martedì 28 febbraio 2012

Produrre di più per guadagnare meglio

di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
lunedì 27 febbraio 2012

In Italia gli stipendi sono molto bassi. Secondo il ministro del lavoro, Elsa Fornero, «l'Italia ha il paradosso di stipendi bassi e costo del lavoro alto, per due ragioni. Una è la pressione fiscale, quindi la differenza tra salario netto e lordo che è maggiore rispetto ad altri Paesi. Un'altra è la produttività, che incide sul costo del lavoro per unità di prodotto. Certo, se l'impresa lesina gli investimenti, la produttività perde terreno rispetto ad altri Paesi». L’analisi è giusta.

Il costo del lavoro in Italia è molto alto. Partiamo dal presupposto che la busta paga esprime in termini monetari l'insieme dei rapporti del lavoratore con il datore di lavoro (la paga), con lo Stato (le imposte) e con gli enti previdenziali (i contributi). Il salario lordo è oneroso per le imprese perché le aliquote contributive sono elevate, mentre quello netto non soddisfa le esigenze dei lavoratori perché, nel passaggio dal lordo al netto, la concomitante presenza di alte imposte sul reddito e scarse detrazioni e prestazioni familiari alleggerisce notevolmente il peso della busta paga.

Il costo della protezione sociale è alto, grava molto sia sulle imprese sia sui lavoratori, e i benefici sono troppo sbilanciati sul lato previdenziale (pensioni) e meno su quello assistenziale. Questa situazione non favorisce un’evoluzione virtuosa del mercato perché penalizza tutti coloro che vi operano, in particolare i giovani e le donne che sono storicamente i soggetti più deboli del mercato del lavoro.

L’unico che ci guadagna è lo Stato, anche se si tratta più di una sensazione che di una realtà. L’alta pressione fiscale sul lavoro dipendente, infatti, serve a sopperire in parte ai mancati introiti derivanti dall’elusione e dall’evasione fiscale di una parte degli autonomi che spesso affermano di aggirare la questione tasse proprio perché sono alte. Siamo dinanzi al classico circuito in cui il cane si morde la coda. Le tasse sono alte e penalizzano tutti. Tuttavia non si tratta solo di una questione legata al fisco ma anche alla struttura del nostro sistema di protezione sociale. La nostra Costituzione, all’articolo 38, dispone che «I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria».

Secondo la nostra Carta Costituzionale, quindi, una piena applicazione del sistema di protezione sociale passa non solo dal lato della previdenza ma anche da quello dell’assistenza. Sarebbe necessario, quindi, far rientrare nell’ambito della discussione sull’aumento dei salari, inteso come abbassamento del cosiddetto lordo e innalzamento del netto, elementi fondamentali come la riduzione delle tasse, la lotta all’evasione e alla elusione fiscale, un aumento delle tutele a favore delle famiglie, dei giovani e delle donne. Il tema è molto complesso e una riforma organica del sistema, attraverso un riequilibrio della bilancia dei costi e dei benefici, non potrà che creare un circuito virtuoso determinando effetti positivi anche per l’occupazione giovanile e femminile.

martedì 21 febbraio 2012

Quanto è difficile riformare il mercato del lavoro

di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
martedì 21 febbraio 2012

Il tema del lavoro è «molto importante» e anche per questo «il governo molto impegnato». Lo ha detto il ministro Corrado Passera in un videomessaggio inviato al convegno di Federmeccanica in corso a Firenze, dove ha spiegato che l'esecutivo «conta di far fare una serie di passi molto importanti al Paese».
Nei giorni scorsi il premier Mario Monti aveva affermato, inoltre, che entro la fine di marzo il Governo presenterà in Parlamento un provvedimento con o senza l'accordo delle parti sociali. E’ certo che riformare il mercato del lavoro e il sistema degli ammortizzatori in Italia è un’impresa ciclopica per qualsiasi governo. I motivi sono tanti: una parte del mondo sindacale e politico si trova su posizioni retrograde e ci sono sacche di privilegio e chi trae profitto da questa situazione, oltre ad essere ben organizzato e rappresentato, non ne vuole sapere di mollare l’osso. E' facile scaricare i costi sociali sui giovani e le donne e le lobby piccole e grandi si oppongono a qualsiasi modifica strutturale che apra il mercato alla concorrenza e altro ancora.

