venerdì 31 ottobre 2008

I flussi migratori e l'impatto sul welfare state



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

«Gli immigrati regolari in Italia sono tra i 3,5 e i 4 milioni. Lo dice il XVIII rapporto sull'immigrazione della Caritas/Migrantes, facendo notare anche che nel 2007 il numero è cresciuto di diverse centinaia di migliaia rispetto all'anno precedente (dato peraltro confermato dall'Istat ) -. Più di 2 milioni (62,5%) sono al Nord, circa 1 milione (25%) al Centro e quasi mezzo milione (12,5%) al Sud.

Le regioni con il maggior numero di immigrati stranieri sono Lombardia (815.000 residenti e circa 910.000 presenze regolari) e Lazio (391.000 residenti e 423.000 presenze regolari). La presenza straniera è in media di 1 ogni 15 residenti, 1 ogni 15 studenti, quasi 1 ogni 10 lavoratori occupati. Su 1/10 dei matrimoni celebrati in Italia è coinvolto un partner straniero (24.020 matrimoni su 245.992 totali), così come 1/10 delle nuove nascite va attribuito a entrambi i genitori stranieri. Gli immigrati sono una popolazione giovane: l'80% ha meno di 45 anni, mentre sono pochi quelli che superano i 55; 800.000 di loro sono minori, più di 600.000 studenti, più di 450.000 persone nate sul posto. Concorrono per il 9% alla creazione del Pil, coprono abbondantemente le spese sostenute per i servizi e l'assistenza con 3,7 miliardi di euro utilizzati come gettito fiscale (secondo la stima Dossier). Insomma, sono una presenza significativa e producono ricchezza. Si legge nel rapporto: «Tra gli italiani e gli immigrati la connessione sta diventando sempre più stretta, gli uni non possono andare avanti senza gli altri, sebbene accanto a innegabili vantaggi si pongano anche problemi da superare. Conviene soffermarsi su tre aspetti, che attestano l'esistenza di legami sempre più forti e mostrano quanto non sia ragionevole ipotizzare una netta «separazione» tra popolazione italiana e popolazione immigrata». Cadono, semmai ci fosse ancora bisogno di fatti e non chiacchiere campate per aria, tutte quelle accuse scomposte da parte della sinistra che paventava in maniera irresponsabile una sorta di deriva razzista nel nostro Paese.

Si legge ancora nel Rapporto: «Le denunce presentate contro cittadini stranieri da 89.390 nel 2001 sono diventate 130.458 nel 2005, su un totale di 550.990 (ultimo dato Istat disponibile). L'aumento complessivo delle denunce nel quinquennio è stato del 45,9% e nello stesso periodo l'incidenza della criminalità straniera (regolare e non) è passata dal 17,4% al 23,7%, mentre la presenza straniera regolare è raddoppiata (da 1.334.889 a 2.670.514 residenti stranieri). Solitamente si afferma che gli stranieri abbiano un più alto tasso di delinquenza degli italiani, senza tenere conto che la "popolazione straniera" coinvolta nelle denunce include anche gli immigrati irregolari e le persone di passaggio, dai turisti agli uomini d'affari, non quantificabili con esattezza».

Già il Rapporto sulla criminalità dal Ministero dell'Interno segnalava che «nel complesso gli stranieri regolari denunciati sono stati nel 2006 quasi il 6% del totale dei denunciati in Italia. E gli stranieri regolari sono meno del 5% della popolazione residente. (...) Del resto la quota di stranieri regolari denunciati sul totale degli stranieri regolari in Italia si ferma al 2% circa». E' chiaro, quindi, che il nodo da sciogliere in tema di sicurezza e quello sull'ingresso e la permanenza regolare degli stranieri nel nostro paese: gli immigrati sono una ricchezza se vengono rispettate le regole.

Ma quello che l'interessante dossier non dice è che un Paese, che ha a cuore il suo futuro, non può perseguire la politica del porte aperte per tutti e dell'assistenzialismo indiscriminato. Pena la crescita della paura e della diffidenza nei confronti dello straniero, con tutto il carico negativo che questo porta, soprattutto con una crisi economica sul groppone che complica e non poco la situazione. Intervenire sui flussi, in maniera che gli ingressi siano modulati in base alle reali forze di un Paese in tema accoglienza (cosa che non comporta solo la valutazione delle richieste da parte dei datori di lavoro ma anche il tipo di impatto sul nostro walfere state) sembra essere l'unica strada perseguibile se si vuole evitare di alimentare pericolose tensioni sociali.

