martedì 29 giugno 2010

Mito e realtà delle nazionali multietniche



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

martedì 29 giugno 2010

I buoni risultati ai mondiali in Sud Africa della nazionale tedesca, infarcita di diversi giocatori naturalizzati, hanno fatto dire a qualche commentatore che la Germania sarebbe un modello da seguire in tema di integrazione nel calcio e nella vita di tutti i giorni. Siamo al dejà vu, visto che già la Francia multietnica, campione del mondo nel 1998 e d'Europa nel 2000 con la propria nazionale di calcio, fu elevata subito a modello d'integrazione. Poi sono arrivate, nel 2005, le rivolte nelle banlieues, i fischi dei giovani francesi di origine maghrebina durante l'esecuzione della Marsigliese prima delle partite di calcio della nazionale transalpina contro Tunisia, Marocco e Algeria, e i fallimenti della squadra diretta dal ct Domenech nelle ultime apparizioni ai mondiali e agli europei. Messa da parte la Francia, ora tocca alla Germania essere identificata come esempio da seguire.

Nel mondiale in corso 25 nazionali su 32 hanno almeno un naturalizzato nella propria rosa. In questa rassegna il loro numero è salito a 74; quattro anni fa in Germania erano 65, mentre otto anni fa, in Giappone e Corea, erano 43. Insomma, il numero è quasi raddoppiato nel giro di soli 8 anni. Il fenomeno non riguarda solo le nazionali dei grandi paesi occidentali. La rosa della nazionale di calcio dell'Algeria conta 17 giocatori che sono nati in Francia ma hanno preferito naturalizzarsi algerini. Qualche commentatore, infatti, ha parlato addirittura di «Francia 2». Nell'Italia campione del mondo nel 1934 c'erano 5 giocatori naturalizzati (Demaria, Guaita, Guarisi, Monti, Orsi), tanti quanti ce ne sono oggi nella nazionale tedesca. Come si vede, il fenomeno nel calcio non è nuovo, non è limitato a qualche paese, non è sempre vincente e non va di pari passo con quello che succede nella vita di tutti i giorni. Se poi guardiamo ad altri sport, la situazione non è certo diversa.

Lo sport moderno non è lo specchio fedele della società. In quel mondo si usa lo strumento della naturalizzazione per accaparrarsi le prestazioni dei migliori talenti in circolazione. Tutto qui. Non c'è alcun collegamento con il tema più ampio dell'integrazione degli stranieri. La vita di tutti i giorni è qualcosa di più complesso di una semplice partita. Lo sport può rappresentare uno spicchio della vita ma non certo esserne lo specchio fedele. Lasciamo stare, quindi, le suggestioni dettate dal calcio o da qualche altro sport. Le vittorie o le sconfitte di una rappresentativa nazionale non possono essere un modello vincente da esportare per forza nella vita di tutti i giorni. Prendiamo la nostra nazionale di calcio. La vittoria ai mondiali disputati in Germania aveva esaltato la compattezza del gruppo, lo spirito di sacrificio, la fame di vittorie a discapito della classe dei singoli. Tutte virtù utili anche nella vita, sempre e comunque, ma a distanza di quattro anni quello stesso modello, con tutte le varianti del caso, non è servito né a ripetere il successo e neppure ad uscire dalla rassegna in modo dignitoso.

Quando si parla d'integrazione, inoltre, non si può e non ci si deve limitare al solo strumento della naturalizzazione. La normativa non è tutto e sarebbe davvero molto riduttivo e pericoloso racchiudere il mondo in una norma. La materia è molto complessa. Secondo la definizione data dall'enciclopedia Treccani, l'integrazione sociale è «un processo attraverso il quale gli individui diventano parte integrante di un sistema sociale, aderendo ai valori che ne definiscono l'ordine normativo. Sul piano microsociologico, è una funzione del processo di socializzazione, consistente nella formazione della personalità sociale dell'individuo attraverso la trasmissione dei modelli culturali e di comportamento dominanti, cui provvedono la famiglia, la scuola e i gruppi primari. Sul piano macrosociologico, nell'approccio struttural-funzionalista di T. Parsons, è un prerequisito del sistema sociale, volto ad assicurare legami stabili fra i suoi membri mediante il rafforzamento dei meccanismi di controllo sociale». Che cosa c'entra tutto questo con lo sport? Poco o niente.