Insomma mettere mano all’impianto delle norme in materia non è certamente un esercizio da poco anche perché le modifiche dovranno riguardare sia le politiche attive per il lavoro sia l’attuale assetto degli ammortizzatori sociali. E’ evidente che queste due riforme dovranno per forza di cose andare di pari passo se vogliamo avere un sistema moderno in grado di offrire più opportunità di lavoro a chi oggi ne ha poche, giovani e donne in primis, e al contempo garantire un efficiente sistema di protezione sociale capace di tutelare tutti senza spreco di denaro pubblico.

Partiamo dal presupposto che oggi praticamente tutti nel mondo delle istituzioni, del sindacato, delle imprese, delle professioni sono concordi a parole e pubblicamente nel voler raggiungere questi obiettivi: più opportunità di lavoro e più tutele. E’ un buon inizio. Il problema è declinare queste lodevoli intenzioni in proposte articolate e, in seguito, in norme.

Guardiamo al dibattito sul mercato del lavoro.
Tanto per essere chiari: l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, così come è, è un ostacolo al raggiungimento di questo obiettivo? Secondo molti si perché la cosiddetta tutela reale, che tra l’altro si applica solo ad una cerchia di lavoratori, è anti-economica perché in questa fattispecie non si ha un'interruzione né del rapporto di lavoro né di quello assicurativo e previdenziale, così che al lavoratore spettano i contributi anche per il periodo tra il licenziamento e la reintegrazione e il datore di lavoro non ha alcuna facoltà di scelta (con la riassunzione prevista dalla tutela obbligatoria, invece, al lavoratore non spetta alcun emolumento per il periodo intercorso tra il licenziamento e il rientro in azienda e si instaura un nuovo rapporto di lavoro). Per non parlare del sistema di incontro tra domanda e offerta di lavoro, dove oggi il mezzo migliore resta il passaparola, e i fenomeni di precariato.
Ben venga la valorizzazione dell’apprendistato, che con la riforma voluta dall’ex ministro Sacconi è diventato un contratto a tempo indeterminato (dopo la scadenza del termine previsto dalla legge, infatti, il rapporto continua se le parti non decidono espressamente in modo diverso), i controlli sulle partite iva con monocommitente e la volontà di rendere più onerose alcune tipologie contrattuali a termine.

Altra questione delicata sono gli ammortizzatori sociali. Sappiamo tutti che oggi ci sono iper-tutelati e persone che, invece, di tutele ne hanno poche o nulla. Sappiamo anche che certe volte alcuni strumenti di protezione sociale, come la cassa integrazione, sono usati in modo improprio per scaricare sulla collettività i costi sociali delle delocalizzazioni o delle cessioni dei rami d’azienda. Si tratta, infatti, di un vero e proprio spreco di denaro pubblico al pari dei sussidi elargiti anche in mancanza di un serio processo di formazione e riqualificazione e alla ricerca attiva di un posto di lavoro.
In questi giorni si parla dell'ipotesi di revisione dell'attuale sistema della cassa integrazione straordinaria e il superamento della cassa in deroga e l’introduzione di una indennità di disoccupazione involontaria, un sussidio unico che sostituirebbe la disoccupazione ordinaria, speciale, con requisiti ridotti ed anche la mobilità. Il punto è che qualsiasi riforma dovrà mettere al centro del sistema la persona e non il posto di lavoro che occupava. Bisogna aiutare chi perde il lavoro a ricollocarsi nel mercato senza lasciare nessuno in mezzo ad una strada e farlo cercando di non sprecare i soldi per la collettività perseguendo duramente gli abusi.

martedì 14 febbraio 2012

Tutelare il made in Italy nel settore agroalimentare

di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
martedì 14 febbraio 2012

L'agroalimentare italiano è sempre più apprezzato nel mondo. L’Italia è il primo Paese per numero di prodotti riconosciuti Dop e Igp a livello europeo (23,3 % del totale), seguito dalla Francia, dalla Spagna e dal Portogallo (rispettivamente con il 19 %, il 14,7 % ed il 12,5 %).