lunedì 27 ottobre 2008

Sì al lavoro qualificato, no allo sfruttamento dei clandestini



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

Possono arrivare fino a 10.000 dollari le «tariffe» per il trasporto in Italia degli immigrati clandestini da parte delle organizzazioni criminali. A fornire le cifre è stato il sottosegretario all'Interno, Alfredo Mantovano, nel corso del convegno Le schiavitù del XXI secolo: tratta degli esseri umani e lavoro forzato, organizzato dall'Unione forense per la tutela dei diritti dell'uomo. «Solo nell'ultimo tratto, cioè tra il Nord Africa e le coste europee, ad esempio Lampedusa, le tariffe - ha detto Mantovano - si aggirano sui 1.000-1.200 dollari. Dalla Cina si arriva a 8.000, 10.000 dollari». Un imponente giro d'affari, col quale le organizzazioni criminali sfruttano i clandestini, «spesso costretti al lavoro nero, alla prostituzione o all'accattonaggio solo per ripagarsi il debito contratto». «E' un dato acquisito - ha aggiunto il sottosegretario - il collegamento tra la tratta di esseri umani e i flussi di clandestini: i confini sono labili». E in un quadro di lotta a questi fenomeni, anche le ordinanze dei sindaci in tema di sicurezza, se «non sono la bacchetta magica, rappresentano un tassello non secondario, un contributo non privo di risultati concreti, perché impongono agli sfruttatori di cambiare strategia». E' proprio questo il punto. Non ci sono bacchette magiche ed occorrono azioni di buon senso che siano di lungo respiro.

Se c'è immigrazione clandestina vuol dire anche che vi sono una domanda ed una offerta di lavoro nero relativo alle basse qualifiche professionali. Gli immigrati non possono essere visti solo come manodopera a basso costo, utile soltanto per alcuni datori di lavoro senza scrupoli, che se ne servono per rimanere competitivi sul mercato globale e che si disinteressano totalmente dei costi sociali di questa operazione - costi che si riversano sugli stessi immigrati, ma anche sui cittadini. Questa via non può essere perseguita, oltre che per questioni di carattere umano, anche perché essa impoverisce il tessuto produttivo del paese, che invece dovrebbe puntare con decisione sull'innovazione tecnologica e la formazione professionale. Nel nostro paese dobbiamo creare le condizioni per uno sviluppo produttivo sostenibile nel lungo periodo e non riprodurre entro i nostri confini delle enclavi di sfruttamento del lavoro nero che certo non fanno parte del bagaglio culturale di un paese civile. Il governo, sia con il pacchetto sicurezza che con gli interventi per liberare il mercato del lavoro dall'opprimente burocrazia, s'è adoperato in maniera concreta, dimostrando di voler percorrere la strada dello sviluppo virtuoso del nostro sistema produttivo.

Ma anche dall'Europa arrivano notizie positive, che fanno ben sperare per il futuro. I rappresentanti permanenti dei ventisette Stati membri dell'Unione Europea hanno trovato un'intesa sulla blue card, quella che nelle intenzioni della Commissione Ue dovrebbe essere la risposta alla green card Usa per attirare lavoratori stranieri altamente qualificati nel Vecchio Continente. La direttiva dovrebbe avere il via libera finale nella riunione dei ministri degli Interni Ue di novembre.

Il segnale che viene dal governo e dall'Europa è molto positivo: c'è l'intenzione politica di voler intraprendere la via del lavoro qualificato come strumento per rispondere alle sfide dettate dal mercato globale in tema di competitività, anziché quella dello sfruttamento della manodopera a basso costo (e spesso e volentieri in nero) dei cittadini-lavoratori e degli extracomunitari. Il lavoro qualificato rappresenta il modello ideale per aumentare la produttività dei lavoratori, perché punta sullo sviluppo delle capacità professionali, attraverso il continuo aggiornamento delle proprie conoscenze, su un giusto salario, sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, su una corretta informazione dei lavoratori sui pericoli del proprio impiego.

lunedì 13 ottobre 2008

Aumento record degli stranieri sotto il governo di centrosinistra



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

I cittadini stranieri residenti in Italia al 1° gennaio 2008 sono 3.432.651; rispetto al 1° gennaio 2007 sono aumentati di 493.729 unità (+16,8%). Si tratta dell'incremento più elevato mai registrato nel corso della storia dell'immigrazione nel nostro Paese, da imputare al forte aumento degli immigrati di cittadinanza rumena che sono cresciuti nell'ultimo anno di 283.078 unità (+82,7%). Lo ha reso noto mercoledì scorso l'Istat. Complessivamente i paesi europei contribuiscono con un aumento di 391.000 persone (79,3% dell'incremento totale). In particolare, l'incremento registrato nel corso del 2007 è dovuto ai «Paesi Ue di nuova adesione» i cui residenti sono aumentati di 319.000 unità. Sono i cittadini rumeni i principali responsabili di questo incremento, essendo passati, nel corso del 2007, da 342.000 a 625.000 residenti, arrivando quasi a raddoppiare la loro presenza nel nostro paese. Il restante 20,7 % dell'incremento, pari a 102.000 persone, è dovuto invece all'aumento dei cittadini provenienti dai paesi extra-europei.