giovedì 24 giugno 2010

A POMIGLIANO VINCE IL LAVORO



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
mercoledì 23 giugno 2010

I lavoratori di Pomigliano hanno votato e hanno deciso. Al termine dello scrutinio dei 4.642 voti al referendum sull'accordo tra Fiat e sindacati (Fiom esclusa), con una affluenza del 95% degli aventi diritto, i sì sono stati 2.888, i no 1.673, le schede nulle 59 e le bianche 22. L’accordo, dunque, è stato accettato dalla maggioranza dei lavoratori. Non è stato certo un plebiscito ma, certamente, siamo dinanzi a numeri significativi.

Sbaglia la Fiom-Cgil, contraria all’accordo, a cantare vittoria, dato che i numeri sono chiari e determinano la sconfitta della loro linea, e sbaglia ancora di più Susanna Camusso, vicesegretaria nazionale della Cgil, a chiedere la riapertura del confronto per arrivare a una soluzione condivisa, perché una volta che si chiede ai lavoratori di esprimersi sul proprio futuro, e ciò è avvenuto, il risultato della consultazione deve essere rispettato. E sbaglia ancora la stessa Camusso ad attaccare Sacconi a testa bassa quando afferma che «non mi trovo in accordo con il ministro che nella notte ha parlato di svolta storica, di relazioni moderne. Penso che il ministro debba rassegnarsi al fatto che un paese moderno ne' divide i sindacati, ne' cancella i diritti dei lavoratori».Nessuno ha cancellato i diritti dei lavoratori, e la vittoria del sì al referendum ne è la prova, e nessuno ha lavorato per incrinare l’unità sindacale. Più semplicemente questo finto totem non c’è più nei fatti perché all’interno del mondo sindacale non c’è una condivisione d’intenti e non esiste una visione concordante tra le varie sigle in materia di relazioni industriali. C’è, invece, una profonda differenza di vedute tra la Cgil e il resto del mondo sindacale che ha radici profonde e che si è acuita dal momento in cui che il sindacato rosso, consapevolmente o meno, si è trasformato in un’entità di natura politica che cerca di coprire il vuoto lasciato a sinistra dalla scomparsa del Pci.

Inqualificabile la posizione di Di Pietro che ha parlato di referendum farsa e di ricatto ai lavoratori. Innanzitutto è sempre una cosa positiva quando si usano strumenti di natura democratica per rendere parteci i lavoratori del proprio destino e, quindi, bollare il tutto come farsa non è certo un modo per rispettare i dipendenti della Fiat di Pomigliano che si sono recati a votare. Inoltre, il ricatto non c’è stato perché ai lavoratori non è stato chiesto di scegliere tra condizioni di lavoro inumane e chiusura della fabbrica e non sono state contrapposte l’esigenza di far funzionare la fabbrica con quella di salvaguardare i diritti fondamentali dei lavoratori. Nello stabilimento Fiat di Pomigliano c’è un problema legato all’assenteismo e alla bassa produttività del lavoro. L’accordo (taglio di organico stimato intorno alle mille unità; turni settimanali che saliranno a 18, compreso quello di domenica notte; incremento del 200% anche per le ore obbligatorie di straordinari annui, oltre alla possibilità di punire gli scioperi ritenuti “ingiustificati” anche con il licenziamento) non ha fatto altro che dare una soluzione equilibrata al problema, applicando la possibilità di derogare a livello locale il contratto nazionale prevista dall’accordo quadro per la riforma degli assetti contrattuali tra Governo e sindacati del 22 gennaio dello scorso anno.
Insomma non c’è alcuna deroga che comprime i diritti fondamentali dei lavoratori. Le parole di Di Pietro, inoltre, farebbero intendere anche che i sindacati favorevoli all’accordo (tutti tranne la Fiom-Cgil) hanno rinunciato a difendere i diritti fondamentali dei lavoratori. Se il leader dell’Idv pensa che sia davvero così che lo dica in maniera espressa e senza tanti giri di parole, assumendosene anche la responsabilità.

