sabato 30 gennaio 2010

Approvato alla Camera il «Ddl lavoro»



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

venerdì 29 gennaio 2010

Nei giorni scorsi la Camera dei Deputati ha approvato il disegno di legge in materia di lavoro che conferisce una serie di importanti deleghe al Governo per quanto riguarda lavori usuranti, riorganizzazione di Enti, congedi, aspettative e permessi, ammortizzatori sociali, servizi per l'impiego, incentivi all'occupazione, apprendistato, occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro. Ora la palla passa al Senato, che dovrà discutere il testo in quarta lettura. L'opposizione parlamentare ha accusato il Governo, da ultimo proprio con questo provvedimento, di perseguire lentamente l'obiettivo dell'abbassamento delle tutele per i lavoratori attraverso una serie di interventi chirurgici che, tra le altre cose, starebbero profondamente manomettendo l'impianto del Protocollo sul welfare del 2007 (legge n. 247 del 2007).

Innanzitutto, è bene ricordare che con quest'ultimo provvedimento, durante il Governo Prodi, si pagò in campo pensionistico il cosiddetto passaggio dallo «scalone» della riforma Maroni agli «scalini» (la riforma Maroni prevedeva il passaggio da 57 anni a 60 per andare in pensione; con il Protocollo del 2007, invece, i lavoratori, a partire da gennaio 2008, sono potuti andare in pensione a 58 anni e con 35 anni di contributi) anche attraverso l'aumento dei contributi per i lavoratori parasubordinati (4,4 miliardi di euro). In pratica furono tolte risorse ai lavoratori giovani e meno tutelati per darli a qualche cinquantenne con contratto a tempo indeterminato. Bel modo di tutelare i lavoratori! Sempre l'opposizione parlamentare ha dichiarato che l'obiettivo dell'abbassamento delle tutele dei lavoratori è stato perseguito cancellando nel tempo le norme concernenti la protezione delle lavoratrici dalle dimissioni in bianco, il libro paga, il libro matricole, ecc... Per quanto riguarda le norme relative alle dimissioni volontarie (introdotte con la legge n. 188 del 2007 sotto il Governo Prodi e abrogate con l'art. 39, comma 10, del decreto-legge n.112 del 2008, poi convertito con la legge n. 133 del 2008 nella legislatura in corso), la procedura abrogata tendeva da un lato a complicare la vita al lavoratore deciso a dare le dimissioni e, dall'altro, non risolveva il problema delle dimissioni in bianco.

Il ministro Sacconi, nel corso della sua audizione in Commissione Lavoro a Montecitorio il 10 giugno del 2008, fece il calzante esempio di un immigrato che ritorna nel paese d'origine, circostanza che determina una situazione per cui quel rapporto di lavoro continua a vivere e il licenziamento deve avvenire per giusta causa o per giustificato motivo, rientrando così in una fattispecie di cui è ben nota la complicazione. Questo dimostra come quel tipo di deregolazione non va certo a toccare una tutela. Diverso il caso, invece, di una persona conculcata nel proprio diritto e indotta a firmare in bianco una dimissione; qualunque magistrato chiederebbe subito alla persona che ha fatto ricorso di confermare e si accontenterebbe già di un semplice diniego e, se necessario, una prova calligrafica consentirebbe di individuare immediatamente l'anomalia di quel pezzo di carta. E potremmo ripetere questa affermazione per la tenuta del libro matricola, del libro paga nella gestione di un rapporto di lavoro. Non ha senso tenere libri di questo tipo. L'introduzione del libro unico del lavoro (art. 39 della legge n. 133 del 2008) ha certamente portato sia una ventata di cambiamento nelle abitudini contabili delle aziende e dei professionisti addetti al settore che una semplificazione auspicata e necessaria ad ammodernare il vecchio sistema appesantito da decreti, circolari e quant'altro, che complicava notevolmente il lavoro di tutti gli addetti.

