martedì 30 ottobre 2007

La grana dei precari del pubblico impiego

di Antonio Maglietta - 30 ottobre 2007

Domenica sera i capigruppo dell'Unione (o presunta tale) al Senato si sono riuniti per tentare di decidere collegialmente la strategia da adottare per i lavori parlamentari a palazzo Madama sulla Finanziaria 2008, dopo le vistose crepe e le imbarazzanti sconfitte nelle votazioni sul decreto fiscale collegato. Nonostante gli appelli di Romano Prodi ad una maggiore compattezza della coalizione, il vertice è stata l'ennesima occasione per fare polemica e mostrare che la maggioranza parlamentare non c'è più, sia per le vistose assenze dell'Italia dei Valori di Di Pietro e dei Liberal-Democratici di Dini ma, soprattutto, per le richieste dei rappresentanti dei partiti della sinistra radicale, che hanno posto sul tavolo la questione dell'assunzione di tutti i precari del pubblico impiego. Cesare Salvi, capogruppo della Sinistra Democratica, ha chiesto al governo una relazione tecnica per capire l'entità delle risorse necessarie mentre Manuela Palermi, dei Comunisti Italiani, ha candidamente riconosciuto che «quanti siano non lo sa neanche il governo».
Che sui numeri del precariato nella pubblica amministrazione ci sia un grosso punto interrogativo non è certo una novità; il dato è oramai noto ed era già emerso nel corso dell'audizione del 30 maggio scorso del Ministro Nicolais, nell'ambito dei lavori della commissione Lavoro della Camera «Sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro». In quell'occasione il Ministro, su precisa domanda, aveva risposto: «Il numero è difficile da definire, innanzitutto perché non tutti intendono il precariato allo stesso modo: molti si considerano precari all'interno della pubblica amministrazione anche se, ad esempio, hanno avuto un contratto a progetto di un anno». Tuttavia il dato certo sul quale si farà riferimento dovrebbe essere quello fornito dal conto annuale della Ragioneria Generale dello Stato, unica fonte conoscitiva ufficiale in materia di pubblico impiego, che comunque parla, in generale, di lavoro flessibile. L'ultimo disponibile registra:
124.283 contratti a tempo determinato;
9.067 interinali;
34.459 lsu;
4.786 contratti di formazione lavoro;
470 contratti di telelavoro.
A questi precari, secondo l'ispettore generale della Ragioneria Generale dello Stato, Giuseppe Lucibello, «si aggiungono i circa 200 mila cosiddetti precari storici della scuola. Con la definizione storici intendiamo i docenti inseriti nelle graduatorie per concorsi e titoli - dalle quali si attinge circa il 50 per cento - e quelli delle graduatorie permanenti della legge n. 124 del 1999, che sono comunque soggetti in possesso di abilitazione, o perché hanno conseguito l'idoneità in base a una procedura concorsuale nelle scuole speciali (cosiddette Ssis) o in analoghi istituti. Le graduatorie permanenti, invece, si compongono di circa 242 mila unità, cui si aggiungono circa 90 mila individuate dalla legge finanziaria con riserva» (estratto dell'audizione del 18 gennaio 2007 in commissione Lavoro della Camera, nell'ambito dell'indagine conoscitiva «Sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro»).
Stiamo parlando, quindi, di una potenziale platea di circa 370.000 persone (anche se va detto che stiamo parlando di calcoli fatti in base ai dati del conto annuale 2005), visto che la sinistra radicale associa indistintamente tutta la flessibilità al precariato, senza tener conto del dato temporale, e che il comma 417 dell'articolo unico della scorsa Finanziaria, fortemente voluto proprio dalle stesse formazioni politiche massimaliste, parla in generale di «assunzione a tempo indeterminato di personale già assunto o utilizzato attraverso tipologie contrattuali non a tempo indeterminato». La citata norma è stata poi affossata dallo stesso governo in diverse mosse; la più eclatante è stata la mancata menzione della norma nella direttiva n. 7 del 30 aprile scorso emanata dal Ministro Nicolais, cioè quella che doveva sciogliere i dubbi interpretativi delle amministrazioni pubbliche sull'impianto della Finanziaria 2007 proprio in tema di stabilizzazioni.
La situazione è resa ancora più incandescente dalla presenza di 70.000 vincitori di concorso non assunti, ed altrettanti idonei, che da tempo reclamano giustamente per la mancata firma dell'agognato contratto e che si sentono abbandonati da un governo che li ha fortemente penalizzati quando ha previsto nella Finanziaria 2007, per il biennio 2008-2009 in tema di reclutamento nella pubblica amministrazione, solo 2 assunzioni da concorso, a fronte di ben 4 stabilizzazioni di precari, ogni 10 cessazioni dal servizio. Un vero e proprio schiaffo alla meritocrazia e, secondo alcuni, anche alla Costituzione. Senza contare che nella predisposizione della Finanziaria 2008, il governo non ha tenuto fede agli impegni presi con l'approvazione della mozione n. 1/00137, presentata dall'onorevole Simone Baldelli alla Camera e sottoscritta da altri 26 parlamentari della Casa delle Libertà, con cui si impegnava «ad adottare iniziative urgenti per prevedere anche l'assunzione dei vincitori e degli idonei dei concorsi pubblici, con riferimento alle graduatorie ancora in vigore coniugandola con il processo di stabilizzazione».
Ora, dopo il successo della manifestazione del 20 ottobre, che nonostante i proclami e gli equilibrismi lessicali era chiaramente contro la politica del governo sul tema del lavoro, i partiti della sinistra radicale cercano di passare all'incasso, e forse di rianimare il fondo di cui al comma 417 dell'articolo unico della scorsa Finanziaria, per dimostrare a militanti e simpatizzanti che certo non si sono impigriti sulle poltrone del potere. Su questa richiesta la sinistra della coalizione ha dichiarato esplicitamente che non ha intenzione di cedere, anche perché il contraccolpo in termini di consensi con il loro elettorato di riferimento sarebbe durissimo. La strada, però, è in netta salita perché sul punto non c'è alcun accordo politico con i riformisti della coalizione, che sono preoccupati delle ripercussioni negative sul bilancio e, soprattutto, dei moniti della Banca d'Italia e della Commissione Europea, che più volte hanno criticato l'Esecutivo per l'eccessivo ed improduttivo aumento della spesa pubblica. E' sicuro che nel braccio di ferro qualcuno dei contendenti perderà la faccia e, soprattutto, gran parte dei consensi presso il proprio elettorato di area, ma è ancora troppo presto per dire chi sarà. La posta in palio è pesante e i leaders della sinistra radicale sanno fin troppo bene che, qualora dovessero uscire sconfitti da questa trattativa, o comunque ulteriormente ridimensionati, la loro battaglia ideologica e strumentale sul precariato potrà dirsi definitivamente persa a tutti gli effetti, senza contare che la loro stessa sopravvivenza politica sarebbe messa seriamente a rischio.