Il presidente della Cia-Confederazione italiana agricoltori, Giuseppe Politi, ha affermato che i nostri prodotti tipici e di qualità (240 Dop. Igp e Stg) conquistano ogni anno importanti fette di mercato all'estero, riuscendo a contrastare una concorrenza molto agguerrita. Un esempio su tutti: l'export del vino ha toccato livelli altissimi, con oltre 4 miliardi di euro nel 2011 (l’Italia è il secondo produttore mondiale di vino dopo la Francia). E questo grazie soprattutto all'azione condotta dai nostri produttori che si trovano spesso a operare senza alcun sostegno da parte delle istituzioni preposte.
Politi ha rilevato, inoltre, che nel 2011 l'export agroalimentare è cresciuto soprattutto nei comparti ad alto valore aggiunto e si sono colte così le opportunità che si sono presentate nel complesso panorama del commercio internazionale. Ma non sono tutte rose e fiori.

Tra i problemi più grandi c’è sicuramente quello delle frodi in campo alimentare, una pratica vecchia come il mondo se è vero che già nell’antico Egitto si impiegavano speciali attrezzi per effettuare la bollatura delle carni macellate ed impedire che con esse venissero vendute parti di bestie morte per malattia e che Plinio il Vecchio nel I° secolo d.C. descriveva la falsificazione di prodotti di largo consumo.
Nell’intero comparto la contraffazione è un fenomeno fortemente diffuso che danneggia tutti, produttori e consumatori. Nella relazione sulla contraffazione nel settore agroalimentare (pag. 92-97), approvata il 6 dicembre dello scorso anno dalla commissione parlamentare di inchiesta sui fenomeni della contraffazione e della pirateria in campo commerciale, sono state elencate le numerose operazioni effettuate dalle nostre forze dell’ordine per contrastare questo fenomeno. E’ ovvio che non siamo certamente all’anno zero nella lotta alle frodi nell’agroalimentare ma si può e si deve fare di più.

In un settore che produce circa 150 miliardi di euro come valore assoluto non potevano di certo mancare i tentacoli della piova criminale. Il Rapporto Eurispes-Coldiretti sui crimini agroalimentari in Italia stima che il volume d’affari complessivo dell’agromafia sia quantificabile in 12,5 miliardi di euro (5,6% del totale): 3,7 miliardi di euro da reinvestimenti in attività lecite (30% del totale) e 8,8 miliardi di euro da attività illecite (70% del totale).
E questo, purtroppo, non è il solo problema.

Sempre più spesso, inoltre, la pirateria agroalimentare internazionale utilizza denominazioni geografiche, marchi, parole, immagini, slogan e ricette che richiamano all’Italia per pubblicizzare e commercializzare prodotti che nulla hanno a che fare con il nostro Paese. Il cosiddetto Italian sounding rappresenta la forma più diffusa e nota di contraffazione e falso Made in Italy nel settore agroalimentare. Secondo alcune stime il giro d’affari dell’Italian sounding nel mondo supera i 60 miliardi di euro l’anno (164 milioni di euro al giorno), cifra 2,6 volte superiore rispetto all’attuale valore delle esportazioni italiane di prodotti agroalimentari (23,3 miliardi di euro nell’anno 2009).
Gli effetti economici diretti dell’Italian sounding sulle esportazioni di prodotti agroalimentari realmente Made in Italy si riversano indirettamente sulla bilancia commerciale, in costante deficit nell’ultimo decennio (3,9 miliardi di euro nel 2009). Sempre secondo il Rapporto Eurispes-Coldiretti, per giungere a un pareggio della bilancia commerciale del settore agroalimentare italiano, ad importazioni invariate, sarebbe sufficiente recuperare quote di mercato estero per un controvalore economico pari al 6,5% dell’attuale volume d’affari dell’Italian sounding.

