lunedì 10 dicembre 2012

Un anno di Governo Monti

di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

lunedì 10 dicembre 2012


Molti commentatori italiani e stranieri si sono meravigliati dell’evoluzione repentina del quadro politico nazionale e hanno spesso parlato di strategie irresponsabili e di paura dei mercati dinanzi alla scelta operata dai gruppi parlamentari di Camera e Senato del PdL la scorsa settimana. Cerchiamo di capire perché non c’è niente d’irresponsabile e che c’è stato un legittimo atto politico dettato sia da un quadro economico con un trend da tempo marcatamente negativo e sia da una serie di scelte politiche del governo operate in funzione della golden share esercitata dal Partito democratico.

Mario Monti è stato fino ad ora un grande servitore dello Stato ma è fin troppo evidente che il governo in carica non ha lanciato alcuna strategia di sviluppo e di crescita. Se confrontiamo, infatti, gli ultimi dati economici dell’Istat lasciati in eredità dal governo Berlusconi con gli ultimi disponibili, dopo poco più di un anno di governo Monti, dobbiamo registrare una riduzione del Pil (-2,4%), un aumento sia del tasso di disoccupazione generale (+2,3%) che del tasso di disoccupazione giovanile (+5,8%), una contrazione della produzione industriale (-4,8%) e dei consumi (-3,2%), una situazione economica delle famiglie italiane peggiore rispetto a prima (- 0,5% propensione al risparmio; - 1,5% reddito disponibile; - 4,1% potere di acquisto) e un crollo della fiducia di consumatori (-10% circa) e imprese (-10% circa) nel quadro evolutivo congiunturale.

A tutto questi numeri negativi bisogna aggiungere, tra le altre cose, il pasticcio della riforma Fornero, che ha creato il problema degli esodati, il caos concernente il tentativo maldestro e malriuscito di accorpamento delle province (quasi un vorrei ma non posso) e la voglia di svuotare ulteriormente le tasche degli italiani con la reintroduzione di una tassa sulla casa.E poi è stato fin troppo evidente che certi provvedimenti governativi di politica estera (la posizione sul voto all’Onu sulla Palestina presa in controtendenza rispetto alla tradizionale linea italiana e senza neanche passare per una discussione in Parlamento) e di politica interna (la riforma Fornero modificata sotto il ricatto del Pd e della Cgil e l’introduzione dell’Imu in palese anti-tesi con l’idea che fu alla base della eliminazione della tassa sulla casa durante il governo Berlusconi) sono stati la conseguenza della pressione esercitata dal Partito Democratico e della volontà di questa forza politica di mettere nell’angolo il PdL che ha sempre votato con grande senso di responsabilità e sacrificio istituzionale tutti i provvedimenti presi dal governo nell’ultimo anno anche in pieno contrasto con gli umori della propria base. Una forza politica come il Pdl che ha gruppi parlamentari che sono l’espressione del voto dato dai cittadini alle elezioni politiche, che piaccia o meno, non può farsi schiacciare e subire passivamente le prove muscolari di una forza avversa senza reagire. E sempre a chi parla di scelte irresponsabili, andrebbe chiesto cosa cambierebbe nell’andare al voto con solo due settimane di anticipo giacché la data su cui sembrava esserci un accordo in precedenza era il 10 marzo mentre quella più probabile al momento, con quest’ultima evoluzione del quadro politico, sembrerebbe essere il 24 febbraio.

A chi invece parla a sproposito di abbassamento dello spread come opera del governo in carica andrebbe anche fatto rilevare che questo dato è stato strettamente legato all’operazione anti-speculativa portata avanti dalla Bce di Mario Draghi e al massiccio acquisto di titoli pubblici italiani da parte di molte nostre banche. E poi diciamolo chiaramente: non si può in alcun modo accettare la dittatura dello spread e i ricatti possiamo chiamarli in tanti modi ma sempre ricatti sono; chi ne va di mezzo sono solo i cittadini, che in questo quadro non sarebbero più liberi di scegliere con il proprio voto il futuro di questo paese. Se, infatti, è Mr. Spread a decidere chi deve governare e chi no a cosa servono le elezioni?

venerdì 9 novembre 2012

Ancora nubi sul mercato del lavoro italiano

di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
venerdì 09 novembre 2012

l 7 novembre la Commissione europea ha pubblicato le sue previsioni economiche d'autunno per l'area dell'euro e per l'insieme dell'Unione europea. Le proiezioni, che coprono il periodo 2012-14, riguardano indicatori come il prodotto interno lordo (PIL), l'inflazione, l'occupazione e le finanze pubbliche.
Per quanto riguarda il mercato del lavoro, a causa della più debole attività economica, nel 2012 la disoccupazione toccherà il 10,5% nell'UE e l'11,3 nell'area dell'euro, per poi raggiungere nel 2013 un picco del 10,9% nell'UE e dell'11,8% nell'area dell'euro, prima di ridiscendere leggermente nel 2014. Il nostro Paese è «in profonda recessione» secondo la Commissione europea e ci sarà una «tiepida»
ripresa solo nel 2013. La disoccupazione invece continuerà a salire fino al 2014. L’Italia dovrebbe registrare, secondo queste previsioni, un tasso di disoccupazione dell’11,5% nel 2013 (10,6% nel 2012).

Insomma fino a qualche mese fa, seppur con un dato in crescita a causa anche della crisi economica, qualche analista nostrano poteva vedere il bicchiere mezzo pieno perché l’Italia registrava un tasso di disoccupazione inferiore alla media europea. Ora neanche quello perché i numeri italiani sono leggermente superiori a quelli dell’area UE e solo di poco inferiori rispetto a quelli dell’area euro.

Secondo un rapporto pubblicato il 5 novembre dall’Istat, la maggiore partecipazione al mercato del lavoro osservata a partire dalla fine del 2011 è alla base del rilevante incremento del tasso di disoccupazione previsto per quest'anno (10,6%).
Nel 2013 il tasso di disoccupazione continuerebbe a salire (11,4%) a causa del contrarsi dell'occupazione, fenomeno cui si dovrebbe accompagnare un aumento dell'incidenza della disoccupazione di lunga durata. Sempre secondo l’Istituto nazionale di statistica, un alto fattore di rischio che potrebbe incidere negativamente su questi dati è rappresentato dal rallentamento del commercio mondiale e il possibile riacutizzarsi delle tensioni sui mercati finanziari.
E’ evidente che tutti questi fattori abbiano inciso e continueranno a farlo (negativamente) sul tasso di disoccupazione in Italia (ancora di più nel caso in cui la tempesta sui mercati mondiali dovesse riacutizzarsi) ma è altrettanto vero che non tutti i mali siano esterni.

Se le cose vanno male è anche colpa di:

- un ordinamento interno che tende più a creare ostacoli che a favorire l’ingresso e la permanenza nel mercato del lavoro;

- un sistema giudiziario lento e farraginoso che scoraggia qualsiasi voglia di investire nel nostro Paese;

- banche più attente a fare operazioni finanziarie per salvaguardare la propria cassa che investire in operazioni volte a concedere credito alle piccole e medie imprese sane;

- ordini professionali che cercano di mettere quanti più filtri e aggravi possibili all’accesso e allo svolgimento della professione bloccando sul nascere qualsiasi forma di vera concorrenza;

- un sistema sia pubblico che privato che investe ancora troppo poco nella ricerca e nell’innovazione (secondo gli ultimi dati Istat, nel triennio 2008-2010, il 31,5% delle imprese italiane con almeno 10 addetti ha introdotto sul mercato o nel proprio processo produttivo almeno un'innovazione e, all’interno di questa fascia di imprese
innovatrici, solo il 29,8% ha dichiarato di aver ricevuto un sostegno pubblico per l'innovazione, proveniente principalmente da amministrazioni pubbliche locali o regionali). L'Italia su scala europea fa parte dei cosiddetti Moderate Innovators, insieme a Portogallo, Repubblica Ceca, Spagna, Ungheria, Grecia, Malta, Slovacchia e Polonia. Prima di noi ci sono i c.d. Innovation leaders: Svezia, Danimarca, Germania e Finlandia, ai primi posti nell’UE e nel mondo e i followers (Belgio, Regno Unito, Olanda, Austria, Lussemburgo, Irlanda, Francia, Slovenia, Cipro e Estonia). Peggio di
noi solo i c.d. Modest Innovators: con Romania, Lituania, Bulgaria e Lettonia.

E’ importante, quindi, prima di incolpare la crisi economica mondiale come la causa di tutti i mali italiani, rendersi conto che anche dopo la crisi queste problematiche resteranno se non riusciremo come sistema Paese a fare un salto di qualità, spazzando via questi parassitismi, queste burocrazie e queste speculazioni fatte tutte sulla pelle della collettività ed in particolare delle giovani generazioni.

martedì 23 ottobre 2012

I giovani italiani cercano qualsiasi lavoro

di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

martedì 23 ottobre 2012

In principio fu il defunto ex ministro Tommaso Padoa Schioppa che, nel corso di un’audizione davanti alle Commissioni Bilancio di Camera e Senato, esclamò: «Mandiamo i bamboccioni fuori di casa». Ora è il turno dell’attuale ministro del lavoro, Elsa Fornero, che intervenendo in un dibattito pubblico ha invitato i giovani a «non essere troppo choosey (schizzinosi, ndr)», salvo poi cercare di correggere il tiro aggiungendo che «I giovani italiani oggi sono disposti a prendere qualunque lavoro, tant’è che sono in condizioni di precarietà». «Nel passato - ha aggiunto - quando il mercato del lavoro consentiva cose diverse, qualche volta poteva capitare, ma oggi i giovani italiani non sono nelle condizioni di essere schizzinosi».