Ambigua, invece, la posizione del Partito Democratico. Favorevole al sì all’accordo ma mai critico nei confronti della Fiom-Cgil. Forse è ancora vivo nei dirigenti del Pd il ricordo dell’attivismo del sindacato rosso durante le primarie del partito nella scelta del segretario nazionale oppure il tirare le orecchie all’unico baluardo rimasto nella sinistra a tinte rosse vieni vissuto come un atto di lesa maestà. Qualunque sia il motivo di quest’ambiguità, resta il fatto che le dichiarazioni rese dai vari Enrico Letta e Walter Veltroni, favorevoli all’accordo tra Fiat e sindacati, hanno segnato una presa di distanza dalle scelte della Cgil.

Ora, comunque, al netto di tutte le polemiche, ci sono le condizioni per fare gli investimenti, in un arco temporale di un anno e mezzo circa, e per garantire i posti di lavoro dello stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco e di tutto l’indotto . La palla passa ai vertici della Fiat che dovranno confermare il loro impegno di investire 700 milioni di euro e dì portare la produzione della Panda nello stabilimento campano.

giovedì 17 giugno 2010

La questione dello stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

mercoledì 16 giugno 2010

Si è chiusa con un accordo separato, senza la Fiom, la trattativa tra la Fiat e i sindacati dei metalmeccanici sullo stabilimento di Pomigliano d'Arco e l'indizione di un referendum tra i lavoratori che si terrà martedì 22 giugno. Fim, Uilm, Fismic e Ugl hanno firmato il nuovo documento, integrato, presentato dai vertici dell'azienda torinese. La Fiom ha confermato il suo «no» a un testo che considera «irricevibile», dai profili di «illegittimità», un «ricatto». Le tute blu della Cgil non si sono mosse dalla propria posizione - «di retroguardia» e «irragionevole», per le altre sigle - nonostante gli inviti e le pressioni ricevute. E hanno ripetuto il «no» anche alla consultazione degli operai. Consultazione alla quale è legato l'effettivo sblocco degli investimenti Fiat per il sito campano, circa 700 milioni di euro per portare la produzione della futura Panda dalla Polonia in Italia. La parola passa, dunque, ai lavoratori: senza il loro sì, non se ne fa niente. La Fiat è stata chiara nel chiedere il consenso di tutti.
I 5.200 dipendenti Fiat di Pomigliano d'Arco dovranno scegliere il loro destino, quello dei circa 10.000 lavoratori tra indotto e fornitori, quello di una buona fetta dell'economia di quell'area e quello delle scelte industriali della stessa Fiat. Dall'esito della votazione, infatti, dipenderà l'avvio concreto del progetto «Fabbrica Italia», che porterà il Lingotto al raddoppio della produzione automobilistica entro il 2014. Al via libera di Pomigliano è legato l'intero progetto di rilancio del gruppo in Italia. Un mosaico che potrebbe venir meno nel caso di una vittoria delle ragioni del no all'accordo da parte dei lavoratori impegnati nello stabilimento campano. La Fiat, infatti, potrebbe tirar fuori dal cilindro il piano B e cioè lo spostamento delle produzioni all'estero per motivi di cassa (in Polonia e in Serbia la produzione costa meno). Ovviamente la delocalizzazione totale non sarebbe così facile, anche per una questione d'immagine. Uno dei punti di maggior forza delle automobili Fiat è l'italianità e, con una produzione interamente fuori dai confini nazionali, diventerebbe difficile vendere il prodotto puntando sulle passioni che suscita all'estero il tricolore italiano nel mondo dei motori. L'amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, che è una persone intelligente e lungimirante, ha capito che il marchio «Italia» è centrale nelle strategie dell'azienda automobilistica torinese e, infatti, ha puntato sul rilancio della produzione italiana. In un momento storico in cui la delocalizzazione sembra essere per la maggior parte delle grandi industrie la via maestra per fare subito cassa, lui ha deciso di restare in Italia. Tuttavia, davanti ad una vittoria del no il 22 giugno, il rischio di vedere la produzione Fiat andare all'estero diventa concreto.
Lo scorso mese Marchionne aveva evidenziato come il piano Fabbrica Italia «punta ad attuare soluzioni definitive alla debolezza del complesso industriale di Fiat in Italia» e «riduce il numero dei siti manifatturieri in Italia da sei a cinque», portando la capacità a un livello ottimale»; questo, secondo Marchionne, «è l'unico modo per garantire un futuro solido per Fiat e per la sua base manifatturiera in Italia». «Quello di cui abbiamo bisogno è superare gli interessi personali: ritengo che un dialogo costruttivo sia necessario e possibile. Soluzioni accettabili possono essere trovate. Ma è necessario che tutti quelli coinvolti si sentano parte del processo e nel trovare una soluzione piuttosto che creare ostacoli lungo la strada. Per questo motivo abbiamo chiesto ai sindacati di rinegoziare accordi che non sono più adeguati» con le attuali esigenze.
Nella trattativa di Pomigliano la Fiat è riuscita a giocare bene le proprie carte. La maggior parte dei sindacati ha scelto la via della responsabilità. Fuori dal coro i rappresentanti della Fiom-Cgil che, con il loro no all'accordo e la loro rigidità, rischiano di mettere a rischio 15.000 posti di lavoro in Campania e la scelta strategica dell'azienda automobilistica torinese di migliorare la propria produzione sul territorio italiano. Per quanto riguarda il merito della vicenda, invece, la Fiat ha voluto espressamente porre un freno all'assenteismo e alle derive degenerative nello stabilimento campano in materia di diritto di sciopero e sulle tutele economiche spettanti ai lavoratori in malattia. I sindacati, da parte loro, dovrebbero essere i primi a sapere che i diritti dei lavoratori si difendono anche contrastando gli abusi che si fanno di questi stessi diritti. L'azienda torinese ha messo sul piatto 700 milioni di euro per il rilancio dello stabilimento di Pomigliano d'Arco e ha preteso che lì si lavori e si produca almeno come avviene negli Stati Uniti o in Canada.

