mercoledì 26 novembre 2008

L'International Migration Outlook 2008



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

lunedì 24 novembre 2008

È stato presentato lunedì mattina presso la sede del Cnel, a Roma, il rapporto Ocse-Sopemi International migration outlook. Esso rileva come si sia ormai consolidata la presenza in Italia degli immigrati: 3.432.651 persone e 1.684.906 famiglie con almeno un componente straniero, pari al 6,9% del totale. Dal rapporto emerge in primo luogo la crescente stabilizzazione che caratterizza la presenza immigrata: di pari passo con l'aumento della popolazione residente (+246,1% negli ultimi 10 anni) e regolarmente soggiornante (+144,9%), nell'arco di due lustri sono triplicati i matrimoni con almeno un coniuge straniero, che sono 34.396, pari al 14% del totale, ed è cresciuto il numero delle nascite di figli da genitori stranieri, che nell'ultimo anno sono state oltre 64.000, l'11,4% del totale. Gli alunni stranieri iscritti nell'anno scolastico 2007/08 erano 574.133, il 6,4% degli studenti. È cresciuto del 136% dal 2001 ad oggi il numero dei lavoratori stranieri, che al 2007 sono 1.502.419. Spia di un processo lento ma virtuoso di integrazione economica è anche la crescita delle imprese costituite da immigrati, che nel 2008 sono oltre 165 mila.

Dal rapporto emergono anche elementi di criticità, come ad esempio la tendenza sempre più evidente ad accostare l'immigrazione alla sicurezza, sino al diffondersi nella società di un razzismo «silente». Indicativo, a questo proposito, secondo il rapporto, è che il 30% di chi vive nei Comuni con oltre 10 mila abitanti consideri l'immigrazione un problema di ordine pubblico, mentre il 10,8% arriva a considerarla una minaccia.

Ma perché questi dati? Gli italiani sono diventati razzisti? Certamente no. Gli ingressi degli immigrati sono legati oggi solo ai posti di lavoro disponibili, mentre non vengono presi realmente in considerazione altri aspetti fondamentali come l'impatto sul welfare State (assistenza all'anzianità, disoccupazione, assistenza sanitaria, istruzione), quello sulle politiche abitative e l'andamento dell'economia nostrana nel medio-lungo periodo. In Italia, come nel resto del mondo occidentale, la leva dell'immigrazione viene spesso usata dal sistema produttivo solo per rispondere in maniera impropria alle sfide del mercato globale e cioè attraverso i bassi salari pagati ai lavoratori stranieri con basse qualifiche professionali. L'International Migration Outlook 2008 segnala che, in materia di immigrazione, l'Italia «resta in gran parte orientata verso la bassa qualifica professionale», ma anche che in tutto il mondo gli stranieri vengono sottopagati rispetto ai lavoratori-cittadini.

Questa visione limitata determina una situazione nella quale il lavoratore immigrato (regolare o meno) viene considerato solo come manodopera e non come una persona che, alla pari del cittadino, vive nella società e che, quindi, ha bisogno di un appartamento, di servizi, di mangiare, in molti casi di mandare i soldi alla sua famiglia nel paese di origine, ecc... I benefici economici di tale deprecabile operazione vanno esclusivamente ai pochi che sfruttano questa situazione nel sistema produttivo, mentre i costi economici e sociali si riversano tutti sulle spalle dello Stato e, quindi, di tutti i cittadini. Se a questo aggiungiamo che la convivenza è qualcosa di per sé difficile e che, anche se l'immigrato non lavora, deve pur vivere, allora riusciremo a dare una qualche risposta razionale ai dati del Rapporto Ocse-Sopemi.

Quanto al legame tra immigrazione e criminalità, nel Rapporto sulla criminalità in Italia, presentato il 20 giugno dello scorso anno dal ministro dell'Interno dell'ultimo governo di centrosinistra, Giuliano Amato, si legge chiaramente che «negli ultimi vent'anni è cresciuto sensibilmente il contributo fornito dagli stranieri di determinate nazionalità alla diffusione di alcuni reati, in particolare quelli contro la proprietà (i furti e le rapine), i reati violenti, i reati connessi ai mercati illeciti della droga e della prostituzione. Tale contributo appare sproporzionato per eccesso rispetto alla quota di stranieri residenti nel nostro paese, anche se si tiene conto della presenza di stranieri non documentata». E ancora: «È importante sottolineare che la netta maggioranza di questi reati viene commessa da stranieri irregolari, mentre quelli regolari hanno una delittuosità non molto dissimile dalla popolazione italiana... Nel complesso gli stranieri regolari denunciati sono stati nel 2006 quasi il 6% del totale dei denunciati in Italia». E' chiaro, quindi, che il problema del rapporto tra immigrazione e criminalità si riconduce in gran parte al contrasto del fenomeno dell'immigrazione clandestina (stranieri entrati in Italia senza regolare visto di ingresso) e, soprattutto, di quella irregolare (stranieri che hanno perduto i requisiti necessari per la permanenza sul territorio nazionale, di cui erano però in possesso all'ingresso in Italia).