Antonio Maglietta

sabato 27 ottobre 2007

L'Europa e l'immigrazione qualificata

di Antonio Maglietta - 27 ottobre 2007

Attirare in Europa «cervelli», personale molto qualificato proveniente dai Paesi extraeuropei, garantendo loro un permesso di soggiorno, il rispetto di condizioni minime salariali e la possibilità di ricongiungersi con i propri familiari. E' questa la filosofia della cosiddetta «blue card», la carta blu, la risposta europea alla «green card» statunitense, che il vicepresidente della commissione Ue, Franco Frattini, ha proposto martedì scorso ai suoi colleghi e che dovrebbe costituire un altro tassello nella politiche europee riguardanti l'immigrazione legale.
A differenza della carta verde statunitense, che è permanente, quella europea è più attenta a frenare la fuga dei cervelli, in particolare dall'Africa. Infatti, il rischio da evitare è quello di provocare uno svuotamento del know-how dei paesi del terzo e quarto mondo, minando così alla base ogni possibilità di sviluppo di queste realtà. Inoltre, la carta blu prevede la cosiddetta immigrazione circolare, che consente ad un giovane talento, venuto a lavorare in Europa, di tornare in patria per poi tornare di nuovo in Europa, senza dover ripercorrere di nuovo tutte le procedure per ottenerla.
La proposta della «blue card» intende dare una risposta veloce ed efficace alla crescente domanda di personale altamente qualificato da parte delle imprese del vecchio continente, incoraggiando una mobilità interna fra i Ventisette, ma al tempo stesso non interferendo nella competenza degli Stati membri di decidere il numero totale di immigrati che si desiderano far entrare. Ai lavoratori che sono in regola con un determinato tipo di requisiti, vale a dire l'essere in possesso di un contratto di lavoro, avere un salario superiore ad una soglia minima stabilita dagli Stati dell'Unione Europea e l'avere un alto livello di preparazione professionale, verrà data la blue card, per la durata di due anni, prorogabili per almeno altri due. La carta blu, nelle intenzioni del vicepresidente della Commissione Ue, dovrebbe poi aprire la strada a permessi di soggiorno di più lunga durata rispetto a quelli attuali, consentendo anche ai lavoratori che si spostano da un Paese Ue all'altro di cumulare i periodi di residenza.
I titolari della blue card potranno muoversi liberamente sul territorio Ue e godranno degli stessi diritti dei lavoratori europei, per quanto riguarda la normativa sul lavoro, inclusa la libertà di aderire ad un sindacato. Nella «guerra dei cervelli», soprattutto con Usa e Australia, l'Unione Europea, con questa proposta, intende attirare verso il suo mercato personale molto qualificato, escludendo però chi vuole aprire la sua impresa o vuole lavorare in Europa per un periodo inferiore ai tre mesi. I numeri attuali sono infatti desolanti. Nel 2005 in Europa solo lo 0,9% dei cosiddetti «high-skilled workes» (i lavoratori altamente qualificati) risultava essere extraeuropeo a fronte di un ben 9,9% registrato in Australia, di un altrettanto positivo 7,3% in Canada ed un 3,5% in Usa.
Prima di diventare una realtà, la proposta della carta blu dovrà passare per il tavolo del Consiglio Ue (l'approvazione potrebbe arrivare a dicembre) e al Parlamento europeo, che darà il suo parere. La stessa trafila si preannuncia anche per l'altra proposta di direttiva che mira a uniformare le procedure per la concessione del permesso di soggiorno e di lavoro per i lavoratori extraeuropei, garantendo loro, anche in questo caso, gli stessi «diritti socio-economici» dei lavoratori dei Paesi Ue. Il vicepresidente Franco Frattini ha ribadito che la direttiva «vuole essere solo uno strumento a chi ritiene possa essergli utile, non vogliamo imporre niente». Il riferimento è anzitutto all'Austria, che sulle prime aveva espresso forti dubbi sulla proposta, temendo che la «blue card» potesse servire agli immigrati per chiedere l'ingresso ad esempio in Spagna per poi approdare, grazie agli accordi di Schengen, in Austria. La proposta attuale lascia agli Stati nazionali la possibilità di decidere il numero di lavoratori stranieri che si desiderano far entrare nel Paese, limitando la validità del permesso di lavoro al solo stato membro che emetterà la «blue card», mentre quello di circolazione sarà valido per tutta l'Ue.
E' chiaro che la ratio è quella di rafforzare e uniformare i percorsi legali previsti dalle legislazioni degli Stati membri in tema di immigrazione, senza intaccare gli interessi nazionali. Si tratta di un progetto condivisibile se si pensa che attualmente, soprattutto in Italia, l'immigrazione, dal punto di vista dei profili professionali, è di bassa qualità e questo non aiuta certo il paese ad essere competitivo nell'epoca dell'economia globale di mercato. Se poi, come già sperimentato durante il governo Berlusconi, si intensificassero anche i programmi di cooperazione sulla formazione professionale in loco, con quei paesi maggiormente interessati dal fenomeno migratorio verso il nostro Paese, o comunque verso l'Europa in generale, avremmo fatto sicuramente un ulteriore passo avanti nel soddisfare i molteplici interessi in campo.

