giovedì 27 agosto 2009

Puntare sulla cooperazione per gestire i flussi migratori


di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

martedì 25 agosto 2009

Negli impegni del programma elettorale presentato dal Popolo della Libertà alle elezioni politiche del 2008 c'era scritto testualmente: contrasto dell'immigrazione clandestina, attraverso la collaborazione tra governi europei e con i paesi di origine e transito degli immigrati. A più di un anno di distanza la promessa è stata mantenuta attraverso l'accordo con la Libia promosso dal presidente Berlusconi (uno dei paesi di maggiore transito dei flussi di immigrati provenienti dall'Africa e diretti in Europa) e i tanti progetti di cooperazione allo sviluppo con i paesi di origine dei flussi migratori verso i nostri territori, sostenuti dal Ministero degli Affari Esteri e da quello dello Sviluppo Economico. Ed è proprio la cooperazione con questi paesi lo strumento su cui puntare per mantenere i flussi migratori regolari ad un livello sostenibile per le nostre capacità di accoglienza. Inoltre, tale cooperazione rappresenta un incentivo al processo di internazionalizzazione dei nostri operatori economici. Sul sito della Farnesina, il dicastero storicamente impegnato in questi progetti, si evidenzia infatti la nuova chiave di lettura della cooperazione allo sviluppo in tema di gestione dei flussi migratori. Più di recente le nuove emergenze hanno conferito alla cooperazione un ruolo sempre più fondamentale nella politica estera italiana, in armonia con gli interventi per il mantenimento della pace e la gestione dei flussi migratori. Ma il più importante progetto in materia, ideato dal Ministero dello Sviluppo Economico in collaborazione con il Ministero degli Affari Esteri, si chiama «Piano Africa» ed ha l'obiettivo di spingere le imprese italiane a darsi una mossa e individuare le opportunità offerte dai Paesi africani che non si affacciano sul Mediterraneo ed al contempo puntare allo sviluppo economico di quei territori riducendo in questo modo il flusso di persone in partenza verso il nostro paese.

La strada della collaborazione con i paesi di origine degli immigrati, anche in tema di attività legate alla formazione del lavoro (previsti dall'art. 23 del Testo Unico sull'Immigrazione), rientra nelle linee guida comunitarie in materia dettate negli ultimi anni a partire dal Consiglio Europeo del 15 e 16 dicembre 2005 dove si sottolineava la necessità di un approccio equilibrato, globale e coerente, che comprenda le politiche di lotta all'immigrazione clandestina, e, in cooperazione con i paesi terzi, sfrutti i vantaggi della migrazione regolare.

Ma se il nostro governo si è impegnato attivamente ed è passato dalle parole ai fatti, come dimostrano gli accordi sottoscritti ed i progetti in corso, lo stesso non si può dire delle istituzioni comunitarie, così prodighe di buone parole quanto latitanti nelle azioni. L'Europa non ha dato risposte concrete alle richieste di quei paesi come l'Italia che si sentono soli non solo nel contrasto alle direttrici dell'immigrazione clandestina e nella gestione dei soccorsi in mare, ma anche in quella dei richiedenti asilo, che non si capisce bene secondo quale principio dovrebbero essere accolti tutti da noi e non equamente distribuiti in maniera solidale anche negli altri paesi comunitari. Ed è singolare notare che appena si pone questo problema concreto subito si alzano voci sulla poca solidarietà del nostro paese nei confronti di questa povera gente. E' il contrario. Il nostro paese fa bene a sollevare il problema, ed interessare le istituzioni comunitarie, perché fino ad ora l'unica solidarietà concreta è stata la nostra, e lo dimostrano gli innumerevoli soccorsi in mare effettuati dalle nostre encomiabili forze di polizia ed il decoroso ristoro dato a terra a queste persone dai tanti volontari che lavorano nell'ombra con sudore, poca gloria ma con una immensa carica di umanità. Una cosa è la solidarietà, che è bene ricordare che per non essere solo di facciata deve comunque coniugarsi con la sostenibilità, ed altra è l'accoglienza irresponsabile ed indiscriminata che non solo non aiuta a migliorare la vita di queste povere persone, ma genera anche tensioni sociali nel paese che poi diventano difficili da controllare.

sabato 8 agosto 2009

I giovani neodiplomati degli istituti professionali trovano facilmente lavoro


di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

giovedì 06 agosto 2009

Nel 2007 l'Istat ha realizzato la quarta Indagine sui percorsi di studio e di lavoro dei diplomati, intervistando i ragazzi che hanno conseguito il titolo nel 2004, ed il 5 agosto scorso ha presentato i risultati di questa ricerca. Secondo l'indagine il diploma che paga di più in termini occupazionali è quello conseguito attraverso percorsi professionalizzanti. Il 75,5% di chi ha studiato in un istituto professionale e il 62,7% di chi proviene da un istituto tecnico è, infatti, occupato: in particolare, l'occupazione è ancor più elevata per quanti hanno intrapreso un indirizzo industriale (81,2% tra gli istituti professionali e 65,1% tra i tecnici). Tra i liceali, al contrario, solo il 26,8% dei diplomati è impegnato in un'attività lavorativa retribuita, con valori ancora più bassi per chi ha fatto il liceo classico (23,1%).

