorno, e anche di più per i funzionari di qualifica più alta. Se un ministeriale sta a casa per malattia per due settimane si fa decurtare circa un centinaio di euro. Se invece supera i quindici giorni, la detrazione non si applica più. In un recente articolo sul Corriere della Sera, Enrico Marro e Sergio Rizzo hanno scritto della situazione paradossale che vede i dipendenti pubblici dei ministeri ricevere un premio di produzione per il solo fatto di recarsi a lavorare: come se andare regolarmente sul posto di lavoro sia un qualcosa da incentivare con premi e non un qualcosa da esigere obbligatoriamente.
Insomma, i segnali che qualcosa sul versante dell'assenteismo non andava erano tanti e tali da far immaginare una presa di posizione da parte del governo ed una conseguente predisposizione di un qualche piano di intervento riparatore. Invece niente. Così facendo, o meglio, non facendo, l'esecutivo ha avuto una doppia colpa: non solo non ha adottato alcun intervento per cercare di porre rimedio al preoccupante andazzo, ma anche e soprattutto ha fatto in modo, con il suo lassismo, che le tante eccellenze professionali che operano nelle Pubbliche Amministrazioni fossero messe nel calderone delle accuse insieme ai colleghi che non hanno neanche la grazia di recarsi sul posto di lavoro. La verità è che il traballante esecutivo di Romano Prodi, in questi mesi, come ha ricordato il deputato di Forza Italia Simone Baldelli, è stato più attento a prevenire l'assenteismo dei senatori del centrosinistra che quello dei dipendenti pubblici.

Antonio Maglietta

martedì 4 dicembre 2007

Salari e meritocrazia

di Antonio Maglietta - 4 dicembre 2007

Ciclicamente si apre il dibattito se il nostro sistema-Paese sia davvero basato sul merito, e la risposta è sempre negativa. Altrettanto ciclicamente si chiede, a ragione, che la nostra società cambi la sua fisionomia ed i criteri regolatori delle sue dinamiche, passando dall'egualitarismo alla meritocrazia. Secondo l'enciclopedia Treccani l'egualitarismo è una «concezione politico-sociale di origine illuministica, ispiratrice dei movimenti socialisti e in genere di ogni azione tendente a realizzare, accanto all'uguaglianza di diritto, un'uguaglianza di fatto, fondata sull'equa ripartizione dei beni e delle fortune tra tutti i membri d'una società organizzata». In particolare, si può definire equalitarismo salariale (o remunerativo) «ogni proposta di politica sindacale tendente a ottenere un uguale trattamento per tutti i lavoratori (di un'industria, di un settore, eccetera), indipendentemente dalle mansioni svolte». E' evidente che una società basata sull'egualitarismo - piatta, monocolore e in cui la soddisfazione del proprio io è repressa - non è strutturata in maniera tale da incidere su quelle leve del carattere umano che, attraverso una sana competizione, sono in grado di garantire performance di altissimo livello, le quali determinano un duplice effetto positivo: soddisfazione personale dell'autore, cui viene riconosciuto il merito della propria attività, e soddisfazione della collettività, che beneficia dell'opera di quest'ultimo.
Non vi è alcun dubbio che in Italia via sia un empasse di natura strutturale, legata alla visione esageratamente egualitarista della società. Tale visione non permette al nostro sistema di fornire prestazioni positive sul lungo periodo, nonostante la presenza, in tutti i settori, di numerosissime eccellenze professionali le cui capacità ed il cui valore in termini assoluti sono spesso e volentieri riconosciuti anche all'estero. Ma quale è il significato della parola meritocrazia? Sempre secondo l'enciclopedia Treccani la meritocrazia è una «concezione della società in base alla quale le responsabilità direttive, e specialmente le cariche pubbliche, dovrebbero essere affidate ai più meritevoli, ossia a coloro che mostrano di possedere in maggior misura intelligenza e capacità naturali, oltreché di impegnarsi nello studio e nel lavoro; il termine, coniato negli Stati Uniti, è stato introdotto in Italia negli anni Settanta con riferimento a sistemi di valutazione scolastica basati sul merito (ma ritenuti tali da discriminare chi non provenga da un ambiente familiare adeguato) e alla tendenza a premiare, nel mondo del lavoro, chi si distingua per impegno e capacità nei confronti di altri, ai quali sarebbe negato in qualche modo il diritto al lavoro e a un reddito dignitoso. Altri hanno invece usato il termine con connotazione positiva, intendendo la concezione meritocratica come una valida alternativa sia alle possibili degenerazioni dell'egualitarismo sia alla diffusione di sistemi clientelari nell'assegnazione dei posti di responsabilità».
Parlare di meritocrazia, in generale, è molto facile. E' ben più complesso darne una concreta attuazione, soprattutto se si parla di interventi specifici. Molti analisti sono concordi nel dire che il primo passo da fare, per passare dalle parole ai fatti, per esempio nel mondo del lavoro, sia quello di intervenire sul salario, legandolo a fattori flessibili meritocratici (dinamici e non statici), ampliando il più possibile la parte variabile, e quindi rendere ancora più netti i differenziali. In Italia il salario variabile, o performance-related pay, è noto sin dagli accordi del 1993 tra governo e parti sociali (previsione di meccanismi premianti da contrattare in sede decentrata). Purtroppo, fino ad ora, è stato fatto troppo poco e male ed è davvero incredibile che nell'attuale dibattito sull'aumento dei salari, soprattutto da parte dei sindacati confederali, non si affronti la questione del merito.
Gli schemi retributivi offerti dalla scienza sono tanti, a seconda della scelta degli obiettivi, degli strumenti e delle modalità (confronta: Luca Crudeli, Obiettivi e strumenti del salario variabile: uno schema interpretativo in Giulio Cainelli, Roberto Fabbri, Paolo Pini, Partecipazione all'impresa e flessibilità retributiva in sistemi locali, Milano, 2001):
bonus una tantum, o lump sum, che non hanno alcun riferimento esplicito alle performance dell'impresa o alla partecipazione dei lavoratori, il cui obiettivo è principalmente contenere il costo del lavoro e ridurre i conflitti fra datore di lavoro e lavoratori attraverso una ridistribuzione di parte del «surplus aziendale»;
esplicitamente basati sull'output fisico del processo produttivo che tendono ad accrescere la produttività (gain-sharing);
basati sulle performance finanziarie dell'impresa il cui scopo è ridistribuire gli incrementi di redditività (ability to pay) e/o di suddividere il rischio fra imprenditore e lavoratori (profit-sharing);
finalizzati alla misurazione ed all'incentivazione della partecipazione diretta dei lavoratori all'organizzazione lavorativa dell'impresa attraverso lo sviluppo di skill e capability.
Si può discutere su quale possa essere lo schema retributivo migliore, ma il problema è che quello che manca è proprio la volontà di iniziare una discussione del genere e di dare seguito, quindi, ai buoni propositi. I margini di intervento sono ampi. Ma allora perché i sindacati, quando parlano di salari, non pongono anche la questione del merito?
Antonio Maglietta
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