sabato 29 maggio 2010

Rispedire al mittente le critiche ingiuste di Amnesty International



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

venerdì 28 maggio 2010

Nel rapporto 2010 di Amnesty International, sulla situazione dei diritti umani nel mondo, si legge che l'Italia «ha continuato ad espellere persone verso luoghi in cui erano a rischio di violazioni di diritti umani» - ovvero la Libia - «senza valutare le loro necessità di asilo e protezione internazionale». «I governi italiano e maltese - si sottolinea - in disaccordo sui rispettivi obblighi di condurre operazioni di salvataggio in mare, hanno lasciato i migranti per giorni senza acqua e cibo, ponendo a grave rischio le loro vite». Nel rapporto si fa esplicito riferimento al famoso caso della nave Pinar. E' bene ricordare che si tratta della nave turca che, nell'aprile del 2009, soccorse nel Mediterraneo centrale un folto gruppo d'immigrati in difficoltà, a poco più di 40 miglia al largo di Lampedusa. Lo sbarco di queste persone doveva avvenire a Malta (responsabile dei soccorsi in quello spazio di mare) ma, alla fine, dopo un braccio di ferro diplomatico tra le autorità de La Valletta e quelle italiane, la nave approdò sulle nostre coste dopo aver ricevuto il via libera da parte della Farnesina. Insomma furono gli italiani a farsi carico del ristoro a terra di questa povere persone e non altri. Alcuni degli stessi naufraghi dichiararono, inoltre, che chi voltò la faccia come risposta alle loro richieste di aiuto non erano italiani ma gente che parlava inglese.

E allora come si permette Amnesty International di criticare il nostro Paese? Questo è un affronto a tutte quelle persone, dai rappresentanti delle istituzioni fino ai volontari, che tra mille difficoltà si adoperano con grande generosità per prestare le cure necessarie agli immigrati che sbarcano sulle nostre coste. E ha fatto benissimo il ministro degli esteri, Franco Frattini, ad affermare che «l'Italia è certamente il Paese europeo che ha salvato più persone in mare. Amnesty ha fatto sempre la sua parte ma i nostri dati sono molto chiari» e che per questo il rapporto dell'organizzazione è «indegno per il lavoro dei nostri uomini e delle nostre donne delle forze di polizia, che ogni giorno salvano le persone, tutto il contrario di quello che dice Amnesty».

Perché i signori di quest'organizzazione non scrivono anche che l'Italia è stata lasciata sola ad affrontare la lotta contro l'immigrazione clandestina e che l'accordo con la Libia ha prodotto, numeri alla mano, una verticale diminuzione degli arrivi via mare nel nostro paese? E perché non dicono che la Libia è stata recentemente eletta tra i 46 Paesi membri del Consiglio per la protezione dei Diritti Umani delle Nazioni Unite? Per entrare nel merito della questione riguardante i rimpatri, inoltre, il rapporto si è ben guardato dall'aggiungere che le azioni promosse dal governo italiano sono in linea con le disposizioni comunitarie in materia (direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2008). Ma poi come mai nessuna di queste organizzazioni umanitarie ha protestato in maniera dura quando, ad esempio, gli spagnoli hanno sparato contro un gruppo di clandestini a Ceuta nel 2005, ammazzando 5 persone, oppure quando gli inglesi hanno avviato quest'anno, ai primi di aprile, un progetto pilota che prevede di rimpatriare anche gli stranieri comunitari che sono privi dei mezzi di sostentamento? La disparità di giudizi è davvero vistosa.
Come se non bastasse, lo stesso rapporto rincara la dose rilevando che la vicenda della rivolta degli immigrati a Rosarno in Calabria, tra le altre cose, è scoppiata anche a causa della mancata adozione da parte delle autorità italiane di misure concrete per contrastare la xenofobia in aumento in tutto il paese. E secondo quali dati Amnesty International ha fatto quest'affermazione? Non è dato saperlo. L'unica cosa certa, ma di questo ovviamente non c'è traccia nel rapporto, è che le autorità italiane, proprio a seguito di quella vicenda, sono intervenute cercando di ripristinare un minimo di legalità in quei posti, dopo il caos generato dalle violenze, e colpendo la fonte di quei problemi. Questo lavoro concreto ha portato a fine aprile a spiccare 31 ordinanze di custodia cautelare contro i caporali che sfruttavano il lavoro degli stranieri nel comparto agricolo della zona e a sequestrare beni per 10 milioni di euro.
Questi sono fatti concreti che dimostrano come le critiche rivolte all'Italia nel rapporto 2010 di Amnesty International sono offensive per il nostro paese, non rispecchiano la realtà e per questo motivo vanno rispedite al mittente senza tanti giri di parole.

