mercoledì 30 gennaio 2008

Università italiana: no al Papa, sì a Lenin



di Antonio Maglietta - 29 gennaio 2008

Pensavamo di averle viste tutte dopo le polemiche sulla vicenda della mancata partecipazione del Papa all'inaugurazione dell'anno accademico dell'università La Sapienza di Roma. Ed invece no. Lunedì il rettore dell'Università della Basilicata, in occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico, prima replica a Il Giornale, poi ironizza su Berlusconi, infine cita una poesia di Lenin: è il mix che fa esplodere la protesta dei politici del centrodestra della Regione lucana. «Non potevamo avallare le sue parole», ha spiegato il senatore di An e sindaco di Matera, Emilio Nicola Buccico, che lunedì mattina ha abbandonato la cerimonia per protesta, assieme al senatore azzurro Vincenzo Taddei e al capogruppo alla Regione di Forza Italia, Cosimo Latronico.

Quella che la CdL ha definito «l'ennesima caduta di stile» del rettore Antonio Tamburro ha avuto come prologo il rilievo mosso sulla classifica degli atenei italiani fatta dal quotidiano di Mario Giordano, che piazza quello lucano tra gli ultimi posti in classifica: «Siamo stati inseriti tra gli ultimi, tra le università "rosse" - ha commentato Tamburro - senza che sia stato citato un solo dato». Quindi è stata la volta dell'«amarezza» per la caduta del governo Prodi: «Questo è l'inverno del nostro scontento - ha chiosato il rettore, mentre gli altoparlanti diffondevano il Valse Triste di Sibelius - perché oggi doveva essere firmato un accordo trilaterale che istituiva tre centri di ricerca di alto livello; cosa che, purtroppo, non avverrà, essendo il governo ormai condannato all'ordinaria amministrazione». Il pensiero di Tamburro, non proprio amichevole, è andato anche agli anni di governo di Berlusconi: «Il presidente Berlusconi cosa ha fatto durante il suo premierato? E allora... "Che fare"? E' il titolo di un famoso saggio di Lenin - ha ricordato Tamburro - che è diventato un classico». A questo punto gli esponenti del centrodestra, giudicata colma la misura, hanno deciso di lasciare la sala, mentre il rettore commentava: «Se siamo arrivati al punto che non possiamo più citare neanche la letteratura...».

Il commento, durissimo, del centrodestra è arrivato nel pomeriggio: nell'esprimere indignazione per l'accaduto, il coordinatore regionale di Forza Italia Viceconte accusa il rettore di aver «oltrepassato ogni limite con un discorso più consono al clima carnevalesco che al ruolo importante e fondamentale che dovrebbe tenere quale mentore dell'Università di Basilicata». Riprovazione, poi, da parte della CdL, per le frasi «sull'ombra oscura e triste che arriverebbe con le nuove elezioni e l'eventuale vittoria del centrodestra», per gli attacchi «diretti e inopinati» nei confronti di Berlusconi, e per «la musica a requiem, come se si fosse in un teatro e non in una università». «Un discorso politico e di cattivo gusto che non ha rispetto del ruolo che questo signore ricopre - sottolinea Taddei - e che ha suscitato imbarazzo e vergogna nell'intera assemblea. La superficialità di Tamburro, per la verità non nuovo a queste uscite, è assolutamente indecente. Un rettore dovrebbe pensare ai problemi reali dei giovani, a quelli di un ateneo che non fa nulla contro l'emigrazione giovanile, ad un polo di formazione e istruzione che da tempo non riesce a decollare e che - insiste il senatore azzurro - con questi signori ai vertici stenterà a diventare un volano per lo sviluppo e per la guida dei nostri giovani. La nostra regione ha problemi enormi di spopolamento, la ricerca annaspa e non è assolutamente raccordata al mondo produttivo: queste sono le problematiche che il signor Tamburro dovrebbe affrontare e magari pensare di risolvere».

Bisogna aggiungere che il rettore fa l'ingenuo rivendicando la libertà di citare l'opera di Lenin Che fare?. Infatti non stiamo parlando di un qualsiasi scritto, ma del saggio che delinea in modo sistematico la sua teoria dell'organizzazione e la strategia del partito rivoluzionario del proletariato. Insomma, qualcosa da maneggiare con le molle, soprattutto alla luce delle polemiche sul simbolismo invocato dai professori della Sapienza che polemizzavano con il rettore dell'ateneo romano per l'invito fatto al Papa in occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico. In Italia siamo arrivati al paradosso che nelle nostre università, all'apertura dell'anno accademico, Lenin può parlare (attraverso le sue opere) e il Papa no.