venerdì 11 giugno 2010

Donne e pensioni



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

venerdì 11 giugno 2010

L'ultimo Consiglio dei Ministri ha discusso ed approvato un emendamento da presentare in sede di conversione del decreto- legge che reca la manovra finanziaria «anti-crisi» (n.78 del 2010- Atto Senato 2228), che recepisce il monito all'Italia, espresso in sede europea, ad equiparare l'età pensionabile per uomini e donne, e dispone che ciò avvenga dal 1° gennaio 2012.
La disposizione riguarderà una platea di circa 25mila donne e i risparmi derivanti da questa misura (1,45 miliardi di euro in dieci anni, da oggi al 2019) confluiranno nel Fondo strategico per il Paese a sostegno dell'economia reale, istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, e finanzieranno interventi dedicati a politiche sociali e familiari.
La Commissione europea ha accolto con favore la decisione del governo italiano. Come ha spiegato il portavoce del Commissario alla giustizia, la disposizione «risolve due problemi, si adegua alla richiesta della Corte di giustizia Ue e contribuisce a risolvere le difficoltà fiscali dell'Italia». «Siamo consci dei problemi di bilancio che toccano tutti gli stati membri, accogliamo quindi con favore gli sforzi del governo italiano per consolidare i suoi conti pubblici», ha sottolineato il portavoce del commissario i cui uffici hanno inviato all'Italia la lettera di richiamo in cui si chiedeva l'adeguamento dell'età pensionabile uomo-donna entro il primo gennaio 2012.
In caso di mancato adempimento, la multa per l'Italia poteva oscillare, in funzione della gravità e della durata dell'infrazione, tra un minimo di 11.904 euro e un massimo di 714.240 euro per ogni giorno successivo a quanto fissato dalla sentenza di condanna. Insomma, con questa iniziativa, peraltro sostenibile senza tanti patemi dal punto di vista sociale, si risparmia qualche soldo, che in tempo di vacche magre non fa mai male, e si elimina una disparità tra uomini e donne. Tuttavia c'è un'altra diversità di trattamento in campo pensionistico su cui intervenire al più presto.
Le donne percepiscono una pensione, in media inferiore di 5.231 euro a quella degli uomini: 11.906 euro contro 17.137. Lo ha rilevato l'Istat nell'analisi dei trattamenti pensionistici e dei beneficiari al 31 dicembre 2008. Sebbene la quota di donne sia pari al 53%, spiega l'istituto, gli uomini percepiscono il 56% dei redditi pensionistici, a causa del maggiore importo medio dei trattamenti percepiti. In particolare, se si analizza l'importo degli assegni è possibile notare che il 58,7% (27,1% sotto i 500 euro e 31,6% tra i 500 e 999,99 euro) delle donne percepisce assegni mensili inferiori ai 1.000 euro contro il 38,4% degli uomini (15% sotto i 500 euro e 23,4% tra i 500 e i 999,99 euro), mentre se si guarda alle fasce più alte di importo, solo il 7,7% degli assegni femminili è superiore ai 2mila euro contro il 20,4% tra gli uomini.