Antonio Maglietta

giovedì 18 ottobre 2007

Stretta sull'immigrazione: ultime dalla Francia


di Antonio Maglietta - 18 ottobre 2007

La Francia praticherà i test genetici agli immigrati candidati al ricongiungimento familiare. La commissione bicamerale paritaria, incaricata di riesaminare la legge sull'immigrazione attualmente all'esame del Parlamento, ha infatti deciso di mantenere tale e quale il testo che era stato approvato il 5 ottobre dal Senato; si tratta del controverso emendamento che introduce l'esame del dna per verificare la veridicità delle domande di ricongiungimento. I test devono essere ordinati, caso per caso, da un magistrato e non possono essere obbligatori (cioè il richiedente deve fare domanda in prima persona; rischia però, in caso contrario, di vedersi rifiutato il ricongiungimento). Le spese saranno a carico dallo Stato e i test riguarderanno solo persone provenienti da paesi in cui l'anagrafe è inaffidabile o inesistente, e solo per quanto riguarda il rapporto madre-figlio. L'emendamento, introdotto dal deputato dell'Unione per un movimento popolare (Ump, il partito di maggioranza che sostiene il presidente Sarkozy), Thierry Mariani, era stato aspramente criticato dall'opposizione di sinistra, ma anche da alcuni esponenti della maggioranza e del centro, come il leader centrista François Bayrou e i senatori dell'Ump, Charles Pasqua (ex ministro dell'Interno) e Jean-Pierre Raffarin (ex Primo ministro).
La ratio del testo è chiara. Identificare con certezza chi entra nel proprio paese è alla base di qualsiasi seria politica sul tema della sicurezza. Ci sono paesi, soprattutto del continente africano, che non hanno un sistema anagrafico efficiente e, quindi, in alcuni casi, le identità potrebbero diventare un rebus anziché, come dovrebbe essere, una certezza. Il test del dna servirebbe a coprire questa mancanza e verificare che le domande di ricongiungimento siano veritiere dal punto di vista biologico, o se nascondano, invece, in caso contrario, un canale di immigrazione illegale. Né più e né meno. La legge dovrebbe essere approvata in fretta, con tutta probabilità il 23 ottobre. I parlamentari socialisti hanno annunciato che impugneranno la norma dinanzi al Consiglio costituzionale.
Il tema è di quelli delicati, ma occorrerebbe ricordare, in tal senso, la direttiva del Consiglio Ue del 22 settembre 2002 relativa al ricongiungimento familiare, che mirava a stabilire le condizioni alle quali può essere esercitato tale diritto per i cittadini dei paesi terzi legittimamente residenti nell'Unione e sottolineava l'importanza di elaborare una politica di integrazione che si proponga di offrire loro diritti e obblighi analoghi a quelli dei cittadini dell'Unione europea. La direttiva, che è applicabile fatte salve le norme nazionali che eventualmente prevedano condizioni più favorevoli, dispone che «l'ingresso e il soggiorno di un familiare potranno essere rifiutati per ragioni d'ordine pubblico, di sicurezza interna e di salute pubblica. Queste stesse ragioni potranno giustificare la revoca o il mancato rinnovo di un permesso già concesso». La certezza dei dati anagrafici e del legame biologico madre-figlio, nel caso di domanda per il ricongiungimento familiare, rientra nei motivi di ordine pubblico? Certamente si. E allora perché tutte queste polemiche?
La realtà è che, anche a livello europeo, sulle questioni relative all'immigrazione ci sono visioni totalmente differenti ed ogni occasione è buona per far emergere le peculiarità. Nel vecchio continente, ma soprattutto in paesi come l'Italia e la Francia, ci sono due punti di vista sul tema: uno che legge gli eventi con l'occhio ideologico e l'altro con quello della realtà dei fatti. Uno che vuole il melting pot, ora e subito, e l'altro che mira a salvaguardare le identità nazionali. Uno che vuole aprire le porte in maniera indiscriminata e l'altro che vorrebbe aiutare gli immigrati a casa loro. Uno che pensa che l'integrazione sia un atto immediato e l'altro che sia un percorso a tappe. Uno che vede la convivenza come una armoniosa unione di intenti tra diversi e l'altro che la considera sotto tutti gli aspetti dello scibile umano, difficoltà comprese, anche di carattere culturale. Uno che chiude gli occhi sugli obblighi e parla solo di diritti e l'altra che vede nel rispetto degli obblighi un segno della reale volontà di integrazione. Le due visioni sono inconciliabili ed i punti di contatto, qualora ci fossero, sarebbero difficili da cristallizzare. A questo punto la scelta è in mano ai cittadini; i loro voti, anche a livello locale, potrebbero far pendere la scelta sull'uno o sull'altro modello.