Antonio Maglietta

lunedì 28 gennaio 2008

Il Rapporto Eurispes



di Antonio Maglietta - 26 gennaio 2008

Quattro handicap frenano il sistema-Italia: istruzione, concorrenza, finanza, giustizia. Questa l'analisi dell'Eurispes, che nel Rapporto 2008 (i dati sono relativi all'anno 2007) sottolinea come queste quattro «caratteristiche strutturali del sistema economico-giuridico-sociale italiano contribuiscano a tenere compressa la dimensione media d'impresa, arretrata la specializzazione produttiva e stagnante la produttività». In particolare, l'istituto segnala «un sistema nazionale di innovazione e di istruzione inadeguato; un basso livello di concorrenza nei mercati dei beni e dei servizi, a cominciare da quelli di pubblica utilità, e una struttura finanziaria che non incoraggia abbastanza i piccoli e medi imprenditori a compiere salti dimensionali». La stoccata finale è per la «cultura giuridico-amministrativa arcaica, indifferente e ostile alle ragioni dell'efficienza e del mercato».

Tutto questo mentre le famiglie sono sempre più povere e la fiducia nel futuro è ai minimi storici. Se guardiamo alla situazione economica, solo poco più di un terzo delle famiglie italiane (38,2%) riesce ad arrivare alla fine del mese, contro il 52,6% del 2006. E gli italiani sono sempre più pessimisti: il 69,5% nel 2007 contro il 51,9% nel 2006, con un incremento di quasi 18 punti percentuali, esprime pareri negativi in merito al quadro economico nazionale.

Per quanto riguarda i prezzi, secondo il 90,3% degli italiani sono aumentati. Le categorie di consumo colpite in particolare dagli aumenti sono il carburante per le auto (95,5%) e i beni alimentari (94,5%). Significativi aumenti vengono avvertiti nella categoria immobiliare (79,3%), quella dei pasti e delle consumazioni fuori casa (79,1%) e in quella dei trasporti (77,6%). Gli italiani lamentano aumenti nel settore scolastico (73,9%), del vestiario e delle calzature (70,4%). Il 65,2% denuncia la crescita delle spese sanitarie mentre il 65% sostiene che l'aumento abbia interessato anche il comparto delle vacanze e dei viaggi. Frequente l'abitudine di acquistare prodotti in saldo (il 67,9% lo fa molto o abbastanza spesso) o la disponibilità a cambiare marca di un prodotto se più conveniente (55,2%). Complessivamente, il 64,4% dei cittadini preferisce fare acquisti di vestiti nei grandi magazzini o negli outlet. Lo stesso comportamento viene attuato per l'acquisto dei prodotti alimentari: in punti vendita più economici come i discount (54,8%).

Un italiano su quattro, poi, ricorre al credito al consumo. Il 44,2% degli italiani acquista a rate per motivi di scarsa liquidità ed il 19,7% perché non aveva altre soluzioni per acquistare un bene/prodotto/servizio indispensabile. Vi è un 15,6% che si lascia «sedurre» dalle offerte commerciali dei negozi che, in alcuni casi, pubblicizzano prodotti riportando addirittura il solo prezzo della mini-rata mensile. Solo nel primo semestre del 2007 gli italiani hanno chiesto finanziamenti per un importo complessivo pari a circa 93.910 milioni di euro. Mutui soprattutto per l'acquisto di immobili, 262 miliardi circa nel 2007.