giovedì 10 giugno 2010

Gli organismi internazionali dovrebbero aiutare gli Stati nazionali



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

mercoledì 09 giugno 2010

Secondo la portavoce dell'Unhcr (Alto commissariato Onu per i rifugiati), Melissa Fleming, l'Onu ritiene che l'Italia e altri Paesi europei, che guardano alla Libia «come un luogo dove la gente che fugge da persecuzioni può essere accolta», dovrebbero riflettere «molto attentamente» se l'ufficio Unhcr a Tripoli dovesse rimanere chiuso. «Tutti i governi europei che considerano la Libia come un luogo dove la gente che fugge da persecuzioni può essere accolta, dovrebbero riesaminare la loro posizione molto attentamente se l'Unhcr non sarà più presente nel Paese», ha detto Fleming. Alla luce di questo nuovo sviluppo i Paesi europei, ha aggiunto, dovrebbero riesaminare le loro politiche» in materia d'immigrazione. La portavoce ha ribadito la «posizione molto critica» dell'Unhcr sulla politica del governo italiano sui respingimenti delle imbarcazioni di immigrati.

Il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, interpellato sull'argomento, ha chiesto alla Libia di avviare il negoziato per un accordo in grado di garantire l'immunità diplomatica alla sede dell'organizzazione dell'Onu e farla funzionare. Sulla vicenda - ha spiegato Frattini conversando con i giornalisti a Berlino martedì - «abbiamo chiesto spiegazioni. Ci è stato detto che mancava un accordo di sede finalizzato a regolare la vicenda. Ora chiediamo alla Libia - ha ribadito - di avviare il negoziato» per arrivare a quell'accordo mancante.
E' chiaro che se l'ufficio dell'Unhcr in Libia resterà chiuso, questo sarà certamente un fatto negativo. Tuttavia sarebbe bene che negli uffici delle Nazioni Unite si mettano d'accordo perché uno stesso Paese (in questo caso la Libia) non può nel giro di un mese entrare prima a far parte nel Consiglio dei diritti umani, con ben 155 voti, e poi essere accusato dall'Unhcr (Alto commissariato Onu per i rifugiati) di essere un luogo dove la gente viene perseguitata. Un po' di coerenza nei giudizi, su una materia così delicata come quella dei diritti umani, non guasterebbe.
Il ruolo di questi organismi dovrebbe essere quello di aiutare gli Stati e non quello di essere nel peggiore dei casi dei «poltronifici» e nei migliori delle postazioni di privilegio per dare giudizi di natura politica. Il buon senso vorrebbe che i vari funzionari di quest' ufficio collaborino con gli Stati nazionali per raggiungere gli obiettivi prefissati e non perseguire un disegno politico che delinea un mondo dove da una parte ci sono i buoni (loro, le Ong e pochi altri eletti) e dall'altra i cattivi (tutti gli altri).
Uno Stato nazionale ha il diritto-dovere di salvaguardare l'integrità dei propri confini se questi rischiano di diventare una groviera alla mercé delle direttrici dell'immigrazione clandestina e del traffico degli esseri umani. E questo dovrebbe essere uno sforzo apprezzato anche da quegli organismi internazionali che si battono per la salvaguardia dei diritti umani. Invece di puntare il dito dovrebbero porgere la mano.
Al posto di chiedere agli Stati che intendessero proseguire i loro rapporti con la Libia di fare un passo indietro, non sarebbe stato meglio chiedere in modo riservato alle autorità diplomatiche di questi stessi paesi di intervenire su quelle libiche per cercare una soluzione alla questione? L'interesse da perseguire è quello di fare la lista dei buoni e dei cattivi, a uso e consumo della politica, o salvaguardare i diritti umani? E' nell'interesse di tutti, Unhcr compreso, avere nella Libia un interlocutore serio e affidabile. In quel paese, inoltre, è bene ricordarlo, operano anche altre organizzazioni umanitarie (non dell'Onu) come l'Iopcr, (International Organization for Peace), l'Icmpd (International Centre for igration Policy Development) e il Cir (Consiglio Italiano per i Rifugiati). Nessuno vuole calpestare i diritti di chi scappa dalla propria terra natia per fame, guerra o, più semplicemente, alla ricerca di un futuro migliore.
L'Italia, da sola e senza alcun aiuto, fedele alla normativa comunitaria in materia, sta cercando di contrastare come può le direttrici dell'immigrazione clandestina e, com'è noto, ha stretto un accordo con la Libia (paese dalle cui coste partivano la maggior parte delle carrette del mare dirette verso il nostro Paese). L'accordo funziona e gli sbarchi sono drasticamente diminuiti. In Libia è stato chiuso l'ufficio dell'Unhcr? Gli Stati nazionali che hanno rapporti con la Libia si attivino per cercare una soluzione (come ha fatto l'Italia) ma i funzionari dell'Alto commissariato Onu per i rifugiati cerchino di collaborare dosando le parole e senza mettere altra legna nel fuoco.