Secondo la ricerca sulle giovani generazioni, promossa dallo Ial Nazionale – Innovazione Apprendimento Lavoro, in sinergia con la Cisl, e realizzata dall'Istituto Demopolis, al primo posto, fra le cose importanti della vita, i giovani pongono oggi il lavoro che – per la prima volta – supera con il 91% il primato duraturo della variabile “famiglia” fra le priorità delle nuove generazioni: l’occupazione è ritenuta condizione ineludibile per la progettazione del futuro. Pesa, sempre di più, l’incertezza sull’avvenire: meno di un quarto dei giovani italiani si immagina tra 5 anni con un lavoro stabile e ben retribuito.
Il 78% dei giovani è convinto che nel nostro Paese per entrare nel mondo del lavoro, più che la preparazione, serva soprattutto la rete di relazioni, “conoscere persone che contano”. Non è un caso, quindi, che sempre secondo questa ricerca, quattro giovani su dieci hanno trovato lavoro tramite amici, parenti, conoscenti. Per circa un quinto l'occupazione è frutto di personale dinamismo: assunzione a seguito di autocandidatura. Sotto il 10% si assestano tutti gli strumenti ufficiali di job placement: da selezioni e concorsi, all'evoluzione di stage o tirocinio, alle attività di Agenzie di lavoro e Centri per l'impiego.

Questi dati devono far riflettere soprattutto chi ricopre incarichi di governo come il ministro Fornero. Chi è investito di un ruolo tale da essere in grado di fare qualcosa di concreto in termini di modifica della legislazione corrente, invece di discettare del sesso degli angeli e lasciarsi andare in analisi sociologiche o pronunciare frasi che possono essere facilmente fraintese, dovrebbe:

1- ideare proposte concrete per cambiare lo status quo;

2- aprire un dibattito;

3- prendere una decisione e trasformarla in atto.

In generale, un ministro che, rivolgendosi ai giovani, parla di bamboccioni o schizzinosi, non ha forse capito fino in fondo quale dovrebbe essere il proprio ruolo. Questi termini e questi concetti espressi nel corso di dibattiti pubblici sono più confacenti ai discorsi da bar tra amici che ad altro. In una situazione come quella attuale, dove la crisi ha fatto balzare il tasso di disoccupazione giovanile a cifre improponibili per un paese civile, soprattutto un ministro del lavoro dovrebbe rendersi conto che tra le proprie azioni prioritarie, da esercitare in funzione di personaggio pubblico con un importante incarico di governo sulle spalle, non dovrebbe esserci quello di salire in cattedra e giudicare i comportamenti delle masse.

Sarebbe molto più utile per il bene comune, invece, di fare in modo che, attraverso la propria azione di governo, diminuiscano i giovani italiani che si affidano ad amici e parenti per trovare un lavoro e aumenti il numero di chi passa, invece, attraverso i canali ufficiali. Detto questo, poi, è ovvio che il ministro Fornero non abbia la bacchetta magica e che la sola modifica della legislazione corrente, già di per sé non facile perché ostacolata da forze sociali regressive o interessi parassitari, non può da sola portare benefici in termini occupazionali. Fermo restando, quindi, la difficoltà di cambiare lo status quo in un paese ingessato come l’Italia, se il ministro del lavoro, tra i temi del dibattito pubblico, portasse atti concreti invece che una semplice analisi pseudo - sociologica e spiegasse cosa vuole fare, con relativi tempi e passaggi governativi e/o parlamentari, saremo tutti lieti di ascoltarla ed entrare nel merito della questione.

martedì 9 ottobre 2012

E' indispensabile aiutare la famiglie italiane

di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

martedì 09 ottobre 2012

Secondo gli ultimi dati dell’Istat, nel secondo trimestre del 2012 la propensione al risparmio delle famiglie consumatrici, misurata al netto della stagionalità, è stata pari all'8,1%, con una diminuzione dello 0,6% rispetto al trimestre precedente e dello 0,5% se confrontato con lo stesso periodo dello scorso anno. Sempre secondo l’Istituto nazionale di statistica, il reddito disponibile delle famiglie consumatrici in valori correnti è diminuito dell'1% rispetto al trimestre precedente, e dell'1,5% rispetto al corrispondente periodo del 2011.

Tenendo conto dell'inflazione, il potere di acquisto delle famiglie consumatrici nel secondo trimestre del 2012 si è ridotto dell'1,6% rispetto al trimestre precedente e del 4,1% rispetto al secondo trimestre del 2011. Nei primi sei mesi del 2012, nei confronti dello stesso periodo del 2011, il potere d'acquisto ha registrato una flessione del 3,5%. Le famiglie italiane se la passano male. Se ci serviva un riscontro numerico per dare un’aura di ufficialità a quello che già ognuno di noi è in grado di vedere nella vita di tutti i giorni, ora siamo stati accontentati.

L’Istat ci dice, numeri alla mano, che per le famiglie del Belpaese cala il potere di acquisto, si contrae il reddito disponibile, diminuisce la propensione al risparmio su base tendenziale e congiunturale. Insomma, se non si sta raschiando il fondo del barile per arrivare alla fine del mese, poco ci manca. A tutto questo va aggiunto che, sempre secondo l’Istat, l'indice nazionale dei prezzi al consumo per l'intera collettività (NIC) a settembre, comprensivo dei tabacchi, ha registrato una variazione congiunturale nulla e un aumento del 3,2% su base tendenziale (lo stesso valore registrato ad agosto).

Secondo l’ultimo rapporto della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane (pubblicato quest’anno e riferito al 2010), è emerso che nel 2010 il reddito familiare medio annuo, al netto delle imposte sul reddito e dei contributi sociali, era pari a 32.714 euro, 2.726 euro al mese. Il reddito da lavoro dipendente ricevuto in media da ciascun percettore era risultato pari a 16.559 euro. Sempre nel 2010, il 29,8% delle famiglie reputava le proprie entrate insufficienti a coprire le spese, il 10,5% le reputava più che sufficienti, mentre il restante 59,7% segnalava una situazione intermedia. La ricchezza familiare netta, data dalla somma delle attività reali (immobili, aziende e oggetti di valore) e delle attività finanziarie (depositi, titoli di Stato, azioni, ecc.) al netto delle passività finanziarie (mutui e altri debiti), presentava un valore medio di 163.875 euro. Il 10% delle famiglie più ricche possedeva il 45,9% della ricchezza netta familiare totale. La percentuale di famiglie indebitate era pari al 27,7% e l’incidenza mediana della rata annuale complessiva per il rimborso dei prestiti sul reddito familiare era del 12,4%.

Lo scorso 31 luglio, il governo in carica ha presentato un progetto a sostegno dei bilanci familiari chiamato ‘Percorso Famiglia’. Un’iniziativa che, seppur meritevole sul piano delle intenzioni, si limita a potenziare strumenti già introdotti dall’ultimo governo Berlusconi come il Fondo per la casa, il Fondo per i nuovi nati e la possibilità di sospendere i mutui per le famiglie che hanno difficoltà a pagarne le rate o ad intervenire su fondi già potenziati dal precedente esecutivo come ad esempio quello per lo studio (introdotto nel 2007 dal governo Prodi II). La morsa a tenaglia tra prezzi al consumo in aumento, stipendi erosi dalle tasse e rate di mutui e prestiti da onorare sta soffocando il nostro Paese. Ben venga, quindi, sempre che diventi una realtà, l’idea da parte dell’esecutivo di rivedere la famigerata Imu per le famiglie disagiate, inserendo nella delega fiscale forme di progressività a favore dei nuclei familiari o dei pensionati maggiormente in difficoltà. Sarebbe una boccata di ossigeno e non certo un intervento strutturale ma di questi tempi è già un qualcosa di utile.

L’introduzione dell’Imu da parte di questo governo fu una stangata per tante famiglie. Speriamo in qualche intervento volto ad alleggerire il peso di questa imposta, anche alla luce degli ultimi dati positivi che registrano nel periodo gennaio-agosto 2012 una crescita del 4,1% delle entrate tributarie erariali (+10.462 milioni di euro), rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente.

martedì 2 ottobre 2012

L'occupazione diminuisce non solo a causa della crisi

di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

martedì 02 ottobre 2012


Gli ultimi dati dell’Istat sul mercato del lavoro in Italia ci dicono che ad agosto 2012 gli occupati erano 22.934 mila, in calo dello 0,3% sia su base mensile rispetto a luglio 2012 che su base annua rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Il tasso di occupazione è pari al 56,9%, in diminuzione 0,2 punti percentuali sia nel confronto congiunturale sia in quello tendenziale. Il numero dei disoccupati, pari a 2.744 mila, diminuisce dello 0,3% rispetto a luglio (-9 mila unità). Su base annua si registra una crescita pari al 30,4% (640 mila unità). Il tasso di disoccupazione è pari al 10,7%, stabile rispetto a luglio e in aumento di 2,3 punti percentuali nei dodici mesi.
Il tasso di disoccupazione dei giovani nella fascia di età tra i 15 ei 24 anni, ovvero l'incidenza dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca, è pari al 34,5%, in calo di 0,5 punti percentuali rispetto a luglio. Gli inattivi tra i 15 e i 64 anni aumentano dello 0,6% (92 mila unità) rispetto al mese precedente. Il tasso di inattività si attesta al 36,3%, con un aumento di 0,2 punti percentuali in termini congiunturali e una diminuzione di 1,3 punti percentuali su base annua.
Secondo gli ultimi dati dell’Eurostat, la disoccupazione nell'eurozona ha raggiunto ad agosto il nuovo record dell'11,4%, il più alto dalla creazione della moneta unica. Ai massimi livelli anche il tasso nell'Ue a 27 Paesi, al 10,5%​. I numeri ci dicono, quindi, che in Italia e in Europa il tasso di disoccupazione è in continuo aumento e che le fasce più colpite, come al solito, sono i giovani e le donne.