A tre anni dal conseguimento del titolo, il 29,9% dei 415.247 diplomati del 2004 è impegnato esclusivamente negli studi universitari, mentre il 67,4% è attivo nel mercato del lavoro: oltre la metà dei diplomati si è dichiarata occupata (52,6%) e il 14,8% in cerca di un'occupazione.

Le scelte dei giovani diplomati si differenziano in base all'area geografica di provenienza. La percentuale passa dal 62,6% di occupati nell'Italia Nord-occidentale a solo il 45% del Sud e al 44,6% delle isole. E' una questione molto semplice: al Nord la relativa facilità nel trovare un posto di lavoro permette ai neodiplomati di lanciarsi da subito nel mondo del lavoro. Al Sud, invece, le difficoltà di inserimento lavorativo determinano un allungamento «forzato» fino all'università che, quindi, diventa in molti casi più un «parcheggio» che una scelta di vita per migliorare le proprie conoscenze e per poter aspirare a svolgere una attività professionale altamente qualificata.

Nel 2007 il 19,7% dei diplomati del 2004 che hanno iniziato l'attività dopo il conseguimento del titolo svolge un lavoro occasionale o stagionale, mentre poco più dell'80% ha un'occupazione continuativa. Tra i 154.702 occupati con un'attività continuativa intrapresa dopo il diploma, il 79,1% lavora alle dipendenze, il 10,4% ha un lavoro autonomo, mentre il 10,4% è un lavoratore a progetto.

Molto interessante è il dato secondo cui tra tutti i diplomati occupati in modo continuativo come dipendente o parasubordinato, quelli che lavorano con un contratto a tempo indeterminato sono la maggioranza (il 55,9%). L'incidenza di questo tipo di contratto è più elevata tra chi ha seguito studi professionalizzanti (il 59% dei diplomati degli istituti tecnici o professionali), mentre è meno rilevante tra quanti hanno ottenuto la maturità liceale (40,3%). I diplomati del 2004 che nel 2007 svolgono un lavoro continuativo a tempo pieno, iniziato dopo il diploma, guadagnano in media 1.045 euro al mese. I diplomati con i guadagni più alti sono quelli che svolgono un lavoro autonomo, con 1.346 euro mensili, mentre i dipendenti ricevono una retribuzione media di 1.012 euro, ed i lavoratori a progetto 960 euro. Gli istituti tecnici offrono un buon inserimento sia in termini di occupazione che di retribuzione. I diplomati provenienti da queste scuole, infatti, guadagnano 1.084 euro: 170 e 111 euro in più rispetto a quanti hanno conseguito, rispettivamente, un titolo d'istruzione magistrale o artistica.

Insomma, fermo restando la nota dolente del guadagno basso, si tratta di dati abbastanza confortanti che dimostrano come il mercato del lavoro italiano sembra premiare i giovani neodiplomati degli istituti tecnici con una relativa facilità nella ricerca della prima occupazione e con la stabilità contrattuale; segno che le scuole professionali nostrane andrebbero rivalutate dagli studenti e dalle loro famiglie, spesso troppo appiattiti sui licei, nelle scelte di iscrizione alla fine della scuola media.

L'università, infatti, non può essere più considerata come un parcheggio e le famiglie dovrebbe entrare nell'ottica che è meglio avere un figlio «operaio specializzato» o «libero professionista» che studente fuori corso a carico. E questo anche alla lue del fatto che, secondo l'indagine dell'Istat, i diplomati occupati esprimono giudizi sostanzialmente positivi del proprio lavoro. In particolare il grado di autonomia si rivela l'aspetto più appagante, per il quale si dichiara molto o abbastanza soddisfatto circa il 90% dei ragazzi.

L'indagine dell'Istat sembra dare ragione alle scelte del governo in tema di scuola visto che le norme introdotte con i nuovi regolamenti riorganizzano e potenziano gli istituti tecnici a partire dall'anno scolastico 2010-2011 come scuole dell'innovazione. Attualmente in Italia gli istituti tecnici sono 1.800, suddivisi in 10 settori e 39 indirizzi. Con il nuovo regolamento, invece, i nuovi istituti tecnici si divideranno in 2 settori: economico e tecnologico ed avranno un orario settimanale corrispondente a 32 ore di lezione; saranno ore effettive contro le attuali 36 virtuali (della durata media di 50 minuti). Per quanto riguarda, invece, il riordino degli istituti professionali, ci saranno solo 2 macrosettori: istituti professionali per il settore dei servizi e istituti professionali per il settore industria e artigianato. Ai 2 settori corrispondono 6 indirizzi, mentre oggi ci sono 5 settori con 27 indirizzi.

Si va, quindi, verso una maggiore semplificazione e miglioramento dell'offerta formativa degli istituti tecnici e professionali in modo da rafforzare il rapporto con il mondo del lavoro e permettere di migliorare i dati dell'Istat per quanto riguarda l'occupazione dei neodiplomati.
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