venerdì 4 giugno 2010

Mi ritorni in mente…



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

venerdì 04 giugno 2010

Negli ultimi tempi il dibattito pubblico si è arricchito delle dichiarazioni di Walter Veltroni, Carlo Azeglio Ciampi, Pietro Grasso e Nicola Mancino. Il quesito lo ha posto Veltroni: perché inizia la stagione stragista del 1992 e per quale motivo finisce nel 1993? Innanzitutto è singolare che a porsi le domande, a fare congetture, a rievocare fatti a distanza di anni, siano queste persone, se non altro per i ruoli che hanno ricoperto e che tuttora ricoprono. Dovrebbero dirci perché di certe cose ne parlano ora e non l'hanno fatto prima. Stiamo parlando di: colui che all'epoca dei fatti era il direttore dell'Unità e, nel recente passato, vicepresidente del Consiglio nel I° governo Prodi e poi leader del maggior partito di opposizione; l'ex presidente del Consiglio italiano in carica in quegli anni, ex Presidente della Repubblica e attualmente senatore a vita; una persona seria che oggi riveste l'autorevole ruolo di procuratore antimafia e che ha seguito e coordinato proprio le inchieste sui quei tragici avvenimenti; infine, l'allora Ministro dell'Interno e attuale vicepresidente del Csm