I timori degli italiani, come quelli dei cittadini di tutti i paesi occidentali, non sono quindi frutto di un becero razzismo (neanche «silente», come viene scritto nel Rapporto Ocse-Sopemi), ma rappresentano una risposta spontanea della società all'approccio sbagliato delle istituzioni mondiali rispetto al fenomeno dell'immigrazione. E questo dato trova conforto nella crescente stabilizzazione, nel nostro paese, della componente straniera, che certo non metterebbe radici in un paese tendenzialmente ostile alla sua presenza. Liquidare tutto come razzismo sarebbe troppo semplice, anche perché guardando a quello che succede in tutto il mondo, dagli Stati Uniti alla Francia, dall'Australia alla Spagna, dalla Francia all'Inghilterra, dovremmo arrivare all'assurda conclusione che i cittadini di tutti questi paesi ed i loro governi sono razzisti.

mercoledì 19 novembre 2008

L’Ue deve incentivare lo sviluppo dei paesi di origine degli immigrati



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

martedì 18 novembre 2008

L'Unione europea aiuterà l'Africa a realizzare una sua rete di trasporto trans-africana per contribuire alla stabilità del Continente e frenare l'immigrazione verso il Nord. Lo ha annunciato il vice-presidente della Commissione europea e commissario europeo ai Trasporti Antonio Tajani.

«L'Europa ha interesse a lavorare per la stabilità dell'Africa» - ha spiegato Tajani ai giornalisti a Tunisi, riferendo di alcuni colloqui in vista di un accordo con la Commissione dell'Ua (Unione africana). Tajani, intervenuto a margine di una riunione ministeriale euro-maghrebina sul trasporto sulle rive occidentali del Mediterraneo, ha annunciato la partenza di una prima missione di esperti europei giovedì prossimo ad Addis Abeba. «Non si può risolvere la questione dell'immigrazione solamente con la polizia, serve anche lo sviluppo e la stabilità dell'Africa», ha dichiarato, assegnando un ruolo importante alla Banca europea per gli investimenti e alla Banca africana dello sviluppo. «Ci sono milioni di persone che spingono verso Nord e anche gli stessi paesi del Nord-Africa hanno interesse a risolvere questo problema», ha proseguito, parlando di un «impegno politico» della Commissione europea. Questo impegno si tradurrà, secondo Tajani, in un piano di tre fasi, che comincerà con il trasferimento di conoscenze su richiesta dell'Ua, seguito da un'assistenza tecnica e alla mobilitazione di fondi per dei progetti concreti.

Finalmente l'Europa si muove. I problemi relativi all'immigrazione non possono risolversi solo con misure rivolte alla regolamentazione interna del fenomeno (ingresso, permanenza, naturalizzazione, espulsione) perché significherebbe non prendere in considerazione una questione fondamentale, e cioè che i processi migratori rispondono a logiche transnazionali. Nell'analisi delle motivazioni di chi emigra, bisogna considerare il fattore economico come il principale e, quindi, se si valuta il fatto che paesi confinanti con il sud dell'Europa vivono nella povertà, sarà automatico prevedere un flusso continuo dei cittadini di quelle realtà verso i nostri territori. Un singolo Stato da solo può fare poco laddove, invece, l'Europa unita può intervenire con maggiore efficacia. Il Libro Verde «Sull'approccio dell'Unione Europea alla gestione della migrazione economica», nel segnalare anche il problema della fuga dei cervelli dai paesi di origine dei flussi, aveva anche indicato alcuni provvedimenti concreti da adottare: fornire informazioni aggiornate sulle condizioni di ingresso e di soggiorno nell'Unione europea; fondare centri di assunzione e formazione nei paesi d'origine per le qualifiche richieste a livello Ue, nonché per la formazione culturale e linguistica; creare banche dati per qualifica/occupazione/settore (portafoglio di competenze) dei potenziali migranti; agevolare il trasferimento delle rimesse; offrire compensazioni ai paesi terzi per i costi dell'istruzione di coloro che lasciano il paese per lavorare nell'Ue.