Le semplificazioni apportate non hanno certo prodotto uno sconvolgimento delle tutele o dei modi con i quali si verifica la regolarità del rapporto di lavoro ma solamente un nuovo approccio degli ispettori ai controlli della vita aziendale in seno al lavoro dipendente. L’apparato sanzionatorio è stato profondamente rivisto ma non certo abrogato. Sono stati abrogati gli inutili formalismi che appesantivano il fardello burocratico per i datori di lavoro e nulla aggiungevano alle tutele sostanziali dei lavoratori. La prova è nel fatto che nel 2009 il numero delle violazioni sostanziali accertate è notevolmente incrementato rispetto all'anno precedente. Secondo i risultati dell'azione ispettiva del Ministero del Lavoro, nel 2009 a fronte di una diminuzione delle violazioni di carattere formale (-28% per la tenuta del libro unico del lavoro) sono fortemente aumentate le violazioni accertate in materia di lavoro 'nero' (+44%), di appalti e somministrazione (+193%), di orario di lavoro (+118%), di rispetto dello Statuto dei lavoratori (+208%), di truffe nei confronti degli Istituti di previdenza (+483%), di sicurezza sul lavoro (+53%). Questo vuol dire che la deregolamentazione in materia di regolarità del rapporto di lavoro, fatta da questo Governo, ha prodotto effetti positivi per tutti: per i lavoratori che ricevono più tutele sostanziali e meno formali, per i datori di lavoro che vedono alleggerirsi il carico burocratico, per gli ispettori e tutti i professionisti del settore che ora svolgono la propria attività in modo più semplice e proficuo rispetto al passato.

martedì 26 gennaio 2010

Intervista all'onorevole Giuliano Cazzola


di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

martedì 26 gennaio 2010

E' in discussione alla Camera il disegno di legge che conferisce la delega al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di Enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l'impiego, di incentivi all'occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro. Giuliano Cazzola, laureato in giurisprudenza, già dirigente generale dello Stato, professore a contratto di Diritto della previdenza sociale presso la Facoltà di giurisprudenza dell'Università degli studi di Bologna, giornalista pubblicista, in questa legislatura vicepresidente della Commissione Lavoro pubblico e privato di Montecitorio, è il relatore di questo provvedimento.

Onorevole Cazzola, cosa prevede il provvedimento in questione in materia di lavori usuranti?

In sostanza riapre i termini della delega, che nel passaggio tra la precedente legislatura e questa erano scaduti. Poi inserisce una clausola di garanzia nel caso in cui le domande per accedere ai requisiti pensionistici agevolati, riconosciuti ai lavoratori esposti ad attività usuranti, superino gli stanziamenti previsti. Quanto a benefici, a regime, i lavoratori esposti a tali attività potranno andare in pensione fino a tre anni prima degli altri.

In Commissione Lavoro è passato un suo emendamento in tema di scuola e apprendistato che ha suscitato non poche polemiche da parte di sindacati ed esponenti dell'opposizione parlamentare. Di cosa si tratta? E come risponde alle polemiche?

E' una tempesta in un bicchier d'acqua. In verità noi offriamo un'opportunità in più ai ragazzi. La sinistra, nella passata legislatura, ha introdotto il diritto-dovere d'istruzione per la durata di un decennio (da 6 a 16 anni), ma non sono stati modificati gli ordinamenti e i cicli scolastici. In sostanza, si tratta di uno «scampolo» di istruzione, dopo la scuola media, spesso ritenuto inutile da parte dei ragazzi che non intendono continuare gli studi. La legge consente, inoltre, di adempiere all'obbligo di istruzione frequentando dei percorsi organizzati dalle strutture, pubbliche e private, del sistema della formazione professionale regionale. Il mio emendamento - se sarà approvato in via definitiva - riconoscerà la possibilità di entrare nel mercato del lavoro a 15 anni soltanto attraverso un rapporto a causa mista e ad alto contenuto formativo, come l'apprendistato, rispettando, nel contempo, l'obbligo di istruzione. Non è modificata la norma che ha elevato a 16 anni l'età minima per l'accesso al lavoro. Non sarà consentito, infatti, di fare l'operaio o l'impiegato a 15 anni; l'apprendista sì, perché tale rapporto ha un contenuto prevalente d'istruzione e formazione. L'articolo 48 della legge Biagi - a cui si riferisce l'emendamento - stabilisce, addirittura, che «la regolamentazione dei profili dell'apprendistato per l'espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione è rimessa alle Regioni», d'intesa con i Ministeri del Lavoro e dell'Istruzione pubblica, sentite le parti sociali. Quanto previsto dall'emendamento diventerà operante solo a valle di tale percorso.

La piaga del lavoro sommerso è tornata prepotentemente sotto la luce dei riflettori dei media con i noti fatti di Rosarno. Il ministro Sacconi ha dichiarato che ci sarà tolleranza zero da parte del Governo contro il lavoro irregolare. Che cosa prevede il ddl sul lavoro in materia?

C'è una norma precisa di contrasto del lavoro irregolare nel «collegato», che punta a perseguire con maggiore impegno le violazioni sostanziali piuttosto che quelle formali.