Guardiamo, poi, alla situazione di quelle che si potrebbero definire le economie parallele a quella ufficiale (economia sommersa e criminale). L'economia sommersa ha prodotto almeno 549 miliardi di euro nel 2007. Secondo i calcoli dell'Eurispes, il nostro sommerso attualmente equivale ai Pil di Finlandia (177 mld), Portogallo (162 mld), Romania (117 mld) e Ungheria (102 mld) messi insieme. Il 54,6% dell'economia non osservata è rappresentato dal lavoro sommerso, il 28,4% dall'evasione fiscale ad opera di aziende e imprese ed il 16,9% dalla cosiddetta economia «informale» (s'intende il fatto che l'organizzazione delle attività economiche si basa su rapporti personali e su norme di comportamento che fanno riferimento a tradizioni o credenze non scritte, estranee alle leggi vigenti, non controllabili o sanzionabili dalle autorità pubbliche). L'incidenza dell'economia sommersa rispetto al Pil ufficiale prodotto nel nostro Paese è di almeno il 35,5%. Per quanto riguarda l'economia criminale, il giro d'affari è equivalente ai Pil di Paesi come l'Estonia (25 mld), la Romania (97 mld), la Slovenia (30 mld) e la Croazia (34 mld) messi insieme, con un'incidenza sul Pil di almeno l'11,3%. Se si somma al sommerso l'economia criminale, quella legata alle mafie o altre forme di criminalità organizzata, si arriva a 725 miliardi, quasi la metà del Pil prodotto ufficialmente.

Sicurezza: si stima che il bilancio dei crimini stia per raggiungere quota tre milioni, un vero e proprio record. Nel 30,6% dei casi gli italiani, pur essendo stati vittima di reati, hanno preferito non denunciare l'accaduto agli organi competenti. Il 42,4% degli italiani ha installato un allarme antifurto in macchina, mentre il 33,3% ha preferito montarne uno a difesa della propria casa. Dati allarmanti, che segnalano un preoccupante senso di sfiducia nelle istituzioni ed un aumento della voglia del tutelarsi in proprio.

In pratica il Rapporto Eurispes, confermando da ultimo le analisi di altri studi condotti sullo stato di salute del nostro Paese, disegna un quadro economico e sociale a tinte fosche, peggiorato e reso oramai insopportabile dalla inefficienza del fu governo Prodi, che non ha saputo dare alcuna risposta soprattutto in tema di sicurezza e difesa del potere di acquisto degli italiani.

Antonio Maglietta

venerdì 25 gennaio 2008

Non c'è crescita senza l'aumento dei consumi


di Antonio Maglietta - 24 gennaio 2008

Consumi al palo, crescita lenta, redditi ai minimi: la fotografia scattata dal «Rapporto sui consumi» dell'Ufficio studi di Confcommercio è un segnale di allarme a 360 gradi. Solo sull'inflazione l'associazione di categoria lancia segnali distensivi, respingendo la tentazione diffusa a «criminalizzare» il settore: «È al di sotto della media europea, alimentata da tensioni specifiche sulle materie prime agricole e petrolifere - sottolinea il presidente Carlo Sangalli - anche perché la rete distributiva commerciale ha contribuito al contenimento dei prezzi». Secondo le stime dell'Ufficio studi di Confcommercio, nel 2008 l'inflazione resterà stabilmente sopra il 2,5 per cento (contro previsioni iniziali al 2,3), contro stime continentali di Eurostat stabilmente oltre il 3. Il problema è la crescita «più che lenta, lentissima», dice Sangalli. Intanto la spesa sul territorio economico, termine tecnico che raggruppa i consumi in Italia, è data in crescita dell'1,2 per cento nel 2008 contro l'1,5 dell'anno scorso. Il calo dei consumi è molto differenziato sul territorio: 1,1 per cento nel Mezzogiorno e nelle isole, 1,4 nel Nord-est e al Centro, 1,5 nel Nord-ovest.