Anche e soprattutto per questi motivi non si può accettare la tesi del segretario della Cgil, Guglielmo Epifani, che, spostando il tema sul piano ideologico, chiede in maniera semplicistica la sospensione della legge Bossi-Fini per due anni per fronteggiare e cercare di limitare gli effetti della crisi economica che ricadranno sui lavoratori immigrati. Quello chiesto da Epifani è un intervento sbagliato, perché il vuoto normativo genererebbe il caos, e non proiettato sul lungo periodo, perché non tiene conto della complessità del fenomeno. Inoltre, sarebbe opportuno ricordare quello che dice la legge Bossi-Fini sul punto toccato dal leader della Cgil: «La perdita del posto di lavoro non costituisce motivo di revoca del permesso di soggiorno al lavoratore extracomunitario ed ai suoi familiari legalmente soggiornanti. Il lavoratore straniero in possesso del permesso di soggiorno per lavoro subordinato che perde il posto di lavoro, anche per dimissioni, può essere iscritto nelle liste di collocamento per il periodo di residua validità del permesso di soggiorno, e comunque, salvo che si tratti di permesso di soggiorno per lavoro stagionale, per un periodo non inferiore a sei mesi. Il regolamento di attuazione stabilisce le modalità di comunicazione ai centri per l'impiego, anche ai fini dell'iscrizione del lavoratore straniero nelle liste di collocamento con priorità rispetto a nuovi lavoratori extracomunitari» (art. 18, comma 11, legge n. 189 del 2002).

Il fenomeno, quindi, deve essere affrontato nella sua complessità e non solo con lo sguardo rivolto al semplice dato nazionale perché in questo modo verrebbero poste solo le basi di un sicuro fallimento con risvolti tutti negativi.

giovedì 13 novembre 2008

Stabilizzazioni nel pubblico impiego. Le novità di Brunetta



di Antonio Maglietta - 13 novembre 2008
maglietta@ragionpolitica.it

Secondo l'ultimo conto annuale della Ragioneria Generale dello Stato, relativo al 2007, il numero dei dipendenti pubblici in Italia è pari ad un totale di 3.572.746. Rispetto agli anni precedenti si registra un calo sul totale degli impiegati pubblici: -0,72% rispetto al 2005 e -1,19% rispetto al 2006. Diminuiscono i lavoratori con contratto a tempo indeterminato (-0,68% rispetto al 2005 e -0,35% rispetto al 2006) e di contro aumentano quelli con contratto flessibile (116.804 nel 2007: +7,81% rispetto al 2005 e + 2,48% rispetto al 2006). Il personale stabilizzato nel 2007 (in base alla Finanziaria del governo Prodi), che nel conto annuale rientra nella voce «personale a tempo indeterminato» ed in parte in quella «lavoratori dipendenti con contratti flessibili», è pari a 10.982 unità. Poco rispetto alle enormi aspettative alimentate irresponsabilmente dalla propaganda di sinistra che - è bene ricordare - voleva far credere all'opinione pubblica che l'intervento normativo, come una bacchetta magica, avrebbe posto fine al precariato nel pubblico impiego.

Oggi, purtroppo, quella stessa propaganda attacca l'ottimo ministro Brunetta, reo di aver previsto solamente un anticipo di sei mesi del termine entro il quale procedere con le stabilizzazioni; termine che è stato posto proprio dal governo di centrosinistra. «Il ministro Brunetta nega il licenziamento di 60 mila lavoratori, definendo la nostra "cattiva e fuorviante informazione", ma il Ddl 1167, ora in discussione al Senato, è chiaro: le amministrazioni pubbliche, dal prossimo 30 giugno, dovranno fare a meno di 60 mila lavoratori precari», ha dichiarato il responsabile del dipartimento dei Settori Pubblici della Cgil Nazionale, Michele Gentile. Fa bene Brunetta a definirla «cattiva e fuorviante informazione». Infatti il predecessore di Brunetta, l'ex ministro Nicolais, nella direttiva n. 5/2008, aveva prima candidamente ammesso il pasticcio fatto con la questione delle stabilizzazioni («Le disposizioni speciali in materia di "stabilizzazione" dettate dalla legge 26 dicembre 2006, n. 296 - legge finanziaria 2007 - derogando al principio costituzionale del concorso pubblico come modalità di accesso all'impiego nelle pubbliche amministrazioni, hanno segnato significativamente la normativa sul reclutamento ordinario del personale nelle amministrazioni pubbliche») e poi, a pagina 4, aveva chiarito che «la normativa in argomento ha carattere transitorio ed eccezionale». E' stato il governo di centrosinistra, con le sue Finanziarie, a circoscrivere agli anni 2008 e 2009 la possibilità di ammettere alle procedure di stabilizzazione il personale in possesso dei requisiti prescritti dalla legge. Senza contare, poi, che lo stesso governo ha coperto l'intervento con una somma risibile e comunque inadeguata rispetto all'impegno preso.