Il recupero di quote di mercato per un controvalore economico superiore al 6,5%, avrebbe, viceversa, assicurato un surplus della bilancia commerciale, con effetti positivi sul Pil del comparto agroalimentare e dell’intero Sistema paese. Il governo in carica è recentemente intervenuto a sostegno del comparto con una serie di lodevoli interventi inseriti nel cosiddetto decreto liberalizzazioni. Va bene ma non basta. La tutela del nostro settore agroalimentare dai crimini e dall’italian sounding, unità al rafforzamento delle relazioni di filiera, a una maggiore professionalizzazione ed internazionalizzazione delle imprese operanti nel comparto, avrebbe effetti positivi sulla nostra bilancia commerciale e su tutto il nostro sistema Paese.

martedì 7 febbraio 2012

Il posto fisso è un’illusione come il mutuo senza il posto fisso

di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
martedì 07 febbraio 2012

Negli ultimi giorni si è infiammato il dibattito su alcune dichiarazione rilasciate da autorevoli esponenti del Governo in materia di lavoro giovanile, ma sarebbe opportuno parlare anche di disoccupazione giovanile, viste le non esaltanti statistiche a riguardo nel nostro paese. Ha iniziato il premier Mario Monti («che monotonia il posto fisso. I giovani si abituino a cambiare»), ha continuato il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, («Noi italiani siamo fermi al posto fisso nella stessa città di fianco a mamma e papà. Il mondo sta cambiando») e ha concluso, per ora, il ministro del lavoro, Elsa Fornero, («Non si può promettere un posto fisso, chi oggi lo promette promette facili illusioni»). Anni fa era stato lo scomparso ex ministro dell’economia del governo Prodi, Tommaso Padoa Schioppa, a dare uno scappellotto ai giovani italiani con la mitica frase sul «Mandiamo i bamboccioni fuori di casa».

Facciamo il punto della situazione. I giovani italiani, a detta di chi li governa o li ha governati in passato, sono dei bamboccioni da mandare fuori di casa che vogliono il posto fisso vicino ai genitori e che per maturare dovrebbero mettersi in testa, finalmente, che il posto fisso non c’è più e che se c’è è monotono. Guardiamo i freddi numeri. Il numero dei «senza posto fisso» in Italia supera i 2,7 milioni di persone (somma tra i 2,364 milioni di dipendenti a tempo determinato e le 385 mila persone con contratto di collaborazione). Il 46,7% dei dipendenti sotto i 25 anni è a termine. Nella fascia di età tra i 25 e i 34 anni questo dato si abbassa al 18%, fino ad arrivare all’8% per chi supera i 35 anni (nello specifico 8,3% tra i 35-54 anni e 6,3% tra gli over 55). Tutto questo al netto di situazioni particolari come ad esempio le discusse partite iva con mono-committente, dove di solito si cela un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato.

Questi numeri ci dicono due cose: una negativa e cioè che la flessibilità si scarica solo sui giovani, e una positiva, ossia che, con il passare degli anni lavorativi in genere, ma sempre meno spesso, la situazione migliora. E questi sono i dati di chi lavora. L’altro aspetto storicamente negativo del nostro mercato del lavoro è l’alto tasso di disoccupazione degli under 25 (oggi quasi un giovane su tre è senza lavoro). La realtà fotografata dai dati scientifici porta il tema del dibattito, quindi, su tutto un altro piano. I problemi da risolvere non sono certo, o comunque non solo, di carattere culturale, ma sono molto più pratici. Chi, tra i ragazzi e le ragazze di questo paese, pensa ancora di avere la cosiddetta «pappa pronta», o vive una realtà familiare in grado di dargliela o deve ancora fare i conti con la dura realtà. Al di fuori di queste due situazioni, oggi le richieste che arrivano dalla stragrande maggioranza dei giovani italiani sono altre e tra queste non c’è certamente l’avere il cosiddetto «posto fisso» come quello dei loro genitori.