I redditi degli italiani, poi, sono fermi ai livelli del 1992: sono rimasti stagnanti o decrescenti per 20 anni, con una crescita minima tra il 1980 e il 2007 dell'1%. In realtà, però, ha spiegato il responsabile del Centro Studi di Confcommercio, «la crescita è avvenuta nel periodo tra il 1980 e il 1992 e si è bloccata», per cui oggi i redditi sono allo stesso livello del '92. Un ultimo dato è quello relativo al quoziente qualitativo di benessere (Qbb), vale a dire quanto si spende nel "tempo liberato" per ogni euro speso in "consumi di base". Il Qbb italiano vale poco meno di 55 centesimi ed è decisamente poco: in Gran Bretagna è 90 centesimi, in Irlanda 85, in Spagna 75, in Francia 60, in Germania 65. Il paese più vicino a noi e' la Grecia, a 50 centesimi. Lecito chiedersi che cosa abbia sostenuto i consumi, dal 2000 in poi, visto che sicuramente non sono stati i redditi. «La ricchezza esistente - spiega Bella - è in gran parte una ricchezza immobiliare". Facile immaginare che fine farebbe tutto questo in uno scenario di frenata dei valori degli immobili (che sono il primo asset delle famiglie del Sud) o addirittura di esplosione della bolla speculativa. La ricetta per uscirne, secondo Sangalli, è la solita medicina che tutti prescrivono ma alla fine mai si adotta: «Bisogna fare tre cose - spiega il numero uno di Confcommercio - e sono tre cose urgenti: ridurre la spesa pubblica, alleggerire la pressione fiscale e adottare misure di contrasto all'evasione». Intanto «il momento in cui si interverrà sulle tasse - spiega Mariano Bella - viene continuamente spostato in avanti e, stando a Bankitalia, il carico fiscale complessivo sui redditi resterà intorno al 43 per cento fino a tutto il 2010». «La verità - continua il responsabile dell'Ufficio studi di Confcommercio - è che dopo 20 anni di tentativi di ripresa, mai diventata crescita, e di calo del reddito disponibile, siamo ai minimi storici».

Il leitmotiv, suonato all'indirizzo di un governo che forse al momento sta ascoltando tutt'altro, parte dal dato di fatto, sottolineato da Sangalli, che «i consumi sono il 70 per cento del Pil» e che non è possibile una crescita reale senza crescita dei consumi. Il quadro fatto dall'Ufficio studi di Confcommercio è a tinte fosche e, purtroppo, non è l'unico. Nel frattempo registriamo che, invece, a differenza di quello che succede in Italia, la spesa per consumi in Francia a dicembre è salita del 2% rispetto al mese precedente, superando le stime degli analisti, che erano per un aumento dello 0,8%. Anche su base annua la crescita di dicembre pari al +3,9%, ha superato le stime. Il dato è stato reso noto dall'Istituto nazionale di statistica transalpino che ha rivisto al rialzo la valutazione di novembre a +0,1% su mese e +2,6% su anno (-0,1% e +2,4% la prima lettura).

Antonio Maglietta

mercoledì 23 gennaio 2008

Prodi e Damiano immobili su salari e produttività



di Antonio Maglietta - 22 gennaio 2008

Il «dossier Italia» è sotto la lente del Fondo Monetario Internazionale. Gli economisti di Washington esamineranno conti pubblici, rallentamento della crescita, aumento del potere di acquisto dei salari e riduzione della pressione fiscale nel nostro Paese, oltre alla vicenda Alitalia e a quella relativa alle banche popolari. Gli ispettori del Fmi da giovedì saranno a Roma per un fitto giro di colloqui, che durerà circa 10 giorni, con il governo, i rappresentanti della maggioranza e dell'opposizione, ma anche con le istituzioni italiane economiche e creditizie. Al termine della visita consegneranno al ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, e al governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, il rapporto finale sulla situazione dell'Italia.

Sotto i riflettori della delegazione del Fmi, guidata da Alessandro Leipold, soprattutto i conti pubblici, con un occhio alle misure contenute nella Finanziaria 2008 approvata dal parlamento alla fine di dicembre. A preoccupare è, in primis, l'andamento della spesa pubblica, che ancora non mostrerebbe una decisa inversione di tendenza. D'altra parte - è il ragionamento degli ispettori - il livello della spesa corrente è stato decisamente più elevato rispetto agli obiettivi indicati dal governo. Fari puntati anche sulla crescita economica dell'Italia, che dovrebbe essere più bassa rispetto alle previsioni dell'esecutivo. Lo stesso Fondo Monetario Internazionale, già ad ottobre, nel World Economic Outlook (rapporto che presenta analisi e previsioni riguardo all'andamento dell'economia globale, offrendo dettagli per aggregati di Paesi distinti per regione geografica o stadio di sviluppo economico), aveva rivisto al ribasso le stime del Pil a causa degli effetti legati alle turbolenze sui mercati internazionali e alle spinte inflazionistiche causate dall'impennata dei prezzi del petrolio. Per gli economisti di Washington le previsioni di crescita aggiornate per il 2008 dovrebbero collocarsi intorno all'1,3%, a fronte dell'1,5% fissato finora dal ministro Padoa-Schioppa, che potrebbe ridurlo all'1,2% nella trimestrale di cassa.