E’ tutta colpa della crisi economica? Partiamo dal presupposto che la crisi economica ha certamente riversato i suoi effetti negativi sul mercato del lavoro. Ma se ci limitiamo a dare tutta la colpa a questo, forse perderemmo di vista altri fattori molto importanti legati al sistema italiano e alla governance europea. Tra gli elementi negativi del sistema italiano che certamente non favoriscono la crescita dell’occupazione e la diminuzione della disoccupazione ci sono: il carico fiscale sempre più elevato, contratti d'ingresso rigidi per i giovani, mancata tutela della donna nel mercato del lavoro, una burocrazia invasiva che danneggia il sistema delle imprese. Sono tutte cose che sappiamo benissimo ma che per vari motivi non riusciamo come sistema paese ad affrontare in modo deciso. Non c’è solo una questione di decisioni politiche mancate o sbagliate ma anche di mentalità corporativa che attanaglia e imbriglia il nostro Paese e che ha prodotto danni di egual misura e per certi versi anche superiori a quelli della politica.
Il nostro sistema è prigioniero dei sistemi corporativi che trovano la loro espressione nei vetusti ordini professionali, nel sistema farraginoso del rilascio di alcune licenze, nel sistema bancario che chiude i rubinetti dei mutui e dei prestiti per dedicarsi ad altro, nel capitalismo italico in genere di stampo prettamente familiare, famelico di soldi pubblici e poco propenso al rischio. Ogni giorno questo sistema, parallelo alla politica, si inventa nuovi balzelli per ostacolare l’ingresso di giovani e meno giovani nel mondo del lavoro, per non concedere prestiti e ammazzare anche le aziende tendenzialmente sane, e prendere soldi a scrocco dallo Stato sotto varie forme che, invece, potrebbero servire per fare tante altre cose meritevoli.
Se vogliamo davvero aiutare le nuove generazioni a trovare lavoro allora dobbiamo allargare le porte d’ingresso nel mercato, eliminare le rendite di posizione agevolando la concorrenza, facilitare l’accesso al credito. Senza questi provvedimenti non andremo da nessuna parte se non dritti nel baratro.

Per quanto riguarda i problemi europei, invece, è innegabile che la recessione in cui ci siamo impantanati è anche colpa degli orientamenti e delle priorità politiche generali dell'UE dettate dalla Banca centrale europea nelle gestioni precedenti all’era Draghi, nella totale assenza di un vero organismo politico comunitario in grado di assumere le decisioni fondamentali. Sulla carta questo ruolo spetterebbe al Consiglio Europeo, composto dai capi di Stato o di governo dei paesi membri, dal presidente della Commissione e dal Presidente del Consiglio europeo stesso, ma il fatto stesso che le iniziative più delicate siano prese nel corso di vertici bilaterali a geometria variabile tra i capi di governo di Germania, Francia e Italia la dice lunga sul ruolo effettivo svolto da quest’organismo. Non è ovviamente solo una questione di forma ma anche e soprattutto di contenuto perché tutte le decisioni politiche all’insegna di una miope austerità imposte dalla Germania non hanno fatto altro che aggravare la crisi e, di conseguenza, peggiorare la situazione nel mercato del lavoro.
L’attuale governatore della Bce, Mario Draghi, ha avuto il merito di avere calmierato in parte il mercato delle vacche dello spread con gli strumenti a disposizione e le sue scelte lungimiranti e non certo facili. Questo significa che la Bce non è certo il male assoluto ma un organismo che può lavorare bene o male. Resta di tutta evidenza, tuttavia, che non può essere certo la Bce o la sola Germania a dare la linea a tutti gli altri sia perché meccanismi decisionali di questo tipo mal si conciliano con l’idea stessa di democrazia sia perché le politiche di austerità non sono in grado di creare posti di lavoro e che ogni momento è buono per iniziare a creare le condizioni per una ripresa economica e intervenire per diminuire il tasso di disoccupazione.

giovedì 19 aprile 2012

RIFORMA GOVERNO MONTI SU ART. 18 DELLO STATUTO DEI LAVORATORI IN MATERIA DI LICENZIAMENTI INDIVIDUALI

1. PREMESSA
I licenziamenti individuali possono avvenire per:

a) giusta causa quando avviene un inadempimento del lavoratore talmente grave da non consentire la prosecuzione, anche solo provvisoria, di quel vincolo fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore che costituisce il presupposto fondamentale per la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato. Il licenziamento per giusta causa costituisce l'ipotesi estrema di licenziamento alla quale è legittimo fare ricorso solo come "extrema ratio": quando, cioè, nessun altro rimedio tutelerebbe adeguatamente gli interessi del datore. Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell'imprenditore (art. 2221 c.c.) o la liquidazione coatta amministrativa dell'azienda (art. 2111 c.c.);

b) giustificato motivo:
- licenziamento c.d. economico per ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa (c.d. giustificato motivo oggettivo);
- licenziamento c.d. disciplinare nel caso in cui ci sia un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del prestatore di lavoro (c.d. giustificato motivo soggettivo).


2. OGGETTO DELLA RIFORMA
I punti salienti della bozza di riforma del governo Monti riguardano soprattutto i licenziamenti per giustificato motivo e l’area di applicazione dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori, che interviene nel momento in cui non ci sono i presupposti previsti dalla legge per qualificare un licenziamento individuale come ‘giustificato’ e dispone il reintegro del lavoratore attraverso l’intervento del giudice.
Ecco come cambierebbe la normativa con la riforma:

a) Nel caso di licenziamento discriminatorio il giudice dispone la reintegrazione nel posto di lavoro quale che sia la dimensione di impresa.
Oggi la normativa è la stessa e, quindi, non cambia nulla di rilevante.

b) Nel caso di licenziamento disciplinare il giudice può scegliere tra reintegrazione, in caso di licenziamento manifestamente infondato, e indennizzo tra 12 e 24 mensilità.
Oggi se non ci sono violazioni gravi scatta l'obbligo di reintegro.

c) Nel caso di licenziamento per motivi economici ritenuto illegittimo dal giudice il datore di lavoro sarà condannato al pagamento di un'indennità. Nel caso di ''manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento'' per motivo economico il giudice potrà prevedere anche la reintegrazione.
Oggi se il lavoratore ricorre al giudice, e questo verifica che la ragione economica del licenziamento non c'è, si precede al reintegro.

d) E' obbligatorio indicare i motivi del licenziamento e tentare la conciliazione.
Oggi la motivazione arriva su esplicita richiesta da parte del lavoratore oggetto del licenziamento.

e) E' prevista l'introduzione di un processo speciale abbreviato per le controversie in materia di licenziamento.
Oggi si passa prima dal tentativo di conciliazione presso la Direzione provinciale del lavoro e poi, se questa non va a buon fine, si va in tribunale (con tutto quello che ne consegue in termine di lunghezza del giudizio).

giovedì 12 aprile 2012

Serve una vera riforma del mercato del lavoro

di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
giovedì 12 aprile 2012

La bozza di riforma del mercato del lavoro proposta dal governo Monti, trasmessa nei giorni scorsi al Senato per l’inizio dell’iter parlamentare, oltre che sul tavolo istituzionale dei componenti della commissione lavoro di Palazzo Madama, sta passando anche su altri tavoli (extraparlamentari), ed è oggetto di frenetiche trattative tra lo stesso governo, le parti sociali e i partiti.

Tutti hanno una richiesta da fare e nessuno, almeno al momento, è disposto a fare un passo indietro. Per capire bene qual è la situazione e quale potrebbe essere lo sbocco di queste trattative, bisogna analizzare la posizione dei soggetti in campo: governo, sindacati, confindustria, partiti. Il governo, cui va comunque dato atto di aver definito una bozza di riforma abbastanza innovativa su un tema non certo facile come quello della riforma del mercato del lavoro, ha già fatto un mezzo passo indietro sui licenziamenti individuali per motivi economici, laddove ha reintrodotto la possibilità per il giudice, a certe condizioni, di disporre il reintegro del lavoratore. A tutto questo, va aggiunta la questione fondamentale della flessibilità in entrata poiché il testo arrivato al Senato è fortemente carente su questo punto. I sindacati, da parte loro, scenderanno in piazza venerdì 13 per denunciare la questione degli esodati e per chiedere una soluzione sulle ricongiunzioni onerose. La Cgil, inoltre, ha evidenziato anche il problema della modifica della normativa sui licenziamenti individuali.

In pratica il mezzo passo indietro del Governo non gli sta bene e chiede il ripristino integrale della vecchia formulazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Il segretario della Fiom, Maurizio Landini ha già posto dei paletti ben precisi a tal riguardo e, ammonendo senza mezzi termini la Camusso, ha già dichiarato che sull’articolo 18 la Fiom farà da sola nel caso in cui la Cgil dovesse piegarsi. La Fiom non ha intenzione di fermarsi, ha detto Landini, aggiungendo che servono tutte le iniziative, compreso lo sciopero generale, e che non si esclude alcuno strumento per ripristinare l'articolo 18, compreso il referendum.

La Confindustria, come dimostrano le uscite pubbliche del presidente Emma Marcegaglia, ha mosso ampie critiche al governo sul tema della poca flessibilità in entrata e sul passo indietro in materia di licenziamenti individuali per motivi economici. In pratica è stato fatto presente all’esecutivo che un mercato del lavoro poco flessibile sia in entrata sia in uscita, anche alla luce dell’eccessiva burocratizzazione del sistema italiano e di una congiuntura economica internazionale non certo favorevole, non avrebbe certamente effetti positivi sul sistema occupazionale nazionale. I numeri forniti dall’Istat sono chiari e, come dimostrano, sia i dati congiunturali sia quelli tendenziali, il tasso di disoccupazione è in costante e preoccupante aumento.

La pozione dei partiti maggiori, Pdl e Pd, merita un discorso a parte. Bersani ha il problema di mantenere i rapporti integri con la Cgil e, fatti alla mano, ha dimostrato che non ha alcuna intenzione di recidere il filo rosso che lega il suo partito al sindacato guidato da Susanna Camusso. Il problema è che se la Cgil decidesse di cavalcare le idee regrediste che arrivano dalla pancia del movimento (Fiom su tutte), in materia di licenziamenti e di flessibilità in entrata, si scatenerebbe un effetto domino che paralizzerebbe il Pd e porrebbe seri problemi al percorso parlamentare della riforma del mercato del lavoro.