Cosa ha fatto, invece, il ministro Brunetta? Il disegno di legge citato dall'esponente della Cgil, grazie ad alcuni emendamenti inseriti nel passaggio del testo alla commissione Lavoro della Camera, prevede l'avvio di un monitoraggio capillare su tutte le tipologie di contratto a tempo determinato vigenti e le relative modalità di assunzione adottate dalle singole amministrazioni, nonché sul numero di vincitori di concorso in attesa di assunzione. Le amministrazioni, inoltre, dovranno comunicare al Dipartimento della Funzione Pubblica tali dati entro il mese di maggio (art. 7, comma 7 del ddl 1167 in discussione al Senato). Una eccellente disposizione, che va a sanare un grave errore commesso dal governo di centrosinistra, che aveva fatto la norma senza sapere nel dettaglio il numero dei possibili beneficiari (il personale con i requisiti di legge) e di coloro i quali rischiavano di essere scavalcati ed ulteriormente penalizzati (i vincitori di concorso in attesa di assunzione che, grazie ad un emendamento dell'onorevole Simone Baldelli inserito nel passaggio del testo in questione alla Camera, avranno priorità per l'assunzione rispetto al personale assunto a tempo determinato). Infatti, nel corso dell'audizione del 30 maggio 2007, l'allora ministro Nicolais, nell'ambito dei lavori della XI Commissione della Camera «Sulle cause e le dimensioni del precariato nel mondo del lavoro», a precisa domanda, aveva risposto: «Il numero è difficile da definire, innanzitutto perché non tutti intendono il precariato allo stesso modo: molti si considerano precari all'interno della pubblica amministrazione anche se, ad esempio, hanno avuto un contratto a progetto di un anno».

Insomma, il centrosinistra, con le sue norme pasticciate, ha solo irresponsabilmente stabilizzato le aspettative dei precari, e non il loro posto di lavoro, e creato il caos nelle modalità di accesso al pubblico impiego, calpestando, tra le altre cose, su sua stessa indiretta ammissione certificata dalla citata direttiva n. 5/2008, l'articolo 97 della Costituzione, il quale recita chiaramente: «Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge».

mercoledì 12 novembre 2008

In ricordo dei caduti di Nassiriya

ON. GIANFRANCO PAGLIA (intervento nell’Aula della Camera dei Deputati a nome del gruppo del Popolo della Libertà ): Signor Presidente, ricordare non è mai facile, è molto più semplice dimenticare. Noi tutti, però, non possiamo dimenticare, abbiamo il dovere di ricordare chi giura fedeltà alla patria. Tale giuramento è sinonimo di lealtà, di onore, di sacrificio e di amor di patria e noi tutti abbiamo il dovere di ricordare chi, in quel giuramento, crede ed è pronto a sacrificare la propria vita, sempre e comunque. Per fare ciò bisogna essere uniti nel ricordo perché, a mio avviso, è solo grazie al nostro ricordo che la memoria dei nostri caduti rimarrà sempre viva in tutti noi. Abbiamo quindi un dovere che è quello di non dimenticare.
È importante dimostrarci uniti quando si parla di Forze armate anche perché i nostri soldati, indipendentemente dalle rispettive ideologie, fanno il proprio dovere, sempre e comunque, e noi dobbiamo dimostrarci uniti per contrastare la convinzione di chi crede che mettendo bombe, facendo saltare in aria i nostri soldati ci possa indebolire. Dobbiamo dimostrare invece, che siamo uniti come lo sono i nostri soldati che fanno il proprio dovere, sempre e comunque, fino all'estremo sacrificio.
Allora, signor Presidente rivolgo una richiesta a lei personalmente. Ieri, qualche collega della maggioranza ha pensato di proporre al Governo di istituire il 12 novembre una giornata per il ricordo, non solo per i caduti in Nassirya, ma per tutti. Ritengo che questa richiesta non debba partire, né dalla maggioranza né dall'opposizione ma da lei, signor Presidente della Camera, terza carica dello Stato anche perché la conosco, conosco la sua integrità e so che lei crede a certi valori.
Abbiamo il dovere di fare tutto ciò, perché ritengo che chi parte in missione con un ideale leale, pulito, debba farlo con la consapevolezza che, rientrando in Italia in una bara avvolta dal tricolore, non debba mai essere dimenticato, mai.