Antonio Maglietta

martedì 16 ottobre 2007

Prodi tradisce i sindacati


di Antonio Maglietta - 16 ottobre 2007


Romano Prodi ha deciso di tradire i sindacati confederali. A chi gli chiedeva, nei giorni scorsi, se alla fine avrebbe ceduto alle richieste dei massimalisti del centrosinistra sulle modifiche al protocollo sul welfare, rispondeva serafico: «Pacta sunt servanda». Nonostante queste dichiarazioni, il governo ha deciso di modificare unilateralmente parte del contenuto dell'accordo. E non si tratta certo di modifiche di poco conto, come sta cercando di far credere certa stampa «amica»: è saltato il tetto numerico sui lavori usuranti e, soprattutto, viene irrigidito il contratto a termine, per cui, a differenza della prima versione, sarà possibile un solo rinnovo a termine dopo 36 mesi. Certamente si tratta di un vero e proprio schiaffo dato a tutti quelli che avevano appoggiato politicamente il protocollo così com'era. Il ceffone ha colpito soprattutto i sindacati confederali, che avevano sottoscritto quel testo d'intesa ed avevano messo in gioco la loro stessa credibilità per difenderlo a spada tratta.
Dopo aver vinto con percentuali bulgare il referendum tra i lavoratori, i confederali si aspettavano che l'accordo fosse recepito, senza troppi traumi, anche dal Consiglio dei ministri, e quindi tradotto da subito in disegno di legge da presentare in Parlamento (con tutta probabilità alla Camera). Invece no, è successa la cosa che più temevano i leaders della «Triplice»: il sindacato è stato scavalcato a sinistra, con l'aggravante che questo è avvenuto per opera di due partiti della coalizione che sostiene il governo: Rifondazione Comunista e Comunisti Italiani. La conseguenza palese è che i sindacati confederali sono stati delegittimati dai partiti della sinistra massimalista, ma anche dallo stesso Prodi, sotto due aspetti: nel ruolo di difensori degli interessi di tutti i lavoratori e nel titolo di rappresentanti di questi stessi interessi.
A questo punto un lavoratore con simpatie a sinistra potrebbe benissimo pensare che il sindacato sia inutile, o che tratti con la logica del «governo amico», o alla meglio sia inefficiente, perché non è riuscito a strappare un accordo migliore, come invece hanno dimostrato benissimo che si poteva fare i partiti di Franco Giordano e Oliviero Diliberto. E che cosa penserà a questo punto Epifani, leader della Cgil, colui che più si è esposto e più ha rischiato su questa vicenda e per difendere l'accordo (e lo stesso governo Prodi) ha dovuto subire gli strali dei contestatori e la storica spaccatura politica all'interno della sua confederazione da parte della Fiom?
Non è da meno la ripercussione del tradimento di Prodi sul tema della rappresentanza dei sindacati confederali, sulla quale in Italia si dovrebbe fare una profonda riflessione. Oggi la «Triplice», anche alla luce degli ultimi eventi, è davvero rappresentativa degli interessi dei lavoratori attivi, oppure lo è solo dei pensionati, vista anche la composizione dei suoi iscritti? A questo punto è giusto che i sindacati confederali siedano al tavolo delle trattative con il governo, parlando a nome di categorie che non rappresentano, come ad esempio i giovani lavoratori? E se al governo non è bastato il voto quasi plebiscitario dei lavoratori sindacalizzati per legittimare politicamente il protocollo sul welfare, allora che senso ha avuto indire una consultazione referendaria come quella dei giorni scorsi?
Tutto questo, ovviamente, dà per scontato il fatto che un esecutivo serio e degno di questo nome, una volta sottoscritti degli accordi, alla fine cerchi di rispettarli a tutti i costi. Tuttavia, in quest'anno e mezzo di governo di centrosinistra si è promesso, anche solennemente, tutto ed il contrario di tutto per poi fare nulla, o alla meglio la cosa peggiore. Quindi l'ultimo voltafaccia, benché molto grave nell'ottica dei rapporti con le parti sociali, non fa altro che cristallizzare l'assoluta mancanza di credibilità di ci sta governando. Perciò la vera novità non è il tradimento dei patti sottoscritti e la mancanza di credibilità del governo; quella semmai è una conferma. La novità, invece, è che i leaders del centrosinistra, Prodi in testa, pur di restare attaccati alle poltrone non guardano in faccia neanche gli (ex?) amici della «Triplice». Forse dalle parti di Palazzo Chigi, incuranti del fatto che la vicenda rappresenti un colpo mortale alla credibilità degli stessi sindacati confederali, avranno pensato: «Mors tua, vita mea».