Angelino Alfano, invece, ha scelto responsabilmente la strada del dialogo con tutti quelli che hanno a cuore la modernizzazione di questo Paese e sta definendo un pacchetto di modifiche da portare in Parlamento. L’obiettivo dichiarato dal segretario del Pdl è quello di migliorare il provvedimento del governo soprattutto sul tema delle assunzioni, agevolando la flessibilità in entrata, in modo da perseguire politiche che contrastino in modo efficace il problema dell’aumento del tasso di disoccupazione, con particolare riguardo a quello dei giovani, e dei bassi livelli di occupazione delle donne (i due elementi storicamente negativi del mercato italiano). Alla luce di quanto detto, quindi, il percorso parlamentare del provvedimento relativo alla riforma del mercato del lavoro rischia di essere abbastanza accidentato. Le varianti sono essenzialmente tre e sono tutte importanti: la volontà del Governo di rischiare una sorta di passaggio sotto le forche caudine nel caso arrivassero proposte di modifica irricevibili (come quelle della Fiom); l’effetto domino derivante dall’esito del confronto interno alla Cgil tra Susanna Camusso e Maurizio Landini; un possibile accordo in Parlamento su alcune modifiche qualificanti proposte dal Pdl per modernizzare il mercato del lavoro sul tema delle assunzioni e il contrasto al fenomeno della disoccupazione.

giovedì 5 aprile 2012

Giovani e lavoro: più diritti e meno assistenza

di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
mercoledì 04 aprile 2012

Negli ultimi tempi il dibattito politico si è focalizzato sulle varie ipotesi di riforma del mercato del lavoro. E’ chiaro che quando si tocca un argomento così vasto e complesso, l’attenzione spesso rischia di incentrarsi sugli aspetti che generano maggiore conflitto politico, com’è avvenuto ad esempio in merito alla volontà da parte del governo di riformare l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori in materia di licenziamenti individuali.

Tutti i riflettori sono stati puntati su quest’aspetto e poco o niente su altri che, peraltro, non sono certo secondari per la modernizzazione di questo Paese. Uno degli argomenti rimasti nascosti nell’ombra è certamente quello della riforma degli ammortizzatori sociali e cioè di quel complesso di misure e prestazioni a sostegno del reddito dei lavoratori che si trovano nella condizione di disoccupati o sospesi dal lavoro. Sappiamo da qualche tempo oramai, perché ci sono studi, statistiche e ricerche di ogni tipo, e per ognuno il proprio vissuto e la percezione di quello che avviene nella vita di tutti i giorni ad amici, parenti o semplici conoscenti, che i giovani lavoratori italiani siano in genere fuori dalle maglie del sistema di protezione sociale garantito dallo Stato.

Il direttore generale di Bankitalia, Anna Maria Tarantola, ha affermato nel suo intervento nel convegno a Genova ‘La famiglia un pilastro per l'economia del Paese’ che «nel nostro paese nel 2009 il tasso di occupazione è diminuito di 1,2 punti percentuali rispetto a un anno prima; nel 2010 di ulteriori 0,6 punti; nel 2011 ha ristagnato. In assenza di un sistema di ammortizzatori sociali estesi anche a chi ha storie lavorative discontinue, il ruolo della famiglia è divenuto essenziale». Secondo Bankitalia, infatti, «il reddito dei genitori è stato in molti casi l'unico sostegno per i componenti più giovani. Se si distinguono gli occupati in base alla loro posizione all'interno della famiglia, nel luglio del 2011 il tasso di occupazione dei figli conviventi con i propri genitori era inferiore di 5,8 punti percentuali al valore precedente la crisi; quello dei genitori di mezzo punto. Si stima che nella tarda primavera del 2009, nel momento di massimo impatto della crisi sul mercato del lavoro italiano, circa 480 mila famiglie abbiano sostenuto almeno un figlio convivente che aveva perso il lavoro nei dodici mesi precedenti. Le risorse impiegate in questa forma di sostegno familiare sono venute non solo dai redditi da lavoro dei genitori, ma spesso anche da quelli da pensione».

L’ipotesi di riforma in materia di ammortizzatori sociali, proposta dal governo Monti, quindi, doveva tra le altre cose dare ai giovani quelle garanzie che oggi non hanno ed eliminare quegli sprechi di sistema di cui tutti parlano, ma che nessuno tocca. In attesa di leggere il testo che arriverà in Parlamento, al momento possiamo solo analizzare quanto trapelato ufficialmente da Palazzo Chigi. Sappiamo che la riforma si articola su tre pilastri: assicurazione sociale per l’impiego (ASpI), a carattere universale; tutele in costanza di rapporto di lavoro (Cigo, Cigs, fondi di solidarietà); strumenti di gestione degli esuberi strutturali. Diciamo subito che si tratta di una riforma abbastanza innovativa per il panorama italiano e che le note positive sono il primo e il terzo pilastro perché sono strumenti che vengono incontro alle esigenze reali dei giovani lavoratori che hanno bisogno di diritti universali e non di un sistema fatto di garanzie riconosciute solo ad alcuni. Tuttavia andrebbe rivisto il sistema di protezione dei collaboratori coordinati e continuativi, esclusi dall’ambito di applicazione dell’ASpI. Nelle dichiarazioni del governo, infatti, si fa riferimento al rafforzamento e alla messa a regime del meccanismo una tantum previsto oggi ma resta ancora un mistero quali saranno le coperture economiche di un provvedimento del genere poiché attualmente questa forma di protezione viene concessa, a certe specifiche condizioni, nei limiti delle risorse disponibili e non certo a tutti. Molto meno soddisfacente, invece, è il secondo pilastro in merito alla cassa integrazione perché è vero che il nuovo sistema potrebbe essere in grado di prevenire usi impropri perché le tutele scatterebbero in costanza di rapporto di lavoro, ma è altrettanto noto che lo strumento della cassa integrazione, così com’è, non tutela appieno il lavoratore.
Il sistema dovrebbe mettere al centro della tutela la persona. La politica passiva degli incentivi economici dovrebbe essere sostituita, quindi, da forme attive ossia da strumenti per il ricollocamento come forme di riqualificazione o servizi di ricerca del lavoro.

mercoledì 21 marzo 2012

No ai veti sulla riforma del mercato del lavoro

di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
mercoledì 21 marzo 2012

Siamo alla stretta finale nel confronto tra Governo e Parti Sociali sulla riforma del mercato del lavoro e, a breve, la discussione passerà al Parlamento che d’ora in poi diventerà l’unico interlocutore dell’Esecutivo, com’è giusto che sia in questa fase, per arrivare in tempi rapidi all’approvazione di una legge. «Noi difenderemo questa riforma e siamo contenti del fatto che il conto non lo paghino le piccole e medie imprese con l'aumento del costo del lavoro. Sull'articolo 18 diciamo che si è trovato un buon punto di equilibrio sul quale non si deve arretrare in Parlamento», ha dichiarato il segretario nazionale del Pdl Angelino Alfano.
Le aree di intervento oggetto del dialogo tra Governo e Parti Soci sono tre: contrasto al precariato, riforma degli ammortizzatori sociali, modifica dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori in materia di licenziamenti individuali. Sulle prime due è stato trovato l’accordo mentre resta ancora aperta la terza questione con la Cgil sempre fuori dal coro e contraria alla modernizzazione.

Contrasto al precariato. Sono stati previsti una serie d’interventi, peraltro ampiamente condivisibili, per cercare di mettere alcuni paletti fondamentali nel rapporto tra giovani in cerca di occupazione e datori di lavoro, per evitare che la condizione di bisogno dei primi sia sfruttata in modo improprio dai secondi:

- il contratto privilegiato per l’ingresso del mondo del lavoro sarà quello di apprendistato, così come pensato dall’ex ministro del lavoro, Maurizio Sacconi, durante l’ultimo governo Berlusconi, e cioè un contratto di lavoro a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e all’occupazione dei giovani;

-stretta sui contratti a termine (esclusi stagionali o sostitutivi) attraverso la duplice previsione dell’impossibilità della proroga oltre i 36 mesi e di un contributo aggiuntivo dell’1,4% che servirà per finanziare il nuovo sussidio di disoccupazione; divieto di stage gratuiti per coloro che sono già in possesso di una laurea o hanno già fatto un master;

-norma contro le dimissioni in bianco delle lavoratrici e stretta su partite iva con monocommitente, co.co.pro e associazioni in partecipazione se non si è familiari.

Riforma ammortizzatori sociali. Secondo le dichiarazioni del ministro del lavoro, Elsa Fornero, il nuovo sistema andrà a regime nel 2017 con la previsione di risorse aggiuntive pari a 1,7-1,8 miliardi:

- introduzione sin da subito di un’assicurazione sociale per l'impiego universale (ASPI), che sostituirà l’indennità di disoccupazione e durerà 12 mesi (fino ad un massimo di 18 mesi per chi ha più di 55 anni). Dovrebbe essere il 75% della retribuzione lorda (oggi l’indennità raggiunge al massimo il 60% e dura 8 mesi fino ad un massimo di 12 per gli over 50) fino a 1.150 euro, e il 25% per la quota superiore a questa cifra, con un tetto di 1.119 euro lordi per il sussidio e con una riduzione dopo i primi sei mesi;

- mantenimento della cassa ordinaria e straordinaria con i contributi attuali, ma con l’esclusione della causale di chiusura dell'attività (resta possibile solo quando è previsto il rientro in azienda);

- introduzione di un fondo solidarietà per lavoratori anziani su base assicurativa, pagato dalle aziende e rivolto a coloro che perdono il posto di lavoro a pochi anni dalla pensione. Le modifiche in questa materia sono quasi tutte condivisibili perché il tema centrale è quello di estendere a tutti i sistemi di protezione sociale. Resta ancora aperta, tuttavia, la questione degli usi impropri di tali mezzi poiché, tanto per dirne una, sulla cassa integrazione straordinaria si poteva e si doveva fare di più ma è comprensibile il motivo per cui questo non è avvenuto. Forse i sindacati non avrebbero retto l’urto di una certa parte dell’opinione pubblica e non sarebbero stati in grado di sostenere la doppia modifica in materia di cassa integrazione e licenziamenti individuali.