mercoledì 26 maggio 2010

Lotta alla criminalità organizzata. Intervista all'onorevole Torrisi



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

martedì 25 maggio 2010

Il disegno di legge recante «Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia» (A.C. 3290), attualmente in discussione alla Camera dei deputati, si inserisce nel quadro di una più generale azione di contrasto alla criminalità organizzata, che ha già prodotto alcune modifiche alla legislazione antimafia (con la legge n. 94 del 2009 in materia di sicurezza pubblica) e l'istituzione dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati (decreto legge n. 4/2010, convertito dalla legge n. 50 del 2010). Ne parliamo con il relatore del provvedimento, l'onorevole Salvatore Torrisi del gruppo del Popolo della Libertà, avvocato, presidente dell'Ordine degli avvocati di Catania e componente della Commissione Giustizia della Camera e della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali, anche straniere.

Qual è, a suo avviso, il maggior punto di forza di questo provvedimento?

In Italia abbiamo una legislazione antimafia all'avanguardia, con un'organizzazione e strumenti investigativi che tutto il mondo ci invidia. Tuttavia ciò è il frutto di una serie di misure pensate e attuate nell'ottica dell'emergenza, come risposte immediate alla sfida mafiosa. Per questo motivo il primo obiettivo che si vuole raggiungere è quello di raccogliere tutte le norme in un testo unico organico, secondo criteri di coerenza e completezza, con previsioni chiare e puntuali, che evitino incertezze applicative e interpretazioni contraddittorie. Altro obiettivo significativo è quello di rafforzare gli strumenti per colpire i patrimoni dei mafiosi, frutto dei profitti criminali, e per sequestrare e confiscare i patrimoni e le aziende illecitamente acquisiti.


L'articolo 2 reca una delega al Governo per la modifica e l'integrazione della disciplina delle certificazioni antimafia. Quali sono le linee guida della delega in questa materia così delicata?

La persistente invasività delle associazioni mafiose nel settore degli appalti pubblici richiede un rigido e profondo ripensamento dei metodi per combatterle. La certificazione antimafia è ormai insufficiente a interdire alle imprese di mafia di partecipare alle gare. I principi e i criteri direttivi che si vogliono perseguire sono individuati nei seguenti punti: aggiornamento e semplificazione delle procedure di rilascio della documentazione antimafia; aggiornamento degli effetti interdittivi derivanti dall'accertamento delle cause di decadenza o del tentativo di infiltrazione mafiosa dopo la stipula del contratto; istituzione di una banca dati nazionale per la documentazione antimafia; individuazione delle diverse tipologie di attività di impresa a maggior rischio di infiltrazione mafiosa, per le quali è sempre obbligatoria la certificazione antimafia.


Parliamo di criminalità e Pubblica Amministrazione. Nel 2007, secondo il rapporto «Sos impresa» della Confesercenti, la prima azienda italiana si chiama «Mafia Spa» e ha un fatturato annuo di 90 miliardi di euro. Parte di questo fiume di denaro deriva anche dalle infiltrazioni della criminalità nei lavori, nei servizi e nelle forniture pubbliche. Che cosa prevede il disegno di legge su questo tema?