Antonio Maglietta

giovedì 11 ottobre 2007

Caos sulla sicurezza



di Antonio Maglietta - 11 ottobre 2007

Con riferimento alla questione della sicurezza, «la lunghissima coalizione di centrosinistra non è in grado di prendere decisioni su questi temi». A dirlo non è solo il centrodestra. Infatti la frase è stata pronunciata dal ministro delle Comunicazioni, Paolo Gentiloni, lunedì nel corso del suo intervento al termine della serata promossa dal presidente della Provincia di Firenze, Matteo Renzi, in vista del voto per le primarie del Partito Democratico. Nel corso dell'iniziativa, tra i numerosi interventi, c'è stato anche quello dell'assessore del Comune di Firenze, Graziano Cioni, protagonista della recente ordinanza «anti-lavavetri». Cioni, rivolgendosi al ministro Gentiloni, ha chiesto perché non si possano prendere provvedimenti in grado di garantire sicurezza e vivibilità nelle città senza finire al centro delle polemiche. «Il motivo - ha detto il ministro - è che non c'è chiarezza su queste cose. Sono temi che, all'interno della nostra coalizione, diventano oggetto di polemiche, quando invece - ha concluso - sarebbe indispensabile un indirizzo chiaro».
Un semplice sfogo isolato caduto nel nulla? Sembra proprio di no. E' significativo che il malessere e le laceranti contraddizioni all'interno del centrosinistra sulla questione «sicurezza» emergano, con sempre più insistenza, in una Regione chiave del potere istituzionale rosso come la Toscana. Infatti, dopo la sortita di Gentiloni, è stato il turno del sindaco di Firenze, nonché presidente nazionale dell'Anci, Leonardo Domenici. Intervenendo su Radio 24 al programma «Viva Voce», l'esponente diessino non ha usato giri di parole: «Sulla questione sicurezza un problema a sinistra c'è. Se la sinistra cosiddetta "radicale" o "antagonista" non partecipasse al governo, sarebbe quasi meglio anche per loro. Se si sta al governo si sta al governo, non si va a fare cortei contro. In ogni caso ognuno fa le scelte che può: la sinistra radicale nella mia maggioranza non c'è». E con riferimento ad un titolo apparso martedì scorso in prima pagina su «Il Manifesto» («Grilletti d'Italia»), con cui si criticava aspramente l'accordo raggiunto in materia di sicurezza tra il ministero dell'Interno ed una delegazione di sindaci, Domenici ha affermato: «E' un'enorme idiozia e penso che sia anche molto grave. Sono stupito che un giornale pubblichi un titolo del genere, non è una cosa degna de "Il Manifesto"».
Critiche al titolo del quotidiano diretto da Gabriele Polo sono arrivate anche dal sindaco di Venezia, Massimo Cacciari: «E' un titolo che si commenta da sè; è lo sciocchezzaio incarnato. Il problema è che sulla sicurezza, come su tanti altri temi anche più decisivi per le sorti del Paese, ci sono margini ristrettissimi di possibilità di governo efficace con la sinistra radicale, che io definisco invece ultraconservatrice. Governare con loro sarà sempre più difficile. Dopodiché, a livello locale si può fare poco, soprattutto con un governo come questo che sopravvive, diciamocelo fuori dai denti». Non è un caso che al coro unanime di critiche proveniente dal centrodestra si associno anche alcuni sindaci di centrosinistra. Proprio loro, infatti, a causa del ruolo istituzionale che ricoprono, sono costretti a confrontarsi quotidianamente con la realtà e sanno benissimo che pontificare sul nulla senza prendere alcuna decisione concreta, come fa il governo, non aiuta certo i cittadini a sentirsi più sicuri.
Restando alla polemica sollevata da Domenici, va sottolineata la risposta piccata arrivata a stretto giro di posta da Rifondazione Comunista: «Le sue affermazioni sono gravissime, perché assecondano le peggiori pulsioni securitarie che la destra agita nel Paese e perché sono oggettivamente incompatibili con lo svolgimento di una funzione come quella di presidente dell'Anci, che dovrebbe innanzitutto garantire il pluralismo istituzionale. Al contrario, assistiamo negli ultimi mesi a una politica sempre più orientata in senso reazionario, a partire dalla proposta avanzata proprio da Domenici di ampliare a dismisura il ruolo e i compiti della polizia municipale contro immigrati e lavavetri. Inoltre, il presidente dell'Anci pare aver dimenticato in fretta che proprio la tanto vituperata sinistra è stata l'unica a difendere i Comuni in questi ultimi anni, contro i tentativi di strangolamento finanziario, di privatizzazione dei servizi, di immiserimento della loro funzione istituzionale e sociale. Evidentemente, più che dei Comuni italiani, Domenici vuole assumere la rappresentanza di quella pattuglia di sindaci sceriffi del Partito Democratico che sui temi dell'inclusione sociale e dei servizi ai cittadini preferiscono parlare con la Lega e Alleanza nazionale».
A questo punto, diviene chiara la causa della paralisi che attanaglia da circa un anno e mezzo le istituzioni nostrane. Il governo Prodi non è in grado di prendere alcuna decisione perché la coalizione che lo sostiene non è d'accordo su nulla e men che meno su un tema cruciale come quello della sicurezza. Il problema non è la legge elettorale, ma la natura stessa di questo centrosinistra, che è semplicemente un cartello elettorale pronto ad occupare tutte le poltrone e nulla più.