Il minimo comun denominatore di questo diluvio di dichiarazione è che quegli attentati non furono solo di matrice mafiosa ma messi in atto da menti più raffinate per destabilizzare il paese e incidere sul corso della storia politica. Qualcuno ha parlato addirittura di un tentativo di golpe. Come ricordato dal leader morale della sinistra che corre a «manetta», Marco Travaglio, «Grasso, da procuratore di Palermo, assieme al Csm estrometteva dal pool antimafia tutti i pm che indagavano su quella pista». Il senatore Ciampi, invece, dopo soli 17 anni, si è ricordato che forse il nostro paese ha rischiato di subire un colpo di Stato mentre Walter Veltroni, cinico al quadrato, dopo aver scritto un libro sulla strage dell'Heysel ed averlo presentato a ridosso della commemorazione dell'anniversario, si è ricordato di essere un componente della commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno delle mafie e ha cercato di cavalcare l'onda per restare sotto la luce dei media. E, infine, Nicola Mancino, che rileviamo ancora, era il Ministero dell'Interno all'epoca dei fatti, si ricorda, anche lui dopo 17 anni al pari di Ciampi, che forse l'Italia ha corso il rischio di subire un golpe senza aggiungere altre notizie. Fu solo una sensazione oppure ci sono stati atti concreti e su larga scala che hanno fatto temere per il peggio? E loro possono affermare in base alle informazioni in loro possesso, in qualità di ex presidente del Consiglio ed ex ministro dell'Interno dell'epoca, chi, come e perché armò la mano degli attentatori e degli assassini?
Si tratta di una sequenza di fatti seria, che ha inciso in profondità sulla vita di questo paese e sul quale è bene fare chiarezza. In mancanza di prove, e se qualcuno ne ha che le metta a disposizione delle autorità competenti, non resta che aggrapparsi alla logica e alla realtà dei fatti, che serve solo per mettere in ordine una sequenza di avvenimenti e non certo per dare risposte campate in aria ai tanti interrogativi che ci sono su quel periodo.
Innanzitutto bisogna capire se la destabilizzazione del quadro politico italiano sia avvenuta con le bombe e gli omicidi o con le inchieste della magistratura (Tangentopoli) che spazzarono via un'intera classe politica che, a detta di molti autorevoli commentatori degli avvenimenti di quel momento storico, era debole e vulnerabile. Una classe politica forte avrebbe trovato i meccanismi necessari per riformarsi senza cedere lo scettro del potere reale alla magistratura. La sequenza di atti, quindi, non può che partire dalle inchieste della magistratura che colpirono e affondarono una classe politica già vulnerabile, provocando la destabilizzazione del paese. In questo quadro s'inseriscono le bombe e gli omicidi eccellenti, che magari andarono a rafforzare il senso di destabilizzazione, ma certo non furono la causa principale del collasso di un'intera classe dirigente. Al netto delle opinioni che si possono avere su cosa fu Tangentopoli, è innegabile che il vuoto politico si sia avuto concretamente in quel momento.
Secondo fatto: cui prodest? In questo caso è bene sgombrare il campo da «pizzini» a mezzo stampa e facili analisi fatte con il senno di poi. Com'è facilmente desumibile leggendo i giornali dell'epoca, le uniche forze in grado di poter colmare sulla carta e secondo la logica, a detta di tutti i commentatori, il vuoto politico che si era venuto a creare erano quelle riunite nella «gioiosa macchina da guerra» della sinistra italiana (che ovviamente non erano certo i mandanti delle stragi), peraltro baciata anche da un certo successo alle amministrative del 1993. Poi la storia è andata diversamente, ma all'epoca dei fatti nessuno avrebbe scommesso sull'affermazione alle elezioni politiche della coalizione messa in piedi da Silvio Berlusconi. Gli editoriali sui giornali che sbeffeggiavano la discesa in campo del Cavaliere si sprecavano. Nessuna persona intellettualmente onesta può affermare il contrario.
Perché limitarsi a guardare solo il campo politico e non vedere le dinamiche di quello economico? Che cosa successe in quegli anni? Dal 1991, attraverso l'uso dei decreti fu cambiata la forma societaria delle aziende statali e fu dato il via alla stagione delle privatizzazioni che vide alcuni colossi dell'economia italiana passare dalle mani pubbliche a quelle private.
Terzo fatto: perché a un certo punto la stagione stragista inizia e in un certo momento finisce? Noi non abbiamo prove in mano che possano dare delle risposte certe ma chiediamo con forza a chi ne ha, o si cimenta in dietrologie palesando una certa sicumera, di scoprire le carte e di rivolgersi al più presto alle autorità competenti. Tutto il resto sono chiacchiere da bar che non fanno onore a chi le proferisce, con l'aggravante che così facendo si alimenta in maniera irresponsabile il diffondersi di quella cultura del sospetto senza prove che avvelena la convivenza civile in questo paese.

mercoledì 2 giugno 2010

Giovani, mercato del lavoro e welfare state


di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

lunedì 31 maggio 2010

«La crisi ha acuito il disagio dei giovani nel mercato del lavoro». E' l'allarme che giunge dal Governatore di Bankitalia, Mario Draghi, nel corso delle considerazioni finali pronunciate nell'assemblea annuale dell'istituto. «Nella fascia di età tra 20 e 34 anni la disoccupazione ha raggiunto il 13% nella media del 2009. La riduzione rispetto al 2008 della quota di occupati tra i giovani è stata quasi sette volte quella osservata fra i più anziani. Hanno pesato - ha spiegato Draghi- sia la maggiore diffusione fra i giovani dei contratti di lavoro a termine sia la contrazione delle nuove assunzioni, del 20%». «Da tempo vanno ampliandosi in Italia - ha proseguito Draghi- le differenze di condizione lavorativa tra le nuove generazioni e quelle che le hanno precedute, a sfavore delle prime. I salari di ingresso in termini reali ristagnano da quindici anni».