lunedì 10 novembre 2008

Sindacati e immigrazione



di Antonio Maglietta - 8 novembre 2008
maglietta@ragionpolitica.it

«La legge Bossi-Fini è moralmente e socialmente una schifezza». Così si è espresso mercoledì il leader della Cgil, Guglielmo Epifani, a Roma, dal palco dell'assemblea dei quadri e dei delegati sull'attuale legge sull'immigrazione. «Chi ti ha aiutato in anni buoni paga due volte per la crisi perché perde il lavoro ed è costretto a tornare a casa», ha aggiunto, ribadendo la richiesta del sindacato di «sospendere per due anni, per il tempo necessario a che passi la bufera, la legge Bossi-Fini». Insomma, Epifani ha insistito con la sua proposta e l'ha inquadrata in un pacchetto di richieste da fare al governo: riduzione del prelievo fiscale sui salari e sulle pensioni nel prossimo biennio, immediata agevolazione nella ricontrattazione dei mutui, utilizzo delle risorse destinate alla detassazione degli straordinari sul fronte del lavoro precario ed infine, appunto, congelamento della legge Bossi-Fini per due anni.

Ma perché tutta questa agitazione sull'immigrazione? Secondo il Dossier Statistico Immigrazione Caritas-Migrantes 2008 gli stranieri iscritti ai sindacati confederali sono 814.311, ossia il 5% del totale degli iscritti ed il 12% degli iscritti attivi (senza cioè tenere conto dei pensionati). Nel 2003 i sindacati confederali contavano 334.000 iscritti stranieri (131.000 la Cgil, 128.000 la Cisl e 75.000 la Uil) e questo vuol dire che nell'arco di soli 5 anni l'incidenza degli stranieri sul totale degli iscritti è più che raddoppiata.

Quanti soldi portano gli stranieri nelle casse della «Triplice»? Il tema è scivoloso: non può essere data una informazione certa visto che, come tutti sappiamo, i sindacati non sono tenuti a rendere pubblici i propri bilanci. Tuttavia, contando trattenute sindacali e attività di Caaf e Patronati rimborsate dallo Stato, secondo una inchiesta fatta da Stranieri in Italia (importante ed autorevole casa editrice specializzata in prodotti e servizi editoriali per gli stranieri residenti in Italia), nel 2005 i sindacati confederali avrebbero incassato circa 55 milioni di euro grazie agli iscritti immigrati, contando però su una platea di 334.000 persone. Visto che, secondo gli ultimi dati ufficiali, le iscrizioni degli stranieri alla «Triplice» sono più che raddoppiate rispetto a quelle su cui si basava il calcolo fatto da Stranieri in Italia, il flusso di denaro oggi dovrebbe superare ampiamente i 100 milioni di euro all'anno. C'è da segnalare, tuttavia, che la citata inchiesta del 2005 portò ad una replica dei sindacati e ad una controreplica di Stranieri in Italia.

Ma non c'è, ovviamente, solo il tema degli introiti a giustificare il sempre maggior peso delle tematiche relative all'immigrazione nell'ambito delle iniziative sindacali. Un'altra questione di fondo è data dal fatto che gli immigrati potrebbero rappresentare per i confederali, vista la loro presenza sempre più massiccia nella società italiana e la loro crescente incidenza negli iscritti ai sindacati, una risorsa su cui investire per le future lotte di piazza, per continuare ad avere visibilità e potere di incidere sulle dinamiche relative allo sviluppo del paese. Non a caso, in uno studio redatto da Franco Bentivogli e Maria Immacolata Macioti, pubblicato sul sito della Uil, si segnalava che «naturalmente questa accresciuta presenza pone anche problemi nuovi al sindacato, sia sul piano organizzativo, per quanto riguarda le risorse, sia su quello politico, per quanto riguarda la composizione delle rappresentanze e le modalità di formazione della decisioni».