Antonio Maglietta

sabato 6 ottobre 2007

Finanziaria senz'anima



di Antonio Maglietta - 6 ottobre 2007

Si sa che nel governo di Romano Prodi un sì di oggi può benissimo trasformarsi, senza colpo ferire, in un no domani. Se si dà qualcosa per certo, l'unica cosa certa è che non si farà o, alla meglio, si farà in maniera totalmente diversa rispetto a quanto era stato annunciato. Si promette di tutto e di più, per poi fare nulla. Si contratta su tutto e con tutti e l'accordo al ribasso è diventato la norma. Gli interlocutori del governo che avanzano pretese «irrinunciabili», in cambio di un voto favorevole sui singoli provvedimenti, si moltiplicano in maniera esponenziale. Prima c'erano solo i «quattro dell'ave maria» (Giordano, Mussi, Pecoraro Scanio e Diliberto); ora i «malpancisti» sono un vero e proprio esercito. Prodi, per non scontentare nessuno, sembra aver finalmente deciso di tenere una linea autonoma ed equidistante tra le varie anime inquiete della sua variopinta e instabile coalizione. Il decisionismo sembra essere diventata la quintessenza di Palazzo Chigi: decidere sì, ma di fare nulla e rimandare sempre all'infinito. Insomma, se non è la paralisi del sistema, poco ci manca.
Un classico esempio ci viene fornito dalla Finanziaria 2008 (disegno di legge n. 1817, in discussione al Senato). Innanzitutto, a norma di legge, dovrebbe essere presentata alle Camere entro il 30 settembre. In realtà il testo è stato reso disponibile solo il 3 ottobre e l'incongruenza è stata anche palesata a mezzo stampa dalle giuste lamentele di vari senatori. Quanto al contenuto, è evidente che si tratta di una Finanziaria senz'anima, visto che i nodi centrali del welfare e della sicurezza sono stati elusi, e contemplati in testi autonomi che saranno portati all'attenzione delle Camere non si sa bene quando. La questione previdenziale è quella maggiormente paradossale. Ad oggi, a meno di 3 mesi dall'entrata in vigore del sistema previsto dalla riforma del governo Berlusconi, gli italiani ancora non sanno se rientreranno nel modello-Maroni oppure in quello previsto dal protocollo sul welfare del 23 luglio scorso che - è bene ricordalo - dev'essere ancora tradotto in legge. Non sembra essere da meno l'affaire «pubblico impiego». Doveva essere il fiore all'occhiello di una strategia che mirava a conquistare tutti i dipendenti pubblici con regalie come il posto fisso ed intoccabile a vita (per tutti e nessuno escluso, nullafacenti e assenteisti compresi), rinnovi contrattuali migliori in termini economici rispetto ai colleghi del settore privato, sanatorie indiscriminate per tutti e contratti a tempo indeterminato distribuiti a pioggia (ex articolo 1, comma 417, della Finanziaria 2007).
Purtroppo la dea bendata sembra aver mollato Romano Prodi ed il suo famoso «fattore C» sembra essersi trasformato in «fattore D» (disastro). Nel tentativo di accontentare tutti, il governo non sta accontentando nessuno. I precari, sedotti e abbandonati, per essere stabilizzati dovranno far riferimento solo alle norme della Finanziaria 2007 (depotenziata dall'affossamento del «tana libera tutti», l'articolo 1, comma 417), visto che in quella del 2008 nulla si dice in proposito. Qualcosa per loro c'è nella manovra economica, come ad esempio la riserva di posti del 20% nei concorsi, sempre comunque a discrezione delle Amministrazioni (articolo 93, comma 11), oppure la priorità data alle stabilizzazioni qualora l'Amministrazione decidesse di assumere a tempo pieno (articolo 93, comma 6), ma si tratta di poco o nulla. Il rigido rispetto dei limiti delle piante organiche, un parere dato dal ministero della Funzione Pubblica alla Regione Veneto (Parere Uppa n. 11/07 - Prot. n. DFP-0031444-03/08/2007-1.2.3.4: secondo il Dipartimento della Funzione Pubblica non si può procedere alla stabilizzazione, ai sensi dell'articolo 1, comma 558, della legge 296/2006, del personale dipendente a tempo determinato che consegua il requisito dei tre anni di servizio in virtù di una proroga successiva alla data del 29 settembre 2006) e, da ultimo, la novella previsione di future assunzioni nella Pubblica Amministrazione solo attraverso contratti a tempo indeterminato, stanno fissando paletti decisivi che, probabilmente, faranno restare fuori migliaia di precari dalle procedure di stabilizzazione. I manifesti propagandistici del partito dei Comunisti Italiani, che annunciavano baldanzosamente 350.000 stabilizzazioni, suonano come una beffa alla luce della realtà dei fatti.
Non è andata meglio ai vincitori di concorso non ancora assunti. Già la Finanziaria 2007 aveva previsto, per il biennio 2008-2009, il blocco parziale del turnover con la previsione di sole 2 assunzioni ogni 10 cessazioni dal servizio. Ora, quella del 2008 ha previsto che il blocco, nell'ordine di 6 assunzioni ogni 10 cessazioni, sarà prorogato fino al 2010 (ancora non è dato sapere se nelle stesse forme di quello già previsto dalla Finanziaria 2007: 2 assunzioni da concorso e 4 stabilizzazioni, ogni 10 cessazioni dal servizio). E che dire del personale in ruolo? Anche qui si prevedono tempi bui. Le risorse necessarie per i rinnovi dei contratti, peraltro già promessi, non ci sono e la «Triplice» sindacale ha già preannunciato uno sciopero generale per il 26 ottobre se i soldi non verranno fuori. Padoa-Schioppa ha fatto sapere che alla fine ci saranno ma, comunque, come al solito, pone in avanti la risoluzione del problema. Come se non bastasse, è arrivata anche un'indagine dell'Eurispes ad agitare le acque. Secondo l'Istituto, i dipendenti pubblici italiani sono quelli pagati meno in ambito europeo. I lavoratori meglio pagati sono i francesi, che in un anno guadagnano 35.665,9 euro pur avendo la Francia un forte cuneo fiscale che supera di poco il 50%. Anche in Germania il cuneo fiscale è alto (47,4%), ma il reddito netto medio dei lavoratori tedeschi è di 27.110,8 euro annui. Poco più dei tedeschi guadagnano i lavoratori pubblici spagnoli, che in un anno percepiscono 27.622 euro. Nel Regno Unito si ha il cuneo fiscale più basso, pari al 30,4%, e il reddito netto annuo pro-capite ammonta a 26.492 euro. In Italia, i lavoratori pubblici in media percepiscono un reddito annuo netto pro-capite di 23.476,9 euro: oltre 12.000 euro in meno rispetto ai colleghi francesi, oltre 4.100 euro se messi a confrontato con gli spagnoli, oltre 3.600 euro con i tedeschi e circa 3.000 euro in meno dei colleghi britannici.
Insomma, ci sono problemi dappertutto e Prodi gira la testa dall'altra parte per non guardare. Ci sono situazioni delicate da risolvere e non si fa altro che rimandare tutte le decisioni a data da destinarsi, anche quella che risolverebbe gran parte dei problemi: le dimissioni.