Le mafie si caratterizzano per il radicamento sociale e il loro interessato rapporto con la politica. La mafia non ha ideologia e, come risulta da tante indagini, non ha disdegnato di aver rapporti politici di qualsiasi colore pur di raggiungere i propri fini. Finché le organizzazioni criminali continueranno ad intrecciare relazioni e rapporti con l'imprenditoria e la burocrazia per appropriarsi di fondi pubblici, utilizzandoli in lucrosi affari, non vi potrà essere alcun progresso. A questo proposito l'art. 3 del disegno di legge introduce norme atte a garantire la tracciabilità dei flussi finanziari nelle procedure relative a lavori, servizi e forniture pubbliche. Le disposizioni proposte impongono ai contraenti di utilizzare conti correnti dedicati alle pubbliche commesse ove appoggiare i relativi movimenti finanziari, e di effettuare i pagamenti con modalità tracciabili (bonifico bancario o postale).


L'articolo 6 interviene nell'ambito delle «operazioni sottocopertura». A quali reati sarà estesa la disciplina quadro in materia? E quali sono le novità più significative?

L'art. 6 modifica la disciplina delle operazioni sotto copertura con la finalità da un lato di ampliarne l'ambito operativo, dall'altro di delineare una disciplina unitaria. Le indagini sotto copertura, secondo la previsione legislativa, vengono estese per i reati di estorsione, usura, sequestro di persona a scopo di estorsione, favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, reati in materia di stupefacenti e sostanze psicotrope, attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti.


L'articolo 10 prevede l'istituzione, in ambito regionale, della «Stazione unica appaltante» (Sua). Come funzionerà questo nuovo soggetto e quali benefici porterà?

L'art. 10 prevede l'istituzione in ambito regionale della Stazione unica appaltante al fine di garantire trasparenza, regolarità ed economicità nella gestione degli appalti pubblici di lavori e servizi e prevenire in tal modo le infiltrazioni di natura malavitosa.

giovedì 20 maggio 2010

Immigrazione. La questione dei rimpatri



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

mercoledì 19 maggio 2010

Nel 2009 i rimpatri volontari di clandestini dall'Italia sono stati soltanto 228, contro oltre 18 mila rimpatri non volontari. L’ha detto il ministro dell'Interno, Roberto Maroni, nel corso di una audizione alla Commissione congiunta Affari Costituzionali e Politiche Europee della Camera. «I rimpatri volontari - ha spiegato Maroni – sono pochissimi, non sembra che questa sia una strada che chi arriva in Italia decide di seguire». La direttiva direttica 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, prevede che uno Stato membro possa emettere una decisione di rimpatrio nei confronti di qualunque cittadino di un paese terzo il cui soggiorno nel suo territorio sia irregolare. Se il cittadino di un paese terzo è in possesso di un permesso di soggiorno valido o di un’autorizzazione equivalente rilasciati da un altro Stato membro deve recarsi immediatamente nel territorio di quest’ultimo. Se in virtù di accordi bilaterali, un altro Stato membro riprende il cittadino in questione, tale Stato membro sarà responsabile di emettere la decisione di rimpatrio. Per motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura, uno Stato membro può decidere di rilasciare un permesso di soggiorno autonomo o un’altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare a un cittadino di un paese terzo il cui soggiorno nel suo territorio è irregolare. La decisione n. 575/2007/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 maggio 2007, che ha istituito il Fondo europeo per i rimpatri per il periodo 2008-2013 nell'ambito del programma generale Solidarietà e gestione dei flussi migratori, e che abroga la decisione n. 2004/904/CE del Consiglio, stabilisce che il citato Fondo può finanziare azioni di portata nazionale, oppure azioni di dimensione transnazionale o comunitaria.