Da tempo si parla della riforma degli ammortizzatori sociali. Quando verrà realizzata e secondo quali criteri?


Nel «collegato» al Senato è stata introdotta un'ampia norma di delega per disciplinare questa materia. Tra l'altro è stata riaperta la stessa delega che il Governo Prodi aveva inserito nella legge di recepimento del Protocollo sul welfare del 2007. Poi il ministro Sacconi ha in preparazione anche lo Statuto dei lavori che dovrebbe meglio definisce i soggetti a cui vanno riconosciuti ed erogati gli ammortizzatori sociali.

Tutti gli studi ci dicono che l'impatto della crisi sul mercato del lavoro italiano è stato fino a oggi moderato rispetto a molti altri paesi OCSE. Quale è, a suo avviso, la chiave di lettura di questi dati?


E' un trend destinato ad aggravarsi, anche se il tasso di disoccupazione resterà al di sotto di quello medio europeo. Di chiavi di lettura ce ne possono essere tante. Io ne ricordo in particolare due: il Governo ha messo a disposizione delle imprese, nella fase più acuta della crisi, risorse importanti che hanno garantito il mantenimento di un rapporto con i lavoratori. Poi la crisi non ha colpito ovunque nello stesso modo: alcuni settori hanno tenuto meglio di altri. Purtroppo sono stati i cosiddetti «precari» ad aver pagato un prezzo più alto.

venerdì 22 gennaio 2010

La contraffazione frena lo sviluppo delle piccole e medie imprese



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

giovedì 21 gennaio 2010

Secondo una ricerca Confcommercio-Format, i fenomeni criminali che più incidono negativamente sulla competitività delle piccole e medie imprese riguardano l'abusivismo (24,8%), la contraffazione commerciale (22,2%) e l'azione della criminalità (15,6%). Aumentano le Pmi che investono in sicurezza (+5,3% nel 2009 in confronto al 2008) e si spende di più per proteggersi dalla criminalità. Il 22,2% delle imprese destina oltre il 5% dei ricavi ai costi per la sicurezza (+8,4% nel 2009 rispetto all'anno precedente). Migliora la percezione del livello di sicurezza degli imprenditori: nel 2009 si sente poco sicuro l'11,2%, contro il 24,5% del 2008. Cresce la fiducia verso le forze dell'ordine (+7,9% nel 2009 rispetto al 2008) e verso il governo (+8% nel 2009 in confronto all'anno precedente). I soggetti che le imprese sentono «più vicini» sono le forze dell'ordine (41,2%) e le associazioni di categoria (22,2%). Tra le iniziative ritenute più efficaci per ridurre il rischio dei fenomeni criminali (furti, rapine, estorsioni ed usura) le Pmi indicano le pene più severe e la certezza della pena (93,1%), una maggiore collaborazione tra gli imprenditori e le forze dell'ordine sul territorio per affrontare i problemi della sicurezza (89,9%; +4,7% rispetto al 2008). L'86,1% delle Pmi ritiene importante che le associazioni di categoria si costituiscano parte civile nei processi legati alla criminalità organizzata e l'85,9% delle imprese è d'accordo che le associazioni di categoria sostengano e assistano gli imprenditori che denunciano episodi di racket e usura e, allo stesso tempo, sospendano coloro che, colpiti dalla criminalità, non collaborino con le istituzioni, le forze dell'ordine e la magistratura.

Secondo l'indagine «Oltre il Made in Italy», condotta dall'Ufficio Studi della Camera di Commercio di Monza e Brianza, il costo della contraffazione pagato dalle imprese italiane è di cinquanta miliardi all'anno, 16 mila euro ad azienda. Un costo che bisogna aggiungere ovviamente ai 7,5 miliardi all'anno spesi complessivamente dalle aziende italiane in invenzioni, marchi e brevetti. Secondo la Confartigianato, l'industria del falso sottrae ogni anno alle imprese manifatturiere 6 miliardi di euro, bruciando 1,5 miliardi di euro in termini di evasione dell'Iva e circa 120.000 posti di lavoro in tutta l'Unione Europea. Secondo un rapporto della Guardia di Finanza «in Italia l'industria del falso non conosce crisi. Tanto che ormai un italiano su cinque ammette di acquistare, abitualmente o saltuariamente, prodotti "taroccati". Nella classifica delle vendite di merci "taroccate" spiccano gli articoli di abbigliamento, gli accessori, i dvd, i cd e le videocassette. L'area di Napoli, l'hinterland milanese e la provincia di Prato sono i principali centri di produzione del falso italiano, mentre la Cina si conferma leader nelle esportazioni di prodotti contraffatti. Quanto all'atteggiamento verso la contraffazione, la maggior parte degli imprenditori la condanna e vorrebbe un'azione repressiva più efficace, mentre presso i consumatori prevale l'indulgenza». Ed è proprio l'indulgenza del consumatore, unita alla sua propensione all'acquisto di merci contraffatte, il vero problema da affrontare, perché è evidente che l'offerta del «falso» soddisfa chiaramente una domanda.