Antonio Maglietta

giovedì 4 ottobre 2007

Immigrazione. I numeri e l'ideologia



di Antonio Maglietta - 4 ottobre 2007

L'Istituto Nazionale di Statistica ha diffuso martedì scorso alcuni dati interessanti sul fenomeno dell'immigrazione in Italia. Secondo l'Istat «sono sempre più numerosi gli immigrati che diventano italiani "per acquisizione di cittadinanza": nel 2006 sono stati registrati 35.266 nuovi cittadini italiani, circa il 23% in più rispetto al 2005. Il fenomeno, tuttavia, è ancora relativamente limitato. Si tenga presente che dal 1996, anno in cui è iniziata la rilevazione delle acquisizioni di cittadinanza nell'ambito della rilevazione sulla popolazione straniera residente, esse sono state complessivamente circa 182.000. Stimando, in base ai dati disponibili di fonte ministero dell'Interno, le concessioni fino al 1995 in circa 33.600, si ottiene un totale di 215.000 cittadini stranieri che fino al 2006 hanno ottenuto la cittadinanza italiana. La maggior parte delle acquisizioni di cittadinanza italiana avviene ancora oggi per matrimonio: poiché i matrimoni misti si celebrano prevalentemente fra donne straniere e uomini italiani, tra i nuovi cittadini italiani sono più numerose le donne. Le concessioni della cittadinanza italiana per naturalizzazione, invece, sono ancora poco frequenti, specialmente se confrontate con il bacino degli stranieri potenzialmente in possesso del requisito principale e cioè la residenza continuativa per 10 anni... Più di uno straniero su quattro è regolarmente presente in Italia da oltre un decennio e quindi potrebbe essere in possesso del requisito della residenza continuativa».
Molti stranieri, quindi, pur avendo i requisiti di legge, ed in particolare la residenza decennale nel nostro Paese, decidono di non richiedere la naturalizzazione. Infatti, la maggior parte delle acquisizioni di cittadinanza italiana avviene per matrimonio. Il rapporto dell'Istat non rileva nessun difetto legislativo nel processo di naturalizzazione tale da giustificare la proposta governativa di portare il termine della residenza continuativa a 5 anni in sostituzione degli attuali 10. Perché, allora, il governo vuole questa modifica, se la maggior parte degli stessi stranieri (quindi i diretti interessati) decide di non acquistare la cittadinanza italiana nemmeno dopo 10 anni?
Per quanto riguarda il motivo della presenza degli immigrati in Italia, il Rapporto afferma che «il lavoro è la causa prevalente (1.463.058 permessi), soprattutto tra gli uomini (circa il 78%), mentre per le donne la quota scende al 44%. Negli ultimi anni cresce il numero dei permessi per motivi familiari (763.744), anche per effetto della regolarizzazione del 2002, che ha fortemente accresciuto il numero di coloro che si sono potuti avvalere della facoltà di ricostituire in Italia il proprio nucleo familiare. Soprattutto le donne sono presenti in Italia con un permesso di questo tipo (in oltre il 48% dei casi), ma i permessi per ricongiungimento familiare sono aumentati anche per gli uomini, grazie all'azione di richiamo dei congiunti da parte delle donne che hanno fatto il loro ingresso in Italia per motivi di lavoro. Al 1° gennaio 2007 le due tipologie di permessi, lavoro e famiglia, considerate insieme, rappresentano ormai oltre il 90% dei motivi di presenza». Se il lavoro e la famiglia sono i motivi principali della presenza stanziale degli stranieri in Italia, allora, di conseguenza, diventa ragionevole pensare che il fenomeno andrebbe regolato rafforzando i percorsi legali di entrambi gli ambiti. Invece la «strana coppia» Amato-Ferrero, come sappiamo, ha deciso di dare la possibilità agli stranieri di venire in Italia senza avere un contratto di lavoro, mettendo una pietra tombale sulle politiche legate al concetto di immigrazione economica e su qualsiasi realistico percorso a tappe che garantisca sia un minimo di controllo - e quindi di sicurezza al nostro Paese - che la possibilità di una integrazione graduale dello straniero.
La cieca furia ideologica e, forse, un cinico calcolo politico sembrano aver preso il sopravvento sulla ragione ed una sgangherata idea di multiculturalismo - una sorta di melting pot casereccio - viene sbandierata a sinistra come la panacea di tutti i mali. Neanche le analisi sui dati riescono a far cambiare idea a chi ha deciso, forse, che il voto degli immigrati, trasformati da subito e senza fronzoli in neo-cittadini, possa dargli a vita il governo del Paese.