Art. 18 statuto dei lavoratori. Il nodo ancora parte riguarda le ipotesi di modifica della normativa in materia di licenziamenti individuali. Sull'articolo 18 il Governo ha proposto di lasciare il reintegro per i soli licenziamenti discriminatori mentre per i disciplinari sarà il giudice a decidere tra il reintegro, nei casi gravi, e una indennità con massimo 27 mensilità, tenendo conto dell'anzianità; per gli economici solo l’indennizzo che va da un minimo di 15 ad un massimo di 27 mensilità dell'ultima retribuzione. Si tratta con tutta evidenza di una disposizione di buon senso che riporta la questione su un binario corretto. Resta identica la disciplina riguardante il reintegro per i licenziamenti discriminatori (discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua e di sesso) mentre cambia quella concernente i casi di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo (oggi per quelli disciplinari se non ci sono violazioni gravi scatta l'obbligo di reintegro mentre per quelli relativi alle crisi aziendali se il lavoratore ricorre al giudice, e questo verifica che la ragione del licenziamento non c'è, si precede al reintegro). Il problema è tutto nell’anti-economicità del reintegro nei licenziamenti per giusta causa e per giustificato motivo perché rappresentano sia un costo eccessivo per i datori di lavoro, oggi in alcuni casi costretti a restare sotto la soglia dei 15 dipendenti per non subire l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, sia una scelta contraria agli interessi dello stesso lavoratore, che deve aspettare le lungaggini della giustizia italiana per poi essere (forse) reintegrato in un posto di lavoro (sempre se ancora esiste) in cui non troverà di certo un ambiente favorevole. Molto meglio, invece, monetizzare la situazione e rimettersi sul mercato senza aspettare 6-7 anni con le braccia conserte come prevede l’attuale normativa.

martedì 13 marzo 2012

Le ipotesi di riforma del mercato del lavoro


di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
martedì 13 marzo 2012

In questi giorni prosegue il dialogo tra il Governo e le parti sociali per arrivare in tempi piuttosto brevi a una riforma complessiva del mercato del lavoro. Il dibattito ruota intorno a quattro questioni fondamentali: le tipologie contrattuali, modifica al sistema degli ammortizzatori sociali, un’assicurazione sociale per l’impiego al posto delle varie indennità e riforma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori in tema di licenziamenti individuali.

Riordino delle tipologie contrattuali. La via scelta, peraltro condivisibile perché sarebbe un’ipotesi concreta di contrasto alla precarietà, è quella di far costare di più il lavoro a termine (ci sarà un'aliquota dell'1,4%) e di puntare sulla piena applicazione del nuovo contratto di apprendistato, introdotto nel nostro ordinamento su proposta del ministro Sacconi durante l’ultimo governo Berlusconi, attraverso una serie di incentivi (per i primi tre anni non si pagheranno contributi o se ne pagheranno pochi a seconda delle dimensioni dell'azienda). Un contratto, quest’ultimo, che prevede un primo passaggio temporale dedicato alla formazione certificata del lavoratore e un secondo dove l'azienda deciderà se stipulare un contratto a tempo indeterminato oppure se terminare il rapporto di lavoro (in caso di silenzio delle parti, il contratto diventa automaticamente a tempo indeterminato).

Modifica degli ammortizzatori sociali. Dovrebbe rimanere la cassa integrazione ordinaria così come la conosciamo. Per quanto riguarda la cassa integrazione straordinaria dovrebbe essere limitata alle aziende che si devono ristrutturare, mentre in caso di chiusura non dovrebbe essere previsto alcuno scivolo o mobilità, ma un assegno di disoccupazione (nel caso in cui il lavoratore non accettasse l'impiego offerto dalle agenzie di collocamento rischierebbe di perderlo). Anche in questo caso l’ipotesi di modifica dell’attuale assetto è abbastanza condivisibile, anche se andrebbe rivista l’idea di mantenere in piedi la cassa integrazione per evitare che sia usata impropriamente per scaricare sulla collettività i costi sociali delle delocalizzazioni o delle cessioni dei rami d’azienda. Sarebbe bene mettere alcuni paletti ben precisi per fare in modo che l’unico soggetto tutelato sia il lavoratore e non gli interessi speculativi di alcuni (pochi per fortuna) datori di lavoro che sembrano essere poco propensi a fare i veri industriali.

Un’assicurazione sociale per l’impiego che sostituisca le varie indennità per tutti i lavoratori, sia pubblici che privati, con contratto a termine. Si tratta certamente di un’ipotesi di riforma apprezzabile perché allungherebbe la coperta della protezione sociale a chi oggi non ne usufruisce anche perché è inutile girare intorno al problema senza centrarlo: il punto fondamentale è rendere universali i sistemi di protezione sociale evitando il rischio di creare fratture tra chi ha tutte le garanzie e chi non ne ha.

Modifica dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori. Il tema dei licenziamenti individuali è sempre una questione particolare da affrontare. Forse si tratta del punto più difficile sul quale trovare un accordo. Indipendentemente dalle varie posizioni in campo, una base di discussione potrebbe essere quella di capire se oggi l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori è utile per tutti o solo per qualcuno e se davvero questa norma tutela gli interessi dei lavoratori. La risposta è assolutamente «no» in entrambi i casi, anche al netto della considerazione sull’anti-economicità perché in questa fattispecie non si ha un'interruzione né del rapporto di lavoro né di quello assicurativo e previdenziale, così che al lavoratore spettano i contributi anche per il periodo tra il licenziamento e la reintegrazione e il datore di lavoro non ha alcuna facoltà di scelta (con la riassunzione prevista dalla tutela obbligatoria, invece, al lavoratore non spetta alcun emolumento per il periodo intercorso tra il licenziamento e il rientro in azienda e si instaura un nuovo rapporto di lavoro). Un’ipotesi di modifica percorribile potrebbe essere quella di ricorrere a un indennizzo economico proporzionale all'anzianità di servizio nei casi di licenziamenti per motivi economici e disciplinari in sostituzione del reintegro.

Il dialogo tra Governo e parti sociali su questi quattro punti fondamentali sembra essere a un buon punto. Restano tuttavia aperti alcuni fronti non certamente secondari come, ad esempio, la posizione della Cgil sui licenziamenti individuali, la copertura economica della riforma, le iniziative di carattere strutturale per rilanciare l’occupazione femminile.

martedì 28 febbraio 2012

Produrre di più per guadagnare meglio

di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
lunedì 27 febbraio 2012

In Italia gli stipendi sono molto bassi. Secondo il ministro del lavoro, Elsa Fornero, «l'Italia ha il paradosso di stipendi bassi e costo del lavoro alto, per due ragioni. Una è la pressione fiscale, quindi la differenza tra salario netto e lordo che è maggiore rispetto ad altri Paesi. Un'altra è la produttività, che incide sul costo del lavoro per unità di prodotto. Certo, se l'impresa lesina gli investimenti, la produttività perde terreno rispetto ad altri Paesi». L’analisi è giusta.

Il costo del lavoro in Italia è molto alto. Partiamo dal presupposto che la busta paga esprime in termini monetari l'insieme dei rapporti del lavoratore con il datore di lavoro (la paga), con lo Stato (le imposte) e con gli enti previdenziali (i contributi). Il salario lordo è oneroso per le imprese perché le aliquote contributive sono elevate, mentre quello netto non soddisfa le esigenze dei lavoratori perché, nel passaggio dal lordo al netto, la concomitante presenza di alte imposte sul reddito e scarse detrazioni e prestazioni familiari alleggerisce notevolmente il peso della busta paga.

Il costo della protezione sociale è alto, grava molto sia sulle imprese sia sui lavoratori, e i benefici sono troppo sbilanciati sul lato previdenziale (pensioni) e meno su quello assistenziale. Questa situazione non favorisce un’evoluzione virtuosa del mercato perché penalizza tutti coloro che vi operano, in particolare i giovani e le donne che sono storicamente i soggetti più deboli del mercato del lavoro.

L’unico che ci guadagna è lo Stato, anche se si tratta più di una sensazione che di una realtà. L’alta pressione fiscale sul lavoro dipendente, infatti, serve a sopperire in parte ai mancati introiti derivanti dall’elusione e dall’evasione fiscale di una parte degli autonomi che spesso affermano di aggirare la questione tasse proprio perché sono alte. Siamo dinanzi al classico circuito in cui il cane si morde la coda. Le tasse sono alte e penalizzano tutti. Tuttavia non si tratta solo di una questione legata al fisco ma anche alla struttura del nostro sistema di protezione sociale. La nostra Costituzione, all’articolo 38, dispone che «I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria».