Ma l'attenzione del Fondo riguarda anche le misure che il governo intende adottare per aumentare il potere di acquisto dei salari. A cominciare da un possibile alleggerimento della pressione fiscale, che dovrebbe dare maggior respiro ai percettori di redditi medio-bassi. E su questo punto si concentrerà una parte del questionario che gli ispettori hanno preparato per il governo, i sindacati, ma anche per la Confindustria ed altre istituzioni.

E a proposito di salari: buste paga leggere per gli italiani. Nella classifica Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) dei trenta Paesi più industrializzati, ci superano non solo Stati Uniti, Giappone, Germania e Francia, ma anche Spagna, Grecia e Irlanda. Tra i Paesi europei, facciamo meglio solo del Portogallo. Sono questi gli ultimi dati forniti dall'organizzazione europea con sede a Parigi. Nella ricerca Ocse, i salari italiani si attestano su una media di circa 1.350 euro al mese o 16.242 euro l'anno, tredicesima compresa. La busta paga più pesante è quella dei coreani e dei britannici, rispettivamente primi e secondi in classifica, rispetto ai quali un italiano guadagna circa il 42% in meno. La differenza rispetto alla retribuzione media dei tedeschi è invece del 23,5%, mentre rispetto a quelle dei francesi è del 17,6%. L'Ocse prende in considerazione le retribuzione nette. Se, invece, si guarda alle retribuzioni lorde, in Italia queste risultano in crescita del 3,2%, in linea con il rialzo medio registrato nell'Ue a 15 Paesi pari al 3,3%. E' evidente che, se il lordo (salario netto + tasse) cresce come nella media europea mentre il netto (salario lordo - tasse) è inferiore rispetto alla stessa media continentale, il nodo centrale del problema è la crescita della tassazione sul lavoro. Sappiamo altresì che i salari italiani sono bassi anche per altri motivi, primo fra tutti la scarsa produttività. Secondo il ministro del Lavoro, Cesare Damiano, occorre rivedere il modello contrattuale, passando dagli attuali bienni economici a una durata triennale e, inoltre, «va perseguita la strada già imboccata con l'accordo del 23 luglio sul welfare, per incentivare il salario aziendale o territoriale legato alla produttività».

Ma come si parla di produttività e si cita il Protocollo sul welfare? Ricordiamo che il documento, tradotto in legge tra mille polemiche interne al centrosinistra nel dicembre scorso (legge 24 dicembre 2007, n. 247), parla del rapporto tra salari e produttività in un solo comma dell'articolo unico (su ben 94): il comma 67. La citata disposizione - in parte condivisibile - dispone l'istituzione, nello stato di previsione del ministero del Lavoro e della Previdenza sociale, di un Fondo per il finanziamento di sgravi contributivi per incentivare la contrattazione di secondo livello, con dotazione finanziaria pari a 650 milioni di euro per ciascuno degli anni 2008-2010. Peraltro lo sgravio contributivo, concesso alle imprese che ne faranno domanda a certe condizioni, è un provvedimento sperimentale e, quindi, non già strutturale, perché la sinistra radicale, da sempre contraria all'incentivazione della contrattazione di secondo livello, vede questa disposizione come il fumo negli occhi e mai l'avrebbe votata se fosse stata presentata come definitiva.

La verità è che, se si vuole parlare seriamente in Italia di collegamento tra gli andamenti salariali e la produttività, bisogna dire chiaramente che questa strada non può non prevedere un sistema retributivo che crei profondi differenziali salariali tra i lavoratori: in breve, chi lavora di più e meglio dovrà guadagnare molto di più rispetto agli altri. Ma sappiamo che la sinistra radicale e antagonista, fondamentale per la tenuta del governo Prodi, non vuole neanche sentir parlare di differenziali salariali. Ma allora, ministro Damiano, di che stiamo parlando?