Per quanto riguarda le azioni nazionali, possono beneficiare del Fondo quelle volte a sviluppare una gestione integrata dei rimpatri e ad aiutare gli Stati a cooperare nel contesto dei piani di rimpatrio integrati (piani nazionali che predispongono una serie di misure volte ad incoraggiare programmi di rimpatrio volontario o forzato di cittadini di paesi terzi, in particolare per coloro che non soddisfano più le condizioni di ingresso e soggiorno sul territorio nazionale. Basati su una valutazione globale relativa alla popolazione di riferimento e alle difficoltà inerenti al rimpatrio delle persone in questione, tali piani comprendono essenzialmente misure destinate a garantire un ritorno duraturo nel paese di destinazione). Possono inoltre essere sostenute dal Fondo le misure destinate ad aiutare gli Stati membri ad applicare uniformemente la normativa europea in materia di rimpatri.

Per quanto riguarda il nostro ordinamento, il Testo Unico sull’immigrazione ha istituito un apposito fondo (art. 14-bis) nel quale confluiscono, tra le altre risorse, anche i contributi eventualmente disposti dall’Unione europea. Il programma pluriennale e i programmi annuali 2008 e 2009 relativi al fondo europeo per i rimpatri presentati dall'Italia sono stati formalmente approvati dalla Commissione europea (rispettivamente con decisione n. C(2008)8445 def. del 19 dicembre 2008, nonché con decisione n. C(2009)5898 del 23 luglio 2009). L’importo del contributo comunitario è stato pari a 5.867.000,57 euro per l’anno 2008 e 6.029.379,73 euro per l’anno 2009. Per il 2010 è di euro 6.323.613,10 e, in futuro, per il 2011 di 12.000.000,00 euro, per il 2012 di 17.000.000,00 euro, per il 2013 di 21.000.000,00 euro.

La nostra normativa è assolutamente in linea con le disposizioni comunitarie in materia e tutte le polemiche sollevate sulle iniziative del nostro paese per combattere la clandestinità e l’irregolarità sono da rispedire senza tanti fronzoli al mittente. Tutte le azioni che hanno visto impegnate persone del nostro paese, sia volontari sia appartenenti alle forze dell’ordine, nelle operazioni di salvataggio, cura e, nei casi di specie, rimpatrio degli immigrati, dovrebbero essere prese come esempio di giusto equilibrio tra rispetto della dignità umana e necessario vigore per combattere la clandestinità e l’irregolarità. Per quanto riguarda, invece, l’analisi semplice ma efficace fatta dal ministro Maroni in Parlamento è bene dire che fotografa quella che è la realtà dei fatti. I rimpatri volontari non sono uno strumento utile per combattere l’immigrazione clandestina ma possono diventare, insieme ai rimpatri volontari assistiti, degli utili supporti complementari all’interno di una complessa strategia che, in tema di esecuzione dell’espulsione, deve mettere al centro del meccanismo il rimpatrio forzato.

L’esempio della Spagna deve fare scuola. Nel 2008 il governo Zapatero aveva promosso un piano per stimolare il rimpatrio volontario degli immigrati che avevano perso il lavoro come conseguenza della crisi economica. Ad un anno di distanza, lo stesso governo spagnolo dovette ammettere, cifre alla mano, il sostanziale fallimento del progetto poiché solo 1.000 persone avevano aderito all’iniziativa, quando lo stesso esecutivo aveva inizialmente parlato di un bacino di 1,2 milioni persone interessate, salvo poi realisticamente attestarsi su una previsione di adesione al piano da parte di 100.000 immigrati. E’ ovvio, poi, che il rimpatrio, insieme a tutti gli altri strumenti di lotta all’immigrazione clandestina e irregolare non può essere un mezzo che da solo risolve tutti i problemi, anche perché è sempre meglio combattere le cause che limitarsi a reprimere gli effetti. Tuttavia si tratta di un mezzo utile anche per scoraggiare le partenze e, quindi, oltre ad essere un classico strumento di repressione, al contempo si è rilevato nei fatti anche un buon deterrente (supportato dall’accordo con la Libia). E, infatti, secondo il Ministero dell’Interno, dal 1 gennaio al 4 aprile di quest'anno sono arrivati in Italia 170 clandestini, contro i 4.573 dello stesso periodo del 2009 (-96%). Nel 2009 gli arrivi dei clandestini sulle cose italiane sono diminuiti del 74% rispetto al 2008 (fonte Ministero dell’Interno). Dal 1° gennaio 2008 al 31 dicembre 2009 i clandestini effettivamente rimpatriati sono stati 42.595 (fonte Ministero dell’Interno).