Secondo un rapporto del 2007 dell'Ocse («The economic impact of counterfeiting and piracy»), va fatta un'importante distinzione tra mercato primario e secondario: nel primo i consumatori comprano un prodotto contraffatto credendolo un prodotto originale, in quanto ingannati, mentre nel secondo essi comprano consapevolmente prodotti contraffatti perché più economici. La differenza di atteggiamento sarebbe riconducibile alle caratteristiche di prodotti e ai rischi connessi (per esempio, i farmaci rientrano nel mercato primario). Secondo il citato rapporto stilato dalle Fiamme Gialle, «dal lato istituzionale le armi per la lotta alla contraffazione sono legate all'uso degli strumenti della normativa civile e penale. Si può ipotizzare anche ad azioni correttive e non sanzionatorie quali l'abbassamento dell'Iva del 4%, la diminuzione di prezzo dei prodotti legali, la cooperazione internazionale».

Il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli, ha recentemente affermato che contraffazione e abusivismo sono problemi che devono essere affrontati con tolleranza zero perché creano uno squilibrio profondo nel mercato, ed un mercato senza leggi diventa inevitabilmente un mercato fuorilegge. Contraffazione e abusivismo creano evidenti effetti negativi e distorsivi nelle dinamiche del libero mercato, che per antonomasia è metaforicamente un campo di gioco livellato; ma, soprattutto, questi elementi spesso si rivelano dannosi per la salute degli stessi consumatori. E i danni personali non finiscono qui, perché bisogna tenere ben presente che, non essendo associato all'acquisto del prodotto falsificato alcun surplus tipico delle vendite regolari, come ad esempio il servizio post-vendita e la garanzia, il rapporto qualità/prezzo diventa con tutta evidenza sfavorevole. Insomma, il consumatore deve capire bene che quando acquista consapevolmente merce contraffatta ha prodotto due categorie di danni: danni alla collettività e danni personali.

venerdì 15 gennaio 2010

Agricoltura e lavoro irregolare



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

giovedì 14 gennaio 2010

I fatti di Rosarno, che tra le altre cose hanno accesso per l'ennesima volta le luci dei media sullo sfruttamento di alcuni lavoratori stranieri nelle campagne italiane, hanno riportato alla ribalta il tema del lavoro irregolare in agricoltura. Martedì scorso il ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Maurizio Sacconi ha riunito i Presidenti degli Enti previdenziali (Inps e Inail), i Direttori generali dei Servizi ispettivi e della Tutela delle condizioni di lavoro del Ministero, il Comandante del Nucleo Carabinieri Tutela del lavoro per intensificare una specifica, coordinata e capillare attività di contrasto dei fenomeni di illegalità e di sfruttamento del lavoro irregolare in agricoltura. Nel corso della riunione il Ministro ha sottolineato, tra l'altro, come anche l'introduzione del voucher - buono lavoro - rappresenti un efficace strumento di regolarizzazione e di emersione proprio per tutti quegli spezzoni lavorativi tipici delle attività di raccolta breve in agricoltura. E che, dunque, anche alla luce di questa significativa novità, ampiamente utilizzata nelle Regioni del Nord e di fatto non impiegata in quelle del Sud, non vi possano essere più alibi per i datori di lavoro. Gli stessi flussi di lavoro stagionale sono regolati da quote non del tutto utilizzate per cui l'impiego di lavoratori clandestini non trova giustificazione alcuna.