A questi dati bisogna aggiungere quelli forniti da ultimo dall'Istat e dall'Ocse. Secondo il Rapporto annuale 2009 dell'istituito nazionale di statistica, il mondo giovanile in Italia resta il più penalizzato dal punto di vista del lavoro: lo scorso anno il tasso di disoccupazione giovanile in Italia (25,4%) è più del triplo di quello totale (7,8%) e più elevato di quello europeo (19,8%). Il tasso di occupazione è sceso in un solo anno al 44% (dal 47,7% del 2008). Come nel 2008, il tasso di disoccupazione italiano è inferiore a quello dell'Ue (7,8 contro 8,9%), ma ha spiegato l'Istat, si associa tuttavia a un tasso di inattività più alto e in crescita (37,6contro 28,9%). La crisi per i giovani sotto i 29 anni ha significato, solo nel 2009, 300.000 posti in meno rispetto al 2008, un crollo di oltre tre punti percentuali. Anno nero in particolare per i figli che ancora vivono a casa con la famiglia, «salvati» proprio dalla protezione familiare. Anche questo trend, tradizionale in Italia, potrebbe però peggiorare: molti capifamiglia hanno mantenuto un livello economico decente solo grazie alla Cassa integrazione, che ovviamente è a termine. In ogni caso, a tenere a galla le famiglie italiane è il basso indebitamento, un fenomeno di lunga durata che rende la ricchezza finanziaria netta delle famiglie ben più grande (circa il doppio) del Pil. Proprio la solidità delle famiglie italiane, rileva l'Istat, ha attutito gli effetti della crisi garantendo la tenuta del paese.
Secondo l'Economic Outlook dell'Ocse, la recessione in Italia «è finita a metà del 2009», ma «la ripresa secondo le previsioni procederà a passo lento nel complesso del 2010, rinforzandosi un po' nel 2011». Restano timori però soprattutto sul fronte della disoccupazione che nel 2011 continuerà a crescere.
Insomma in Italia, la crisi economica, che sta dispiegando i suoi effetti negativi in campo occupazionale in tutto il mondo, colpisce soprattutto i giovani a causa della contrazione delle nuove assunzioni e alla diffusione dei contratti a termine. Va aggiunto, però, che senza quei tipi di contratti molti giovani o resterebbero a casa o lavorerebbero in nero. Al netto delle speculazioni ideologiche sul tema, la strada da seguire, per rispondere al meglio alle ripercussioni negative imposte dalla crisi mondiale, sarebbe quella di partire da quanto già fatto (istituzione della cassa integrazione in deroga) per arrivare a offrire una copertura sociale anche a tutti quei giovani che oggi ne sono sprovvisti. Questo significherebbe rivedere la nostra spesa sociale, bilanciando l'attuale sistema degli ammortizzatori sociali a favore della componente giovanile della forza lavoro, magari intaccando un po' di privilegi di qualche burosauro. E' ovvio che quando si mette mano in questo mare magnum, non aumentando la spesa pubblica ma ridefinendo alcuni meccanismi, c'è sempre qualcuno che si arrabbia; tuttavia varrebbe la pena correre questo rischio per dare una giusta copertura sociale, laddove ne siano sprovvisti, ai tanti giovani che si impegnano quotidianamente nel proprio lavoro con passione e dedizione.
Non è più concepibile che l'ammortizzatore sociale per eccellenza delle nuove generazioni debba essere il reddito della propria famiglia. Il rischio è di mandare definitivamente in soffitta tutte le buone parole e le ottime intenzioni che da decenni si ascoltano sull'attivazione dell'ascensore sociale. «Credo nelle idee che diventano azioni», diceva Ezra Pound. Sarebbe davvero un incubo insopportabile vivere in una società in cui le appartenenze familiari sono il più efficace mezzo per collocarsi nel mercato del lavoro e, al contempo, il principale ammortizzatore sociale.
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