giovedì 13 maggio 2010

Immigrazione. In Italia nessuna rivolta come in Francia



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

mercoledì 12 maggio 2010

Le periferie italiane come le banlieu parigine? Le «aree deboli» delle nostre città possono essere teatro di rivolte dei giovani immigrati? Per Vincenzo Cesareo, docente presso l'università Cattolica di Milano e tra gli autori della ricerca «Processi migratori e integrazione nelle periferie urbane» presentata lunedì scorso a Milano la risposta è: «No, almeno per ora». Il disagio e il malessere, infatti, non sono tali da far pensare a fenomeni simili. Mancano cioè i presupposti che possano generare fenomeni simili a quelli delle rivolte parigine. «Il degrado e l'immigrazione in Italia, pur tendendo a cumularsi, non sembrano ancora coincidere - spiega Vincenzo Cesareo -. Gli immigrati vivono più spesso in una condizione di disagio abitativo, ma hanno un accesso al lavoro. Anche se precario». Inoltre, la seconda generazione di immigrati, in Italia, non ha ancora le dimensioni che assume nella società francese. «Se, quindi, almeno finora, non si possono assimilare le tensioni che si sono verificate nelle periferie italiane con quelle francesi - conclude Vincenzo Cesareo - non va però escluso che possa accadere in futuro».