Secondo il rapporto Inea del 2009, nel periodo 1989-2007, c'è stato un incremento di più del 700% dei cittadini extracomunitari utilizzati nell'agricoltura nazionale, passati dalle 23.000 persone del 1989 alle circa 172.000 del 2007. Un rapporto del 2008 di Medici Senza Frontiere, dall'emblematico titolo «Una stagione all'inferno», aveva lanciato un preoccupante allarme sul drammatico sfruttamento degli immigrati nell'agricoltura italiana, segnalando paghe da fame e orari massacranti per tutti e lavoro in nero per la gran parte. Msf aveva intervistato da luglio a novembre del 2007 circa 600 immigrati (il 72% senza regolare permesso di soggiorno) impegnati nella raccolta di prodotti agricoli come pomodori, kiwi, uva, meloni, agrumi. Furono otto i centri sottoposti all'indagine (Piana del Sele; provincia di Latina e di Foggia; Metaponto; Valle del Belice; Palazzo San Gervasio; Piana di Gioia Tauro) e questi furono i principali risultati: il 90% del campione non possedeva alcun contratto di lavoro; ogni giorno (in media il lavoro era per meno di 4 giorni la settimana) l'orario era di 8/10 ore; la metà degli intervistati guadagnava tra i 26 e i 40 euro, mentre poco più di un terzo 25 euro o meno; il 37% dichiarava che dalla paga giornaliera venivano sottratti dai 3 ai 5 euro per i caporali.

Secondo l'Istat («La misura dell'economia sommersa secondo le statistiche ufficiali. Anni 2000-2006») nel 2006, nell'ipotesi massima, il valore aggiunto sommerso nel settore agricolo è stato pari al 31,4% del valore aggiunto totale della branca (8.538 milioni di euro), nel settore industriale il 10,4% (42.022 milioni di euro) e nel terziario il 20,9% (199.414 milioni di euro). Come vediamo è proprio l'agricoltura ad avere il triste primato del settore in cui l'economia sommersa incide di più. Nel 2007, sempre secondo l'Istat («Noi Italia, 100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo, edizione 2010»), il settore agricolo aveva anche la percentuale d'incidenza più alta del lavoro irregolare sul totale delle unità lavorative (24,2% in agricoltura, 3,8% nell'industria in senso stretto, 9,8% nelle costruzioni e 13,4% nei servizi). Il Mezzogiorno era in cima alla classifica con il 25,3% (Centro 23,1%, Nord-Est 22,9% e Nord-Ovet 23,4% ), mentre su base regionale il primato spettava alla Calabria (27,3%).

Insomma, in agricoltura, soprattutto negli ultimi anni, c'è stato un ricorso massiccio allo sfruttamento della manodopera straniera; nel settore, inoltre, un lavoratore su quattro in media è irregolare ed il valore aggiunto del sommerso è quasi 1/3 del totale della branca. Inoltre, già due anni fa, la Coldiretti aveva denunciato che racket, pizzo e altri fenomeni malavitosi comportavano danni alle campagne italiane per 7,5 miliardi di euro (10 miliardi secondo la Cia - Confederazione Italiana Agricoltori) e spingevano in alto i prezzi degli alimenti; la stessa associazione di categoria aveva anche affermato che «la criminalità, sia italiana che straniera, controlla in modo pesante la manodopera, specie in nero, offerta soprattutto da immigrati, con rilevanti ripercussioni sotto il profilo del rispetto dei diritti umani e della salute, della violazione delle norme sull'immigrazione, dell'evasione contributiva, con riflessi anche dal punto di vista della concorrenza sleale che ne deriva nei confronti delle imprese che rispettano le leggi».

Tutti questi dati ci dicono che lo stato di salute della nostra agricoltura non è certo dei migliori. L'intervento dello Stato non può che essere salutato in maniera positiva ma è pur vero che anche gli operatori del settore dovranno fare la loro parte. Se c'è un lavoratore irregolare vuol dire che, almeno in quel caso di specie, non c'è stata un'azione di controllo da parte delle istituzioni ma anche che c'è almeno un datore di lavoro che non ha rispettato la legge e che nessuna associazione a tutela dei lavoratori si è accorta o ha segnalato alle autorità competenti quel problema (e sarebbe grave se l'avesse fatto senza ricevere alcuna risposta).

domenica 10 gennaio 2010

Emergenza immigrazione



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

venerdì 08 gennaio 2010


Centinaia di auto distrutte, cassonetti divelti e svuotati sull'asfalto, ringhiere di abitazioni danneggiate. Scene di guerriglia urbana a Rosarno, nella Piana di Gioia Tauro, per la rivolta di alcune centinaia di lavoratori extracomunitari impegnati in agricoltura e accampati in condizioni inumane in una vecchia fabbrica in disuso e in un'altra struttura abbandonata. A fare scoppiare la protesta è stato il ferimento, da parte di persone non identificate, di alcuni extracomunitari con un'arma ad aria compressa.