Le rivendicazioni riguardano l’allargamento dei canali di ingresso nel mercato del lavoro, la continuità nello svolgere una attività lavorativa, una certa stabilità e la possibilità di accesso al credito. Chiedere continuità e stabilità non vuol dire sognare il vecchio «posto fisso», ma pretendere un sistema più equo in materia di tutele, riformando l’attuale sistema duale in vigore nel nostro ordinamento e abbattendo il muro di iniquità che separa oggi i giovani, che di tutele ne hanno poche o nulle, e tutti gli altri che, invece, sono super-garantiti. Premessa la difficoltà di trovare un lavoro, tanto per intenderci, è equo un sistema che prevede all’interno dello stesso mercato due tipi di tutele (reale e obbligataria), meccanismi di prestazioni a sostegno del reddito e calcolo della pensione che penalizzano i giovani e l’impossibilità di accedere al credito (mutui o prestiti) per chi non ha il vecchio posto fisso? Per essere concreti: che cosa si vuole fare con l’inutile monolite dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che, a detta di numerosi esperti, bloccherebbe molte assunzioni nelle piccole imprese? Lasciarlo così com’è, abolirlo, alzare la soglia, aggirarlo con l’arbitrato? E con le prestazioni a sostegno del reddito che penalizzano i giovani? E come coniugare la continuità nel versamento dei contributi pensionistici previso da un sistema come quello attuale, dove quanto versi tanto avrai, con la mancanza di stabilità? E, ancora, quale soluzione si offre a tutti i giovani che non possono chiedere mutui e prestiti perché non hanno un contratto a tempo indeterminato?

giovedì 2 febbraio 2012

Controversie sul lavoro: urge un decreto sul tema

di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
giovedì 02 febbraio 2012

In questi giorni è in corso a Palazzo Chigi il negoziato tra governo e parti sociali sulla riforma del mercato del lavoro che il premier Mario Monti vorrebbe concludere entro febbraio. Sono quattro i punti proposti dall'esecutivo su cui incentrare il confronto: forme contrattuali, flessibilità in entrata e in uscita dal mercato del lavoro, ammortizzatori sociali e salari.

Il ministro del lavoro e delle politiche sociali, Elsa Fornero, ha aggiunto anche la conciliazione nelle cause di lavoro tra i temi in discussione. Proprio su quest'ultimi punto, il ministro potrà avvalersi di un ottimo provvedimento approvato dal precedente governo Berlusconi. Si tratta della Legge n. 183 del 2010 (il cosiddetto collegato lavoro). La norma, tra le altre cose, conferisce alle parti sociali la facoltà di realizzare procedure di conciliazione e di arbitrato irrituale, a cui i lavoratori si obbligano a ricorrere tramite la sottoscrizione, libera e volontaria, di una clausola compromissoria, in modo che le controversie di lavoro (con l'esclusione esplicita di quelle attinenti la risoluzione del rapporto di lavoro) possano avere sollecita composizione stragiudiziale. Trascorso un anno senza che siano intervenute intese negoziali, il ministro del Lavoro e delle Politiche sociali è tenuto ad esercitare nei sei mesi successivi un'azione di mediazione, a conclusione della quale, perdurando la mancata iniziativa delle parti, spetta al ministro stesso definire, in via sperimentale, una soluzione con proprio decreto.

Elsa Fornero, nel corso del question time svoltosi mercoledì scorso alla Camera, interrogata proprio su questo punto, giacché, nell'inerzia delle parti sociali, il termine di un anno è scaduto, ha affermato di essere consapevole del problema e pronta ad agire, e che si impegna ad effettuare una ricognizione su quanti contratti collettivi abbiano effettivamente attivato la clausola di arbitrato e a porre la questione alle parti sociali. La questione non è assolutamente di poco conto anche perché, oltre al fatto che si tratta di un tema sempre delicato da affrontare, il I presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario, ha sottolineato il forte incremento delle controversie di lavoro (anno giudiziario 2010-2011): + 34,9% per le cause di pubblico impiego; + 15,7% per le cause di lavoro privato, per un aumento complessivo del 51,6%. Se consideriamo, inoltre, che ci vogliono in media quasi tre anni, 1.039 giorni per l'esattezza, per arrivare ad una sentenza in una causa di lavoro privato, allora non possiamo davvero più permetterci di perdere altro tempo per adottare il decreto previsto dal c.d. collegato lavoro.
Google