La Francia è stata teatro di una serie impressionante di guerriglie urbane mentre in Italia i casi più clamorosi sono stati sostanzialmente tre: la mini-rivolta d'immigrati cinesi in via Padova a Milano, in reazione ad un legittimo controllo della polizia municipale, la protesta degli immigrati africani a Castelvolturno in Campania, dopo la sconvolgente strage che coinvolse 6 persone anch'esse di origini africane, e la rivolta di Rosarno, scoppiata con un pretesto e alimentata dalla rabbia per il disagio lavorativo e abitativo che alcuni braccianti stranieri erano stati costretti ad accettare per vivere ma che nel tempo era divenuto insopportabile. Insomma, stiamo parlando di reazioni non paragonabili neanche lontanamente alle violenze scoppiate in Francia. Non bisogna dimenticare, inoltre, che il governo francese nel 2005, per rispondere all'ondata di violenze che si era abbattuta in molte città del territorio nazionale, fu costretto a dichiarare lo stato di emergenza rispolverando una legge varata in occasione della guerra d'Algeria del 1955. Se l'entità delle proteste degli immigrati in Francia non è minimamente paragonabile con la situazione italiana, ancora più netta è la diversità dei presupposti alla base di queste reazioni.
Le differenze tra la situazione italiana e quella francese non possono ridursi al solo dato economico e numerico nel senso che l'accesso al lavoro, il numero d'immigrati presenti sul territorio, il disagio abitativo non spiegano in maniera esaustiva il motivo per cui in Italia il livello di conflittualità è notevolmente inferiore a quello che si registra in Francia. C'è un dato su tutti che pone una netta demarcazione tra le due realtà nell'ambito dei presupposti, e cioè che i rivoltosi in Francia sono soprattutto cittadini francesi figli del colonialismo che si sentono trattati dalla società transalpina come elementi di secondo piano della comunità nazionale, mentre in Italia si tratta d'immigrati, clandestini ma anche regolari, che esprimono un disagio strettamente legato all'ambito lavorativo e abitativo. Lì, fermo restando il disagio legato alla casa e al lavoro, c'è un problema culturale, d'identità nazionale e di promesse tradite d'integrazione nel tessuto della comunità, mentre qui i conflitti sono più legati alla sfera economica. Lì c'è stato un conflitto mosso da una parte dei cittadini francesi uniti agli immigrati disagiati mentre da noi il motore è stato una piccola parte della popolazione immigrata che vive e lavora nel nostro territorio in condizioni di estremo disagio o è vittima di violenze (escluso il caso di via Padova a Milano).
In Francia la conflittualità ha radici profonde ed investe non solo il campo socio-economico ma anche il tema dell'identità nazionale e della pari dignità e opportunità dei cittadini, e non è un caso che i primi episodi di violenza siano avvenuti già a cavallo tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli '80 mentre in Italia gli episodi sono più recenti e legati al fenomeno dell'immigrazione economica di massa che ha investito il nostro Paese dall'inizio degli anni '90 (i primi significativi episodi di conflitto, quindi, ci sono stati dopo poco meno di 20 anni dai primi consistenti arrivi di immigrati economici in Italia). Stiamo parlando, quindi, di due situazioni completamente diverse: da un lato, per quanto riguarda la Francia, del fallimento di un modello d'integrazione (quello assimilazionista) e dall'altro, il caso italiano, di un sistema economico che non riesce ad integrare al meglio i lavoratori immigrati (un problema che, comunque, leggendo gli ultimi International Migration Outlook dell'Ocse, investe tutti gli stati occidentali e non solo il nostro Paese). Secondo Angelo Panebianco «la politica assimilazionista francese puntava ad un'integrazione fondata su uno scambio: la concessione della «cittadinanza repubblicana», con i suoi diritti di libertà, in cambio di una privatizzazione del credo religioso, del divieto di far valere entro l'arena pubblica le appartenenze religiose. (...) In Francia non solo settori rilevanti della nuova immigrazione musulmana, ma anche molti figli e nipoti di quegli immigrati nordafricani che, alcuni decenni fa, scelsero con orgoglio di diventare "cittadini francesi" rifiutano oggi l' assimilazione: sposano, polemicamente, il separatismo culturale, contro l'appartenenza francese».
La politica dell'assimilazionismo, non solo è miseramente fallita perché fondata su un do ut des insostenibile nella realtà (la concessione della cittadinanza in cambio della negazione della propria identità culturale e religiosa), ma ha creato in Francia cittadini di serie A e di serie B e un risentimento diffuso da parte di questi ultimi che sfocia nel separatismo culturale e nell'avversione contro la stessa nazione di cui, almeno sulla carta, sono cittadini a tutti gli effetti.I fischi dei giovani cittadini francesi di origine maghrebina, prima delle partite della nazionale di calcio transalpina contro Tunisia, Marocco e Algeria non sono solo un fatto circoscritto all'ambito calcistico, ma un segnale evidente di malessere nei confronti della nazione in cui vivono e una dichiarazione di appartenenza a un'altra identità.