Antonio Maglietta

mercoledì 16 gennaio 2008

Salari e produttività



di Antonio Maglietta - 15 gennaio 2008

L'Italia ha i salari più bassi dell'Europa. La dichiarazione è stata rilasciata qualche mese fa dal governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, citando i dati Eurostat. I salari troppo bassi riducono il reddito disponibile delle giovani coppie, penalizzando i consumi e ritardando la ripresa economia. L'osservazione è stata condivisa dall'intero mondo sociale e politico. A parità di potere di acquisto la retribuzione media oraria è in Italia di 11 euro, mentre in Germania, Francia e Gran Bretagna il 30-40 per cento superiore. A risentire del problema sono soprattutto i lavoratori qualificati delle classi d'età centrali. La differenza salariale con il resto dell'Europa si riduce invece nelle fasce più giovani e più anziane della popolazione lavorativa. L'Italia si distingue dagli altri paesi europei anche per la quota più alta di giovani che restano in famiglia fino a 30-35 anni e per il minor numero di capifamiglia al di sotto dei trent'anni.

Da Bruxelles, Amelia Torres, portavoce del commissario Ue agli Affari economici e monetari, Joaquin Almunia, senza alcun riferimento alla situazione italiana o alle dinamiche salariali specifiche di qualsiasi altro Paese Ue, lancia un chiaro avvertimento: gli aumenti salariali devono tenere conto dell'andamento della produttività e della competitività, altrimenti rischiano di creare «una spirale inflazionistica che non gioverebbe a nessuno». «I salari devono evolversi in base alla produttività e tenendo conto della competitività, altrimenti si crea una spirale inflazionistica che non gioverebbe a nessuno». La portavoce non ha voluto commentare le dichiarazioni della scorsa settimana di Jean Claude Trichet, governatore della Banca centrale europea, secondo cui occorre abolire l'indicizzazione dei salari in base all'inflazione. «Il commissario Almunia e la Commissione rispettano le opinioni della Banca centrale e non le commentano perché tengono molto all'indipendenza della Banca», ha spiegato Torres.

Secondo Lorenzo Bini-Smaghi, membro del board della Banca Centrale europea: «I problemi cui deve far fronte l'economia italiana, incluso quello del potere d'acquisto dei salari, non possono essere affrontati con misure isolate. Secondo uno studio della Bce che sarà pubblicato fra breve, i salari in Italia sono in media circa il 90% del salario medio nell'area euro, ma il costo del lavoro per unità di prodotto è superiore alla media, a causa della minore produttività e maggior tassazione. E' questa la questione cruciale». Secondo il rappresentante italiano nel board della Banca centrale ci vuole un piano di azione integrato che consenta di dare uno stimolo sia alla domanda sia all'offerta. Un piano basato su 4 linee: produttività, tasse, spesa pubblica e liberalizzazioni.

La scarsa produttività è una delle cause principali del basso livello salariale italiano. Dieci anni fa la produttività media per addetto italiano nel settore manifatturiero era simile a quella tedesca, ma in questi anni non è aumentata mentre quella tedesca è salita in media del 4% all'anno. In 10 anni si è così creato un divario di circa 40 punti, che spiega non solo il livello basso dei salari italiani ma anche la perdita di competitività. Per Bini-Smaghi bisogna creare nuovi incentivi in Italia per le aziende e per i lavoratori, aumentare la produttività anno dopo anno, e questo richiede in particolare una modifica del sistema contrattuale. «Il modello contrattuale italiano - aggiunge - è antiquato e non compatibile con l'euro. Va cambiato. Bisogna consentire alle aziende più produttive di distribuire parte dei profitti ai lavoratori, come avviene negli altri paesi, in particolare in Germania. Questo crea un incentivo sia per le aziende sia per i lavoratori di migliorare continuamente e di monitorare la produttività. Chi non vuole cambiare il sistema attuale non può poi lamentarsi se i salari sono bassi». E «non c'è dubbio che la pressione fiscale vada ridotta, non solo per mantenere il consenso dei cittadini nei confronti della lotta all'evasione, ma anche perché i livelli attuali sono un freno alla crescita. Ma come troppo spesso si dimentica, l'impatto favorevole della riduzione delle tasse si ottiene solo se tale riduzione è finanziata con riduzioni di spesa, per non creare un buco di bilancio. Il contenimento della spesa pubblica è il terzo pilastro del piano di rilancio, senza il quale il secondo non regge».