Tra Rosarno, l'ex fabbrica in disuso, e Gioia Tauro in un immobile dell'ex Opera Sila sono circa 1.500 gli extracomunitari che lavorano come manodopera nell'agricoltura. Gli immigrati regolari in Calabria sono circa 45 mila, ma si stima che altri 8 mila vivano e lavorino nella regione in modo clandestino. I dati sono quelli del 6° rapporto sull'economia sommersa in Calabria (che sarà pubblicato fra una decina di giorni), dove si sottolinea che il 53% dei lavoratori irregolari nella regione (170 mila nel complesso) opera nel settore agricolo; di questi, il 40% circa riguarda gli immigrati, sia regolari che clandestini. Fra l'altro, in generale, in Calabria il lavoro in nero coinvolge un occupato su cinque, per un totale di 170.200 lavoratori. Un dato che determina alle casse dello Stato la perdita di 2 miliardi di euro all'anno.

La Calabria è terra di emigrazione vecchia e nuova. Molti dei cittadini italiani nati in quella regione conoscono il problema di chi deve lasciare la propria terra in cerca di un futuro migliore. Tuttavia non si può chiedere a questa gente di non avere paura quando, come nel caso di specie, scoppiano situazioni di violenza generati da alcuni immigrati. Il cittadino di Rosarno, oggi lui e domani magari qualche altro, non si tranquillizza nel sapere che quegli episodi sono frutti dell'esasperazione. Non si può, quindi, chiedere alla persone di non avere paura ma bisogna parlargli, rassicurargli che qualcosa sarà fatto, dare seguito alle promesse e chiedere a quelle stesse persone di partecipare ad un progetto di legalità. In caso contrario la violenza genererà altra violenza in una spirale pericolosa e difficilmente inarrestabile.

A seguito dei fatti di Rosarno, il ministro dell'Interno, Roberto Maroni, ha convocato venerdì mattina una riunione al Viminale. Al termine dell'incontro è stato deciso di costituire con effetto immediato presso la Prefettura di Reggio Calabria una task-force composta dal Ministero dell'Interno, quello del Lavoro e la Regione Calabria, per affrontare la questione non solo dal punto di vista dell'ordine pubblico, ma anche per quanto riguarda gli aspetti legati allo sfruttamento del lavoro nero e all'assistenza sanitaria.

Bene ma non basta. Ed è proprio questo il punto. Se si vuole tornare alla legalità, non solo a Rosarno, bisognerà condurre una decisa azione a 360 gradi. I soggetti promotori di questa azione non possono essere solo le articolazioni dello Stato (ministeri, amministrazioni locali, forze dell'ordine). E' indispensabile anche l'apporto delle associazioni di categoria (in primis quelle rappresentative dei datori di lavoro e dei lavoratori) e degli stessi cittadini ed immigrati. Tutti possono e devono fare la propria parte perché l'unica via d'uscita, ma allo stesso tempo la sola forma di prevenzione, è la collaborazione tra tutti questi soggetti, la cui azione dovrà necessariamente avere come stella polare la legalità. In caso contrario, quello di Rosarno, purtroppo, rischia di non essere un caso isolato. Lì, come altrove, c'è stata una pericolosa sommatoria di fattori di illegalità: immigrazione clandestina, lavoro nero, sfruttamento. In quelle zone c'è poi anche un problema specifico: il rapporto tra clandestinità, lavoro nero in agricoltura e organizzazioni criminali. Non si può non riconoscere che la concomitanza di questi elementi rappresenti una inequivocabile miscela esplosiva pronta a deflagrare.

A Rosarno, come altrove nel nostro paese, ognuno ha le sue responsabilità: l'immigrato che non rispetta la legge italiana in materia di ingresso e permanenza nel nostro paese; l'immigrato che, magari esasperato dallo stato di degrado in cui vive, ad un certo punto coglie un pretesto per scaricare la sua rabbia in atti di violenza; l'immigrato venuto nel nostro paese solo per delinquere; l'italiano che sfrutta il lavoro nero dei clandestini; l'italiano che sfrutta i clandestini dandogli un alloggio in nero e pagato a peso d'oro, spesso in condizioni igienico-sanitarie precarie; le organizzazioni criminali che magari lucrano sul traffico dei clandestini e sul loro lavoro nero nel nostro paese. Chi paga il costo sociale di tutto questo? Tutti gli altri: italiani che non hanno a che fare con queste forme intollerabili di sfruttamento e gli immigrati regolari che lavorano tranquillamente e non delinquono.
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