mercoledì 5 novembre 2008

Sinistra di nuovo all'attacco della Bossi-Fini



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

In una intervista rilasciata al Corriere della Sera il leader della Cgil, Guglielmo Epifani, ha proposto il congelamento della Bossi-Fini per due anni: «Nessuno si chiede che cosa succede ai lavoratori stranieri nel momento in cui perdono il lavoro. Sono quattro milioni, sono stati assunti per fare lavori che nessuno avrebbe fatto, e producono il 10% del reddito nazionale. In base alle norme attuali perderebbero, insieme al lavoro, anche il titolo per restare in Italia. Siccome sono persone che hanno lavorato, e lavorato bene, non avrebbe alcun senso mandarle via per poi richiamarle quando l'economia dovesse riprendere. Né per loro né per il nostro paese. Allora la Cgil proporrà di sospendere l'efficacia della legge Bossi-Fini per due anni, allo scopo di consentire a queste persone di trovare una nuova occupazione». Quanti si troverebbero in questa condizione? «Sicuramente decine di migliaia».

Innanzitutto Epifani sbaglia quando chiede a testa bassa una sospensione della legge e non alcune modifiche migliorative. Parte con il piede sbagliato perché il suo intento sembra più quello di voler attaccare l'intero impianto normativo in tema di immigrazione e non, invece, rilevare alcune sue criticità per arrivare ad un miglioramento del testo. Pensiamo al caos prodotto dal vuoto normativo e soprattutto al messaggio sbagliato che arriverebbe fuori dai nostri confini qualora la richiesta di Epifani venisse accolta. Ricordiamo, a riguardo, che già la Corte di Cassazione aveva di recente rimarcato l'esigenza di evitare che l'Italia fosse considerata il «ventre molle dell'immigrazione clandestina» e di tutelare, con la linea dura alle nostre frontiere, anche «gli altri Stati dell'Unione Europea» (Corte di Cassazione, Sezione I Penale, Sentenza 8 febbraio 2008, n. 6398).

Guardiamo poi al merito della questione. L'impianto della Bossi-Fini si regge sul collegamento tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro. Lo scorso anno, nel corso di una audizione presso la Commissione agricoltura della Camera, l'allora ministro del Lavoro del governo di centrosinistra, Cesare Damiano, aveva criticato la legge proprio su questo punto: «Sarebbe assai utile, a mio avviso, una revisione della legge Bossi-Fini per quanto attiene al troppo stretto legame tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro. Ciò infatti non riduce ma anzi aumenta l'immigrazione clandestina, facendo apparire come irregolare anche chi, sostanzialmente, tale non è... Lo stesso "decreto flussi" si è dimostrato un sistema troppo vincolante».

Tuttavia è dai tempi del Consiglio Europeo di Tampere dell'ottobre 1999 che si mira a lanciare in ambito europeo una discussione approfondita proprio sull'immigrazione per cause economiche. Nel Libro Verde della Commissione Europea del 2005 «Sull'approccio dell'Unione Europea alla gestione della migrazione economica» si segnalava che «la Commissione ritiene che l'ammissione dei migranti per motivi economici sia la pietra miliare della politica in materia di immigrazione e che sia pertanto necessario affrontarla a livello europeo nel quadro di una progressiva evoluzione di una coerente politica comunitaria dell'immigrazione». Ma, soprattutto, si prendeva atto che «nella maggioranza degli Stati membri i cittadini di paesi terzi devono essere già in possesso di un permesso di lavoro prima che la loro domanda di permesso di soggiorno possa essere esaminata». Questo vuol dire che il venir meno di quel legame non farebbe altro che allontanarci dall'Europa. E quale sarebbe poi l'alternativa? L'impianto proposto dal centrosinistra con il disegno di legge a firma Amato-Ferrero, presentato nella scorsa legislatura, con l'istituto della «sponsorizzazione» (ossia garanti pubblici e privati per gli immigrati che vengono sul nostro territorio per motivi di lavoro pur non avendo un contratto) e quello dell'«autosponsorizzazione» (immigrati che vengono in Italia per motivi di lavoro senza avere un contratto ma in possesso di adeguate risorse finanziarie)? In pratica, l'alternativa alla legge Bossi-Fini sarebbe o il caos prodotto dal vuoto normativo oppure due strumenti giuridici in grado di trasformare involontariamente l'Italia nella più grande lavanderia mondiale del denaro sporco e nella direttrice preferita per la tratta degli esseri umani.

Insomma, una cosa è cercare di trovare nuove forme per meglio integrare chi già lavora in Italia, evitando che la leva dell'immigrazione venga sfruttata per un cinico gioco al ribasso dei salari e della qualità del lavoro nel mercato, e tutt'altra è parlare di sospensione della legge.
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