giovedì 6 maggio 2010

Lavoro: segnali positivi per l’Italia dall’Ocse e dall’Inps



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

mercoledì 05 maggio 2010

Il tasso di occupazione in Italia «è ancora ampiamente inferiore alla media dei paesi Ocse per diverse fasce di età». Lo sottolinea la stessa Ocse nel rapporto sulla riforma della regolamentazione in Italia presentata martedì, precisando tuttavia come «il tasso di partecipazione sia cresciuto stabilmente e il tasso ufficiale di disoccupazione sia passato da oltre l'11% nel 1998 al 6% dell'inizio del 2008, prima della crisi economica». Nel nostro Paese, spiega l'organizzazione di Parigi, «l'innovazione influisce positivamente sulla crescita economica ma la spesa in ricerca e sviluppo rimane bassa e questo è risultato, ad esempio, nella lenta introduzione del Itc in molti settori». I fattori «determinanti» per l'Ocse «comprendono la dimensione ridotta delle aziende italiane, gli ostacoli posti dalla regolamentazione, ad esempio nella distribuzione commerciale, un limitato accesso al capitale esterno e il sottosviluppo degli istituti di ricerca». Un altro aspetto problematico segnalato è quello dell'istruzione, poiché, si legge nel rapporto, «il capitale umano, misurato per il numero di anni di studio, influisce fortemente sulla produttività, ma il livello di conseguimento scolastico in Italia resta comparativamente basso, con significative variazioni regionali nei risultati raggiunti dagli studenti». L'Ocse riconosce infine che «l'integrazione di forti numeri d'immigranti nella forza lavoro ha rappresentato una successo per il mercato del lavoro e l'economia del Paese. L'immigrazione - conclude l'organizzazione - sembra aver in parte contribuito al notevole aumento dei tassi medi di partecipazione in Italia e quindi anche al sostegno della produzione».

L'Ocse, inoltre, ha riconosciuto l'impegno del governo italiano ed i conseguenti buoni risultati ottenuti in campo economico. Lo studio condotto dall'Ocse è confermato anche dagli ultimi dati disponibili sulla cassa integrazione. Per le richieste di cassa integrazione ad aprile, infatti, c'è stata una frenata congiunturale: rispetto a marzo si è registrato un calo del 5,7%, passando dai 122,6 milioni di ore autorizzate a 115,6 milioni. Più significativa la diminuzione per le autorizzazioni di cassa integrazione ordinaria (cigo): -22,5% rispetto a marzo. E ancora di più nel comparto industria, dove la flessione congiunturale della cigo è stata del 27,3% (solo nell'edilizia si è registrato un lieve incremento: +2,3%). Ad aumentare è invece la cassa integrazione straordinaria (+8% su base mensile e +192% rispetto a un anno prima).
Su base annua però le ore autorizzate di cig sono complessivamente aumentate del 52,9% (erano state 75,6 milioni), in gran parte a causa della cassa integrazione in deroga (cigd), che come tutti gli ammortizzatori in deroga fu varata proprio nell'aprile 2009. Nel solo mese di aprile 2010 sono state 25,6 milioni le ore di cigd autorizzate, che valgono quasi il 25% del totale del mese (in leggero calo rispetto a marzo: -5,9%). Per circa due terzi si tratta di ore autorizzate nel comparto commercio e artigianato (rispettivamente il 19,9% e il 44%). «A conferma del fatto che la rete di protezione degli ammortizzatori sociali si è stesa su imprese e settori produttivi che fino all'anno scorso erano privi di sostegno», ha sottolineato giustamente il presidente dell'Inps Mastrapasqua.
Insomma, seppur la crisi economica morde ed ai lavoratori che perdono il proprio posto non interessa certo che le dinamiche in Italia vadano meglio che altrove, è comunque opportuno segnalare ai fini del dibattito sullo stato di salute del mercato del lavoro di questo paese che il nostro sistema, dati alla mano, ha retto la pressione. E' ovvio che siamo ancora molto lontani dall'avere un meccanismo universale e meritocratico in cui tutti hanno la copertura sociale che si sono pagati con il proprio lavoro, fermo restando i meccanismi di solidarietà. Tuttavia, il dato della cassa integrazione in deroga, che ha allargato la base dei beneficiari degli ammortizzatori sociali ed ha aperto una breccia nell'iniquo welfare state italiano, è un primo segnale positivo cui certamente dovrà far seguito una riforma di ben più ampia portata.
Anche sui dati su base mensile ed annuale delle ore autorizzate di cassa integrazione va fatta una analisi intellettualmente onesta. E' chiaro che l'aumento del 52,9% su base annuale non fa altro che tradurre in cifre l'impatto della crisi economica sul mercato del lavoro ma è pur vero che la diminuzione su base mensile (-5,7%) dimostra come il trend negativo si stia arrestando.
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