Secondo la nostra Carta Costituzionale, quindi, una piena applicazione del sistema di protezione sociale passa non solo dal lato della previdenza ma anche da quello dell’assistenza. Sarebbe necessario, quindi, far rientrare nell’ambito della discussione sull’aumento dei salari, inteso come abbassamento del cosiddetto lordo e innalzamento del netto, elementi fondamentali come la riduzione delle tasse, la lotta all’evasione e alla elusione fiscale, un aumento delle tutele a favore delle famiglie, dei giovani e delle donne. Il tema è molto complesso e una riforma organica del sistema, attraverso un riequilibrio della bilancia dei costi e dei benefici, non potrà che creare un circuito virtuoso determinando effetti positivi anche per l’occupazione giovanile e femminile.

martedì 21 febbraio 2012

Quanto è difficile riformare il mercato del lavoro

di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
martedì 21 febbraio 2012

Il tema del lavoro è «molto importante» e anche per questo «il governo molto impegnato». Lo ha detto il ministro Corrado Passera in un videomessaggio inviato al convegno di Federmeccanica in corso a Firenze, dove ha spiegato che l'esecutivo «conta di far fare una serie di passi molto importanti al Paese».
Nei giorni scorsi il premier Mario Monti aveva affermato, inoltre, che entro la fine di marzo il Governo presenterà in Parlamento un provvedimento con o senza l'accordo delle parti sociali. E’ certo che riformare il mercato del lavoro e il sistema degli ammortizzatori in Italia è un’impresa ciclopica per qualsiasi governo. I motivi sono tanti: una parte del mondo sindacale e politico si trova su posizioni retrograde e ci sono sacche di privilegio e chi trae profitto da questa situazione, oltre ad essere ben organizzato e rappresentato, non ne vuole sapere di mollare l’osso. E' facile scaricare i costi sociali sui giovani e le donne e le lobby piccole e grandi si oppongono a qualsiasi modifica strutturale che apra il mercato alla concorrenza e altro ancora.

Insomma mettere mano all’impianto delle norme in materia non è certamente un esercizio da poco anche perché le modifiche dovranno riguardare sia le politiche attive per il lavoro sia l’attuale assetto degli ammortizzatori sociali. E’ evidente che queste due riforme dovranno per forza di cose andare di pari passo se vogliamo avere un sistema moderno in grado di offrire più opportunità di lavoro a chi oggi ne ha poche, giovani e donne in primis, e al contempo garantire un efficiente sistema di protezione sociale capace di tutelare tutti senza spreco di denaro pubblico.

Partiamo dal presupposto che oggi praticamente tutti nel mondo delle istituzioni, del sindacato, delle imprese, delle professioni sono concordi a parole e pubblicamente nel voler raggiungere questi obiettivi: più opportunità di lavoro e più tutele. E’ un buon inizio. Il problema è declinare queste lodevoli intenzioni in proposte articolate e, in seguito, in norme.

Guardiamo al dibattito sul mercato del lavoro.
Tanto per essere chiari: l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, così come è, è un ostacolo al raggiungimento di questo obiettivo? Secondo molti si perché la cosiddetta tutela reale, che tra l’altro si applica solo ad una cerchia di lavoratori, è anti-economica perché in questa fattispecie non si ha un'interruzione né del rapporto di lavoro né di quello assicurativo e previdenziale, così che al lavoratore spettano i contributi anche per il periodo tra il licenziamento e la reintegrazione e il datore di lavoro non ha alcuna facoltà di scelta (con la riassunzione prevista dalla tutela obbligatoria, invece, al lavoratore non spetta alcun emolumento per il periodo intercorso tra il licenziamento e il rientro in azienda e si instaura un nuovo rapporto di lavoro). Per non parlare del sistema di incontro tra domanda e offerta di lavoro, dove oggi il mezzo migliore resta il passaparola, e i fenomeni di precariato.
Ben venga la valorizzazione dell’apprendistato, che con la riforma voluta dall’ex ministro Sacconi è diventato un contratto a tempo indeterminato (dopo la scadenza del termine previsto dalla legge, infatti, il rapporto continua se le parti non decidono espressamente in modo diverso), i controlli sulle partite iva con monocommitente e la volontà di rendere più onerose alcune tipologie contrattuali a termine.

Altra questione delicata sono gli ammortizzatori sociali. Sappiamo tutti che oggi ci sono iper-tutelati e persone che, invece, di tutele ne hanno poche o nulla. Sappiamo anche che certe volte alcuni strumenti di protezione sociale, come la cassa integrazione, sono usati in modo improprio per scaricare sulla collettività i costi sociali delle delocalizzazioni o delle cessioni dei rami d’azienda. Si tratta, infatti, di un vero e proprio spreco di denaro pubblico al pari dei sussidi elargiti anche in mancanza di un serio processo di formazione e riqualificazione e alla ricerca attiva di un posto di lavoro.
In questi giorni si parla dell'ipotesi di revisione dell'attuale sistema della cassa integrazione straordinaria e il superamento della cassa in deroga e l’introduzione di una indennità di disoccupazione involontaria, un sussidio unico che sostituirebbe la disoccupazione ordinaria, speciale, con requisiti ridotti ed anche la mobilità. Il punto è che qualsiasi riforma dovrà mettere al centro del sistema la persona e non il posto di lavoro che occupava. Bisogna aiutare chi perde il lavoro a ricollocarsi nel mercato senza lasciare nessuno in mezzo ad una strada e farlo cercando di non sprecare i soldi per la collettività perseguendo duramente gli abusi.

martedì 14 febbraio 2012

Tutelare il made in Italy nel settore agroalimentare

di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
martedì 14 febbraio 2012

L'agroalimentare italiano è sempre più apprezzato nel mondo. L’Italia è il primo Paese per numero di prodotti riconosciuti Dop e Igp a livello europeo (23,3 % del totale), seguito dalla Francia, dalla Spagna e dal Portogallo (rispettivamente con il 19 %, il 14,7 % ed il 12,5 %).

Il presidente della Cia-Confederazione italiana agricoltori, Giuseppe Politi, ha affermato che i nostri prodotti tipici e di qualità (240 Dop. Igp e Stg) conquistano ogni anno importanti fette di mercato all'estero, riuscendo a contrastare una concorrenza molto agguerrita. Un esempio su tutti: l'export del vino ha toccato livelli altissimi, con oltre 4 miliardi di euro nel 2011 (l’Italia è il secondo produttore mondiale di vino dopo la Francia). E questo grazie soprattutto all'azione condotta dai nostri produttori che si trovano spesso a operare senza alcun sostegno da parte delle istituzioni preposte.
Politi ha rilevato, inoltre, che nel 2011 l'export agroalimentare è cresciuto soprattutto nei comparti ad alto valore aggiunto e si sono colte così le opportunità che si sono presentate nel complesso panorama del commercio internazionale. Ma non sono tutte rose e fiori.

Tra i problemi più grandi c’è sicuramente quello delle frodi in campo alimentare, una pratica vecchia come il mondo se è vero che già nell’antico Egitto si impiegavano speciali attrezzi per effettuare la bollatura delle carni macellate ed impedire che con esse venissero vendute parti di bestie morte per malattia e che Plinio il Vecchio nel I° secolo d.C. descriveva la falsificazione di prodotti di largo consumo.
Nell’intero comparto la contraffazione è un fenomeno fortemente diffuso che danneggia tutti, produttori e consumatori. Nella relazione sulla contraffazione nel settore agroalimentare (pag. 92-97), approvata il 6 dicembre dello scorso anno dalla commissione parlamentare di inchiesta sui fenomeni della contraffazione e della pirateria in campo commerciale, sono state elencate le numerose operazioni effettuate dalle nostre forze dell’ordine per contrastare questo fenomeno. E’ ovvio che non siamo certamente all’anno zero nella lotta alle frodi nell’agroalimentare ma si può e si deve fare di più.

In un settore che produce circa 150 miliardi di euro come valore assoluto non potevano di certo mancare i tentacoli della piova criminale. Il Rapporto Eurispes-Coldiretti sui crimini agroalimentari in Italia stima che il volume d’affari complessivo dell’agromafia sia quantificabile in 12,5 miliardi di euro (5,6% del totale): 3,7 miliardi di euro da reinvestimenti in attività lecite (30% del totale) e 8,8 miliardi di euro da attività illecite (70% del totale).
E questo, purtroppo, non è il solo problema.

Sempre più spesso, inoltre, la pirateria agroalimentare internazionale utilizza denominazioni geografiche, marchi, parole, immagini, slogan e ricette che richiamano all’Italia per pubblicizzare e commercializzare prodotti che nulla hanno a che fare con il nostro Paese. Il cosiddetto Italian sounding rappresenta la forma più diffusa e nota di contraffazione e falso Made in Italy nel settore agroalimentare. Secondo alcune stime il giro d’affari dell’Italian sounding nel mondo supera i 60 miliardi di euro l’anno (164 milioni di euro al giorno), cifra 2,6 volte superiore rispetto all’attuale valore delle esportazioni italiane di prodotti agroalimentari (23,3 miliardi di euro nell’anno 2009).
Gli effetti economici diretti dell’Italian sounding sulle esportazioni di prodotti agroalimentari realmente Made in Italy si riversano indirettamente sulla bilancia commerciale, in costante deficit nell’ultimo decennio (3,9 miliardi di euro nel 2009). Sempre secondo il Rapporto Eurispes-Coldiretti, per giungere a un pareggio della bilancia commerciale del settore agroalimentare italiano, ad importazioni invariate, sarebbe sufficiente recuperare quote di mercato estero per un controvalore economico pari al 6,5% dell’attuale volume d’affari dell’Italian sounding.

Il recupero di quote di mercato per un controvalore economico superiore al 6,5%, avrebbe, viceversa, assicurato un surplus della bilancia commerciale, con effetti positivi sul Pil del comparto agroalimentare e dell’intero Sistema paese. Il governo in carica è recentemente intervenuto a sostegno del comparto con una serie di lodevoli interventi inseriti nel cosiddetto decreto liberalizzazioni. Va bene ma non basta. La tutela del nostro settore agroalimentare dai crimini e dall’italian sounding, unità al rafforzamento delle relazioni di filiera, a una maggiore professionalizzazione ed internazionalizzazione delle imprese operanti nel comparto, avrebbe effetti positivi sulla nostra bilancia commerciale e su tutto il nostro sistema Paese.

martedì 7 febbraio 2012

Il posto fisso è un’illusione come il mutuo senza il posto fisso

di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
martedì 07 febbraio 2012

Negli ultimi giorni si è infiammato il dibattito su alcune dichiarazione rilasciate da autorevoli esponenti del Governo in materia di lavoro giovanile, ma sarebbe opportuno parlare anche di disoccupazione giovanile, viste le non esaltanti statistiche a riguardo nel nostro paese. Ha iniziato il premier Mario Monti («che monotonia il posto fisso. I giovani si abituino a cambiare»), ha continuato il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, («Noi italiani siamo fermi al posto fisso nella stessa città di fianco a mamma e papà. Il mondo sta cambiando») e ha concluso, per ora, il ministro del lavoro, Elsa Fornero, («Non si può promettere un posto fisso, chi oggi lo promette promette facili illusioni»). Anni fa era stato lo scomparso ex ministro dell’economia del governo Prodi, Tommaso Padoa Schioppa, a dare uno scappellotto ai giovani italiani con la mitica frase sul «Mandiamo i bamboccioni fuori di casa».