Anche in Italia sono sempre più numerosi gli stranieri che diventano italiani «per acquisizione di cittadinanza». In base ai dati del Ministero dell'Interno e della rilevazione sulla popolazione straniera residente dell'Istat, si stima che fino al 2007 un totale di 261.000 cittadini stranieri hanno ottenuto la cittadinanza italiana (ad esempio in Francia nel solo biennio 2005-2006 sono state concesse complessivamente 303.000 cittadinanze). Il ministro dell'Interno Roberto Maroni, intervenendo giovedì in Aula alla Camera per le comunicazioni urgenti del governo sugli ultimi episodi di violenza a carico di cittadini stranieri, ha reso noto che: «Nel 2003 erano 27.093 nel 2007 sono state 46.518». Secondo l'Istat, la maggior parte delle acquisizioni avviene ancora oggi per matrimonio mentre sono limitate, rispetto alla platea dei potenziali beneficiari (circa 630.000 persone), quelle per naturalizzazione (che prevede il requisito essenziale della residenza decennale). In particolare, ha sottolineato Maroni, nel periodo 2003-2007 «c'è stato un 17% in più di richieste di cittadinanza per matrimonio e un 173% in più di richieste per motivi di residenza». Nel 2003 le richieste accolte sono state 13.443, nel 2007 38.466 con «un incremento del 171% di conferimenti per motivi di matrimonio e del 195% per motivi di residenza». I dati, secondo il ministro, sottolineano che «l'Italia non è un Paese razzista». Il ministro ha difeso anche l'operato del governo in materia di politiche d'integrazione e quello delle forze dell'ordine nel controllo delle attività criminali. «L'analisi dei dati statistici, dei comportamenti delle forze dell'ordine, delle politiche d'integrazione - ha detto Maroni - attesta che l'Italia manifesta un'elevata capacità di accoglienza degli immigrati: alcuni episodi di violenza che si sono verificati negli ultimi tempi restano del tutto marginali e sono socialmente rifiutati». «Al contrario di quanto affermano taluni in maniera strumentale e non documentata, l'esame dei dati in possesso del Ministero dell'Interno relativi agli ultimi 4 anni - ha aggiunto - dimostra per il 2008 un'inversione di tendenza del numero degli atti di violenza ispirati alla discriminazione e all'intolleranza. Numero di episodi che invece nel triennio 2005-2007 aveva registrato un progressivo aumento».

Quando la sinistra strumentalizza a fini politici alcuni brutti e isolati episodi di violenza contro gli stranieri residenti nel nostro Paese, paventando una deriva razzista ed attribuendo la colpa di tutto questo alle politiche del governo, non solo palesa la mancanza di idee alternative a quelle del centrodestra ma, soprattutto, arreca un danno alla pacifica convivenza civile perché cerca in tutti i modi di alzare il livello dello scontro. Non hanno ancora capito che quello che serve sono i pompieri intelligenti e non gli incendiari barricaderi anche perché, con 30.000 clandestini arrivati nel nostro Paese solo nel 2008, serve un giusto equilibrio tra rigore e accoglienza se non si vuole stimolare irresponsabilmente il clima di tensione nel Paese. La politica del governo di centrosinistra, in quest'ottica, rischiava di mettere realmente fuoco alle polveri con il lassismo dimostrato sul fronte della sicurezza ed il parallelo attivismo nel cercare in tutti i modi di aprire in maniera indiscriminata le nostre frontiere. Quindi se ora il Governo di centrodestra agisce con rigore in materia è solo perché chi c'era prima si è dimostrato lassista.