Antonio Maglietta

martedì 2 ottobre 2007

L'altra Casta



di Antonio Maglietta - 2 ottobre 2007
Il centrosinistra, con l'ausilio dei sindacati confederali, sta creando nel mondo del lavoro una vera e propria classe intoccabile e privilegiata: l'impiegato pubblico. Già con la scorsa legge finanziaria il governo aveva deciso di conquistare facili consensi con la pianificazione, almeno sulla carta, di una maxi-sanatoria nel pubblico impiego, che avrebbe permesso di trasformare a tempo indeterminato tutti i contratti flessibili. Le stabilizzazioni promesse furono 350.000 ma, ad oggi, dati alla mano, siamo solo a circa 10.000. Peggio ancora è andata ai lavoratori del settore privato. Per loro, nella Finanziaria 2007, se parliamo di parasubordinati, ci sono state solo stangate contributive e nulla più; aumenti perpetrati, tra l'altro, con la beffa di dover pagare di più per una pensione che i giovani forse neanche vedranno.
Ora, seppur con modalità diverse, l'Unione ha nuovamente discriminato i lavoratori privati. Se la Finanziaria 2008 passerà indenne la prova delle aule parlamentari, nella Pubblica Amministrazione si potrà assumere solo con contratti a tempo indeterminato, salvo alcune eccezioni, tra cui si segnalano: i lavori stagionali, gli infermieri del Servizio Sanitario Nazionale e gli Enti locali non sottoposti al patto di stabilità interno e che comunque abbiano una dotazione organica - o personale in servizio - non superiore alle 15 unità. Un impiegato pubblico, quindi, per legge, potrebbe essere assunto solo a tempo indeterminato, mentre un lavoratore del settore privato, peraltro esposto alla concorrenza nel mercato, sarebbe l'unico a doversi sorbire un contratto flessibile.
La conseguenza lapalissiana è che, prevedendo assurdi privilegi a favore del pubblico impiego, si creano ingiuste discriminazioni e fratture nel mondo del lavoro. Ma questo, al governo, sembra interessare veramente poco. I problemi, dalle parti di Palazzo Chigi e nel centrosinistra, sono altri: in primis come mantenere le poltrone e spartirsi il potere. Senza contare, inoltre, che con queste disposizioni e questo modus operandi si danneggiano le tante figure professionali di eccellenza presenti proprio nella Pubblica Amministrazione, che continuerebbero ad essere valutate e gratificate, senza alcuna scala di merito, tanto quanto i loro colleghi nullafacenti o assenteisti. E' da questo punto che bisogna partire se si vuole realmente inserire qualche meccanismo meritocratico e creare i presupposti per una maggiore vitalità e produttività del settore pubblico.
Viste anche le cospicue somme destinate ai rinnovi contrattuali, viene il sospetto che dietro queste disposizioni governative ci sia, come già sembra essere accaduto la volta scorsa, il sindacato confederale. La Triplice sindacale sembra aver scelto gli impiegati pubblici come nuova classe sociale di riferimento, abbandonando definitivamente la classe operaia al suo destino, oramai poco numerosa e ancora meno rappresentativa nel mondo del lavoro. Segno evidente di questa scollatura tra confederali e operai è anche la recente presa di posizione, all'interno della Cgil, della Fiom, che per la prima volta nella sua storia ha preso ufficialmente una strada diversa rispetto alla casa madre. La bocciatura del protocollo sul welfare da parte delle «tute blu» è, infatti, un chiaro segnale in tal senso. Che cosa faranno da grandi Rinaldini e soprattutto Cremaschi ancora non è dato saperlo, ma è certo che non potranno più rimanere a stretto contatto con chi tratta nei tavoli concertativi con la logica del «governo amico» di centrosinistra, alla faccia degli interessi della collettività dei lavoratori...
A questo punto, diventa legittimo chiedersi se proprio chi dice di difendere i diritti di tutti i lavoratoti possa accettare (o forse addirittura favorire) che nel mondo del lavoro si crei una frattura tra super-privilegiati del pubblico impiego e tartassati del settore privato. Per ora sembra di sì.



Antonio Maglietta
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