Facciamo il punto della situazione. I giovani italiani, a detta di chi li governa o li ha governati in passato, sono dei bamboccioni da mandare fuori di casa che vogliono il posto fisso vicino ai genitori e che per maturare dovrebbero mettersi in testa, finalmente, che il posto fisso non c’è più e che se c’è è monotono. Guardiamo i freddi numeri. Il numero dei «senza posto fisso» in Italia supera i 2,7 milioni di persone (somma tra i 2,364 milioni di dipendenti a tempo determinato e le 385 mila persone con contratto di collaborazione). Il 46,7% dei dipendenti sotto i 25 anni è a termine. Nella fascia di età tra i 25 e i 34 anni questo dato si abbassa al 18%, fino ad arrivare all’8% per chi supera i 35 anni (nello specifico 8,3% tra i 35-54 anni e 6,3% tra gli over 55). Tutto questo al netto di situazioni particolari come ad esempio le discusse partite iva con mono-committente, dove di solito si cela un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato.

Questi numeri ci dicono due cose: una negativa e cioè che la flessibilità si scarica solo sui giovani, e una positiva, ossia che, con il passare degli anni lavorativi in genere, ma sempre meno spesso, la situazione migliora. E questi sono i dati di chi lavora. L’altro aspetto storicamente negativo del nostro mercato del lavoro è l’alto tasso di disoccupazione degli under 25 (oggi quasi un giovane su tre è senza lavoro). La realtà fotografata dai dati scientifici porta il tema del dibattito, quindi, su tutto un altro piano. I problemi da risolvere non sono certo, o comunque non solo, di carattere culturale, ma sono molto più pratici. Chi, tra i ragazzi e le ragazze di questo paese, pensa ancora di avere la cosiddetta «pappa pronta», o vive una realtà familiare in grado di dargliela o deve ancora fare i conti con la dura realtà. Al di fuori di queste due situazioni, oggi le richieste che arrivano dalla stragrande maggioranza dei giovani italiani sono altre e tra queste non c’è certamente l’avere il cosiddetto «posto fisso» come quello dei loro genitori.

Le rivendicazioni riguardano l’allargamento dei canali di ingresso nel mercato del lavoro, la continuità nello svolgere una attività lavorativa, una certa stabilità e la possibilità di accesso al credito. Chiedere continuità e stabilità non vuol dire sognare il vecchio «posto fisso», ma pretendere un sistema più equo in materia di tutele, riformando l’attuale sistema duale in vigore nel nostro ordinamento e abbattendo il muro di iniquità che separa oggi i giovani, che di tutele ne hanno poche o nulle, e tutti gli altri che, invece, sono super-garantiti. Premessa la difficoltà di trovare un lavoro, tanto per intenderci, è equo un sistema che prevede all’interno dello stesso mercato due tipi di tutele (reale e obbligataria), meccanismi di prestazioni a sostegno del reddito e calcolo della pensione che penalizzano i giovani e l’impossibilità di accedere al credito (mutui o prestiti) per chi non ha il vecchio posto fisso? Per essere concreti: che cosa si vuole fare con l’inutile monolite dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che, a detta di numerosi esperti, bloccherebbe molte assunzioni nelle piccole imprese? Lasciarlo così com’è, abolirlo, alzare la soglia, aggirarlo con l’arbitrato? E con le prestazioni a sostegno del reddito che penalizzano i giovani? E come coniugare la continuità nel versamento dei contributi pensionistici previso da un sistema come quello attuale, dove quanto versi tanto avrai, con la mancanza di stabilità? E, ancora, quale soluzione si offre a tutti i giovani che non possono chiedere mutui e prestiti perché non hanno un contratto a tempo indeterminato?

giovedì 2 febbraio 2012

Controversie sul lavoro: urge un decreto sul tema

di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
giovedì 02 febbraio 2012

In questi giorni è in corso a Palazzo Chigi il negoziato tra governo e parti sociali sulla riforma del mercato del lavoro che il premier Mario Monti vorrebbe concludere entro febbraio. Sono quattro i punti proposti dall'esecutivo su cui incentrare il confronto: forme contrattuali, flessibilità in entrata e in uscita dal mercato del lavoro, ammortizzatori sociali e salari.

Il ministro del lavoro e delle politiche sociali, Elsa Fornero, ha aggiunto anche la conciliazione nelle cause di lavoro tra i temi in discussione. Proprio su quest'ultimi punto, il ministro potrà avvalersi di un ottimo provvedimento approvato dal precedente governo Berlusconi. Si tratta della Legge n. 183 del 2010 (il cosiddetto collegato lavoro). La norma, tra le altre cose, conferisce alle parti sociali la facoltà di realizzare procedure di conciliazione e di arbitrato irrituale, a cui i lavoratori si obbligano a ricorrere tramite la sottoscrizione, libera e volontaria, di una clausola compromissoria, in modo che le controversie di lavoro (con l'esclusione esplicita di quelle attinenti la risoluzione del rapporto di lavoro) possano avere sollecita composizione stragiudiziale. Trascorso un anno senza che siano intervenute intese negoziali, il ministro del Lavoro e delle Politiche sociali è tenuto ad esercitare nei sei mesi successivi un'azione di mediazione, a conclusione della quale, perdurando la mancata iniziativa delle parti, spetta al ministro stesso definire, in via sperimentale, una soluzione con proprio decreto.

Elsa Fornero, nel corso del question time svoltosi mercoledì scorso alla Camera, interrogata proprio su questo punto, giacché, nell'inerzia delle parti sociali, il termine di un anno è scaduto, ha affermato di essere consapevole del problema e pronta ad agire, e che si impegna ad effettuare una ricognizione su quanti contratti collettivi abbiano effettivamente attivato la clausola di arbitrato e a porre la questione alle parti sociali. La questione non è assolutamente di poco conto anche perché, oltre al fatto che si tratta di un tema sempre delicato da affrontare, il I presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario, ha sottolineato il forte incremento delle controversie di lavoro (anno giudiziario 2010-2011): + 34,9% per le cause di pubblico impiego; + 15,7% per le cause di lavoro privato, per un aumento complessivo del 51,6%. Se consideriamo, inoltre, che ci vogliono in media quasi tre anni, 1.039 giorni per l'esattezza, per arrivare ad una sentenza in una causa di lavoro privato, allora non possiamo davvero più permetterci di perdere altro tempo per adottare il decreto previsto dal c.d. collegato lavoro.

martedì 24 gennaio 2012

Modernizzare con coraggio il mercato del lavoro

di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
martedì 24 gennaio 2012

Il ministro del Lavoro Elsa Fornero, durante l’incontro tra il governo e le parti sociali sulla riforma del mercato del lavoro e delle prestazioni a sostegno del reddito, ha illustrato un documento composto da 5 capitoli: tipologie contrattuali, formazione, apprendistato, flessibilità, ammortizzatori sociali e servizi per il lavoro. Al termine dei lavori il ministro non ha consegnato il documento finale, precisando che vi lavorerà ancora tenendo conto delle proposte pervenute.
A riguardo, in mancanza di un testo preciso sul quale confrontarsi, si possono fare almeno due considerazioni: una sul metodo e un altra sul merito della questione.

Innanzitutto, la prospettiva della presentazione di un disegno di legge sul lavoro, al posto di un provvedimento d`urgenza, sembra indicare l’adozione di due pesi e due misure da parte del Governo nei suoi rapporti sia con le forze politiche sia con quelle sociali. Se fino ad ora il governo si è mosso in materie molto delicate, toccando gli interessi di quello che ipoteticamente dovrebbe essere il blocco sociale che fa riferimento al centrodestra, attraverso l’uso dello strumento della decretazione d’urgenza, non si capisce bene per quale motivo non si dovrebbe fare lo stesso anche in questa situazione.
Il mantenimento della pax negli equilibri tra Cgil e Partito Democratico (il sindacato rosso preme per non riformare il mercato del lavoro mettendo in difficoltà il Pd) non rappresenta un motivo valido per dilatare a dismisura i tempi di approvazione di un provvedimento in materia di lavoro. Il Governo, peraltro, come sottolineato in modo bipartisan dai deputati Cazzola (PdL) e Damiano (Pd), ha a disposizione una norma di deroga in materia molto ampia e completa, aperta fino a novembre (articolo 46 della Legge n.183 del 2010, il cosiddetto ‘collegato lavoro’).
L'Esecutivo, quindi, ha già tutti gli strumenti necessari per affidare ai decreti legislativi attuativi i contenuti delle eventuali intese realizzate, senza dover ricorrere a un nuovo provvedimento legislativo ad hoc che rischierebbe di dilatare i tempi. La norma in questione è la stessa già contenuta nella Legge n. 247 del 2007 che ha dato attuazione al cosiddetto Protocollo sul welfare.
Insomma il Governo se ne infischi dei rapporti tra Cgil e Pd, come già ha fatto con il rapporto PdL-categorie professionali, e modernizzi celermente il mercato del lavoro.