giovedì 9 ottobre 2008

Lavoro. Dal Pd accuse grottesche al governo



di Antonio Maglietta – 9 ottobre 2008
maglietta@ragionpolitica.it

Secondo l’ex ministro del lavoro del governo Prodi, Cesare Damiano, il governo starebbe mettendo in atto ''una vera e propria controriforma'' contro il mondo del lavoro. Damiano e Giuseppe Berretta, in una conferenza stampa svoltasi martedì a Montecitorio, hanno puntato il dito in particolare contro il ddl sul lavoro del governo collegato alla Finanziaria (A.C. 1441 – quater – A) che modifica il processo del lavoro, e che, secondo i due esponenti del Pd, andrebbe a danno dei lavoratori ''che dovranno affrontare una procedura molto più complessa e farraginosa'' per far valere i propri diritti. ''E' poi in atto, sempre da parte del governo - prosegue Berretta - il tentativo di limitare i poteri del giudice. Si toglie anche il tentativo di conciliazione obbligatorio e si favorirà il ricorso all'arbitrato che è una giustizia privata a pagamento''. Bene hanno fatto Stefano Saglia e Giuliano Cazzola, rispettivamente presidente e vicepresidente della commissione lavoro della Camera (Cazzola è anche il relatore del provvedimento), a ribattere alle accuse grottesche degli esponenti del Partito Democratico: ''i provvedimenti del governo non hanno ridotto le tutele per i lavoratori, ma prevedono misure di semplificazione e di deregolazione del rapporto di lavoro, liberando le imprese e i lavoratori da vincoli ed adempimenti burocratici e formali predisposti dal precedente governo, in conseguenza di un pregiudizio nei confronti del sistema produttivo''.
Tralasciando la falsità secondo cui si toglie anche il tentativo obbligatorio di conciliazione, visto che all’art. 66, comma 1, del testo uscito dalla commissione lavoro è scritto testualmente: “Ferma restando l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione” (A.C. 1441-quater-A; pag. 32), è paradossale che gli esponenti del Pd attacchino a testa bassa l’arbitrato, un istituto giuridico che offre oggettivi vantaggi in termini di speditezza (con regole chiare e semplici) nella risoluzione delle controversie e che permette di evitare il ricorso al giudice del lavoro, con conseguente risparmio di tempo e soldi. In pratica il Governo, con il ddl sul lavoro collegato alla Finanziaria, è intervenuto per allargare le maglie della conciliazione e dell’arbitrato, riformare alcuni poteri dei giudici nel processo del lavoro, con l’obiettivo di ridurre il contenzioso giudiziale e dare così piena e veloce soddisfazione alle parti, soprattutto ai lavoratori che spesso vedevano deluse le loro aspettative a causa delle lungaggini processuali (senza contare il denaro speso). Si parla spesso, poi, del gravoso problema dell’appesantimento della macchina giudiziaria civile ed ora che il governo ha cercato di dare ai lavoratori degli strumenti (facoltativi) alternativi al ricorso al tribunale, per risolvere le loro controversie lavorative, il Pd grida allo scandalo? E di quale giustizia a pagamento parla Berretta, facendo intendere che il ricorso alla conciliazione e all’arbitrato sarebbe roba da ricchi? Vediamo per grandi linee di cosa si tratta e come funziona. Le commissione di conciliazione è istituita presso la direzione provinciale del lavoro. E’ composta dal direttore dell’ufficio stesso o da un suo delegato o da un magistrato collocato a riposo, in qualità di presidente, da quattro rappresentanti effettivi e da quattro supplenti dei datori di lavoro e da quattro rappresentanti effettivi e da quattro supplenti dei lavoratori, designati dalle rispettive organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative. La richiesta del tentativo di conciliazione, sottoscritta dall’istante, deve essere consegnata o spedita mediante raccomandata con avviso di ricevimento. Copia della richiesta del tentativo di conciliazione deve essere consegnata o spedita con raccomandata con ricevuta di ritorno a cura della stessa parte istante alla controparte. Dinanzi alla commissione il lavoratore può farsi rappresentare o assistere anche da un’organizzazione cui aderisce o conferisce mandato. In qualunque fase del tentativo di conciliazione, o al suo termine in caso di mancata riuscita, le parti possono indicare la soluzione anche parziale sulla quale concordano, riconoscendo, quando è possibile, il credito che spetta al lavoratore, e possono accordarsi per la risoluzione della lite, affidando alla commissione di conciliazione il mandato a risolvere in via arbitrale la controversia. Il lodo emanato a conclusione dell’arbitrato, sottoscritto dagli arbitri e autenticato, produce tra le parti gli effetti di cui all’articolo 1372 e all’articolo 2113, quarto comma, del codice civile e ha efficacia di titolo esecutivo ai sensi dell’articolo 474 del codice a seguito del provvedimento del giudice su istanza della parte interessata ai sensi dell’articolo 825.
Per Berretta e Damiano è meglio ricorrere al giudice del lavoro, e perdersi in lungaggini processuali e soldi spesi per gli avvocati, oppure tentare la via della conciliazione e dell’arbitrato ed avere tempi certi per la risoluzione della controversia al costo di una raccomandata con ricevuta di ritorno?
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