Per quanto riguardo il merito, invece, come ha ricordato anche il senatore Maurizio Sacconi, ex ministro del lavoro, bisogna partire dal presupposto che il Governo non potrà che seguire in linea di principio l’agenda europea e coniugare la migliore protezione economica e professionale dei lavoratori con la più efficiente flessibilità organizzativa delle imprese.
In questa prospettiva, mettere mano all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, un totem ideologico che si applica (poco nella realtà) ad una cerchia ristretta di lavoratori, sembra essere un atto di buon senso che incentiverebbe gli ingressi nel mercato del lavoro soprattutto delle nuove generazioni. Già oggi esiste un sistema duale in cui ad alcuni lavoratori si applica una tutela più forte (quella dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori) e ad altri quella più debole (ex art. 2 della Legge n. 108 del 1990) se paragonata con la prima.
Oggi nel nostro ordinamento c’è un iniquo e anti-economico sistema duale dove si distingue tra tutela reale (reintegrazione nel posto di lavoro e risarcimento ex art. 18 Legge n. 300 del 1970 nelle aziende sopra i 15 dipendenti) e tutela obbligatoria (riassunzione o risarcimento ex art. 8 Legge n. 604 del 1966, come sostituito dall'art. 2 Legge n. 108 del 1990, nelle aziende sotto i 15 dipendenti). Il problema è l’anomalia tutta italiana del ‘reintegro’ nel posto di lavoro (tutela reale ex art. 18 dello Statuto dei lavoratori), che è una delle cause delle mancate assunzioni nelle piccole aziende che non vogliono superare la fatidica soglia dei 15 dipendenti. La tutela reale è anti-economica perché in questa fattispecie non si ha un'interruzione né del rapporto di lavoro né di quello assicurativo e previdenziale, così che al lavoratore spettano i contributi anche per il periodo tra il licenziamento e la reintegrazione e il datore di lavoro non ha alcuna facoltà di scelta (con la riassunzione prevista dalla tutela obbligatoria, invece, al lavoratore non spetta alcun emolumento per il periodo intercorso tra il licenziamento e il rientro in azienda e si instaura un nuovo rapporto di lavoro).
E’ ovvio che l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori non è l’unico problema del nostro mercato del lavoro e incentrare tutte le discussioni in questo ambito potrebbe far perdere di vista una più ampia visione della questione. Altri punti dolenti, infatti, sono le problematiche relative gli ingressi nel mercato del lavoro, il sistema degli ammortizzatori sociali e la precarietà. Sui primi due punti il governo Monti si potrà comunque avvalere di due atti importanti del precedente esecutivo Berlusconi: l’accordo tra Stato, Regioni e parti sociali in materia di apprendistato e le intese tra Stato e Regioni in materia di ammortizzatori sociali e di correlate politiche attive per il lavoro. Quanto all’enorme problema del precariato, non si può non rilevare che la panacea di tutti i mali non può ridursi alla ricerca spasmodica della sintesi nel dibattito tutto interno alla sinistra italiana su quale sia la forma migliore di contratto unico.
La pluralità delle forme contrattuali è un'opportunità per rispondere meglio alle esigenze specifiche del mercato del lavoro. Il problema sono gli ammortizzatori sociali e l’introduzione di nuove tutele a favore di chi oggi non le ha, attraverso un processo di riequilibrio con le vecchie tutele, nell’ottica di una riforma organica, sostenibile ed equa dell’attuale sistema. Il ministro Fornero vuole prendere come base di partenza la proposta del senatore Pietro Ichino sul contratto unico (peraltro contestata da parte dello stesso partito in cui è stato eletto Ichino, il Pd, e dalla Cgil)? Bene, potrebbe essere una buona base di partenza per parlare di una vera riforma del mercato del lavoro. Tuttavia lo stesso ministro farebbe bene a non immolarsi sul contratto unico e ad allargare la discussione anche al miglioramento del sistema della pluralità dei contratti che, è bene ricordarlo, ha prodotto risultati positivi fino a prima del consolidamento della crisi economica mondiale.
Il ministro dovrebbe intavolare una discussione, con parità di dignità, sulle proposte in materia di contratto unico e su quelle circa il miglioramento del sistema della pluralità dei contratti, valutando serenamente i pro e i contro. Infine bisogna dire un «no» netto e preciso alla proposta di introdurre un salario minimo che sa tanto di reddito assistenziale, una sorta di contentino per permettere di sopravvivere e continuare a galleggiare nella zona grigia tra lavoro nero, precariato e basse retribuzioni. I giovani non hanno bisogno della paghetta dello Stato ma di entrare a pieno titolo nel mercato del lavoro (con tutti gli onori e gli oneri).

LINK ARTICOLO

giovedì 12 gennaio 2012

Rispettiamo la volontà degli immigrati senza forzature



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
giovedì 12 gennaio 2012

Durante una audizione nella commissione affari costituzionali della Camera, il ministro per la cooperazione internazionale e l’integrazione, Andrea Riccardi, caldeggiando l'adozione di meccanismi che facilitino la concessione della cittadinanza ai minori figli di immigrati che risiedono in Italia, ha sostenuto la necessità di adottare come criterio «non lo ius sanguinis, non lo ius soli, che esporrebbe un paese poroso come il nostro a eventi che non sono nella nostra cultura giuridica e umanistica, ma lo ius culturae», perché «pensarsi italiani ed essere italiani aiuta ad integrarsi» e aspettare il compimento del 18esimo anni può essere tardi perché «mi chiedo se a 18 anni la personalità non è già strutturata». In questo senso Riccardi ha definito come «molto opportuna» la ripresa dei lavori in materia di cittadinanza nella prima commissione di Montecitorio, «per affrontare il tema dei bambini nati in Italia e figli di genitori stranieri». Ma, ha aggiunto, «sono consapevole che il Governo non può che sostenere e appoggiare quello che maturerà all'interno del Parlamento. Una commissione presso il mio ministero sta studiando tutti i buoni progetti presentati in proposito. Faccio presente - ha aggiunto il ministro - cha dall'Unione europea vengono richieste di implementazione sui temi discussi in questa commissione, e che il 2013 sarà l'anno europeo della cittadinanza».
Nell’ambito della stessa occasione ha affermato anche che la cooperazione allo sviluppo «può anche servire a qualificare i migranti» e che il processo di integrazione ha inizio «fin dai Paesi di origine dei migranti».

Prima di parlare delle affermazioni fatte dall’attuale ministro per la cooperazione internazionale e l’integrazione, bisogna fare una piccola ma fondamentale premessa. Andrea Riccardi è il fondatore della Comunità di Sant’Egidio, un movimento laicale dedito da più di 40 anni alla comunicazione del Vangelo e alla carità in Italia, e in altri 73 paesi nel mondo, ed è spesso impegnato a fornire forme di aiuto anche agli immigrati. Quando uno come Riccardi parla di immigrazione, con questa importante storia personale alle spalle e con una esperienza diretta sul campo che in pochi possono vantare, bisogna sicuramente prestare molta attenzione a quanto dice, seppur nel rispetto di una fisiologica differenza di vedute, perché questi pensieri vengono da una persona che ha un bagaglio culturale e di fatti vissuti in materia enorme e, soprattutto, una visione di insieme del tema.

Fatta questa debita premessa, è possibile affermare che, con riferimento a coloro che arrivano in Italia per lavoro, un sano processo di integrazione passa necessariamente per il rafforzamento della cooperazione allo sviluppo (quella reale e proficua e non quella dei soldi sprecati) e che, almeno fino ad ora, per vari motivi, questo strumento è stato utilizzato poco e talvolta male. Quindi ben vengano tutte le iniziative per implementare la cooperazione allo sviluppo, magari anche mirata ai paesi di provenienza della maggior parte degli immigrati in Italia e alle richieste del nostro mercato del lavoro, nell’ambito del miglioramento del processo di integrazione degli stranieri nel nostro Paese. Detto questo, tuttavia, bisogna fissare il punto fermo che la leva dell’immigrazione non debba essere assolutamente usata per reperire manodopera a basso costo, perché questo atto incivile serve solo per arricchire le tasche di pochi e comporta, di contro, una miriade di effetti negativi sugli stessi stranieri (lavoro nero, paghe da fame, ecc.), sugli italiani (concorrenza al ribasso sul salario) e, più in generale, sul nostro sistema di assistenza sociale e sul mercato del lavoro nazionale.

Per quanto riguarda, invece, l’adozione di meccanismi che facilitino la concessione della cittadinanza ai minori figli di immigrati che risiedono in Italia sarebbe opportuno ricordare che se uno straniero si sente italiano, nell’ambito del tema trattato, può acquistare la nostra cittadinanza al compimento dei 18 anni. La ratio della legge in vigore è che il figlio di un immigrato residente in Italia, consapevolmente, di sua sponte e nel momento in cui acquista la capacità di agire, ha la possibilità di diventare un cittadino italiano. Anzi proprio perché a 18 anni una persona ha una personalità abbastanza strutturata è meglio che faccia la scelta a quell’età, senza imposizioni da parte dei genitori o, peggio ancora, dello Stato. Se vogliamo che queste persone aderiscano ai valori che definiscono l'ordine normativo del nostro paese, dobbiamo rispettare innanzitutto la loro volontà di scegliere o no di acquistare la cittadinanza. Se integrarsi vuol dire aderire ai valori, stiamo parlando in primis di un processo tutto personale, che ovviamente investe tutto quello che in sociologia rientra nella definizione dei cosiddetti gruppi primari e secondari, ma che riguarda fondamentalmente la sfera della volontà personale.

La scuola, la famiglia, le istituzioni, magari anche l'ambiente di lavoro sono importanti nel processo di integrazione, ma l'aspetto fondamentale risiede nella volontà dell'individuo di accettare i valori del paese in cui vive. Per questo motivo, proprio perché l’attuale legge rispetta la volontà dell’individuo, le ipotesi di modifica che prevedano l’introduzione di automatismi nella concessione della cittadinanza è meglio che siano accantonate.
Google