Ma c'è chi non la pensa così. E quel qualcuno ha voce in capitolo nelle decisioni del Governo. I tempi della redistribuzione sociale «devono essere rapidissimi, non c'è da aspettare alcuna trimestrale di cassa perché le risorse ci sono e un loro utilizzo non comporta alcun scostamento dagli obiettivi di risanamento che il Governo si è dato». Per il segretario di Rifondazione comunista Franco Giordano, sull'aumento dei salari è necessario fare presto. Dalla direzione del partito, Giordano si rivolge direttamente al ministro dell'Economia: «A Tommaso Padoa-Schioppa dico che si deve smettere di giocare a guardia e ladri, con lui che fa la guardia al rapporto tra deficit e Pil e noi che saremmo i ladri». Il segretario di Rifondazione comunista fa due conti partendo dall'ultimo dato sul rapporto deficit-Pil che all'1,3% contro una previsione del 2,4% e conclude che «considerando anche gli introiti della lotta all'evasione fiscale ci sono 12 miliardi di euro che possono essere spesi rispettando gli obiettivi e le previsioni del Governo». In questo momento, conclude Giordano, «il risanamento del debito non è la priorità della politica economica del Paese» ma sono i salari.

Giordano sbaglia. La questione salariale dovrebbe essere affrontata organicamente e non con una tantum, pergiunta alla cieca. Il problema della tenuta dei conti pubblici non può essere messa da parte in questa discussione sui salari perché il deficit italiano è un nodo centrale ed imprescindibile della vita economica di questo Paese e fare i conti con questa realtà significa garantire un futuro stabile soprattutto alle giovani generazioni. Inoltre, occorre sottolineare che l'attuale modello di contrattazione è palesemente inefficiente in termini di produttività. Infatti, essendo fondato sul contratto collettivo nazionale, che produce, per le sue stesse caratteristiche, un livellamento burocratico delle retribuzioni, è uno strumento incapace di favorire la crescita salariale dove ve ne siano le condizioni. Purtroppo queste sono considerazioni estranee alla cultura dell'egualitarismo a cui si ispira Giordano e difficilmente potranno risultare vincenti nella rissosa trattativa in corso all'interno del centrosinistra, visto che Rifondazione Comunista, già in caduta libera nei consensi, vanta pesanti crediti politici nei confronti del Governo dopo le brucianti sconfitte subite sul protocollo sul welfare e il mancato finanziamento della sanatoria dei precari del pubblico impiego nella Finanziaria 2008.

Antonio Maglietta

lunedì 14 gennaio 2008

Vogliono annacquare la legge sulla cittadinanza



di Antonio Maglietta - 12 gennaio 2008

Cittadinanza di diritto per chi nasce in Italia da genitori stranieri, accorciamento dei tempi richiesti per ottenere la cittadinanza italiana - da dieci a cinque anni di residenza nel Paese - e riconoscimento della doppia cittadinanza, cioè diritto a conservare anche quella del paese di origine. Lo chiede la Fondazione Migrantes, l'organo della Conferenza Episcopale Italiana per l'assistenza religiosa ai migranti italiani e stranieri, per «favorire una vera integrazione degli immigrati in Italia e soprattutto dei giovani immigrati». Questi auspici sono stati illustrati da monsignor Domenico Sigalini, segretario di Migrantes, e da monsignor Gianromano Gnesotto, responsabile della pastorale dei migranti per la stessa Fondazione. «Occorre - ha affermato monsignor Sigalini - che nella concessione della cittadinanza si aggiunga allo "jus sanguinis" lo "jus soli" ». «Chiediamo - ha detto monsignor Gnesotto - che continui per questo l'iter legislativo cominciato il 7 febbraio 2007 in Commissione affari costituzionali della Camera e che si svolga in maniera positiva». Monsignor Gnesotto ha anche ricordato che in Europa soltanto l'Italia e la Spagna richiedono ancora dieci anni di permanenza nel paese per poter fare domanda di cittadinanza e ha auspicato che si ritorni alla legge del 1912 che ne richiedeva soltanto cinque.

Sul punto, però, se proprio dobbiamo guardare gli altri paesi europei, dobbiamo farlo integralmente e non a spezzoni: in Germania per la naturalizzazione sono richiesti otto anni, mentre in Francia e in Gran Bretagna è vero che allo straniero che voglia ottenere la cittadinanza è richiesto un periodo di residenza di cinque anni, tuttavia in Francia il figlio di stranieri nato nel territorio nazionale può ottenere la cittadinanza solo alla maggiore età, se residente per cinque anni dall'età di undici anni, ed in Gran Bretagna diviene cittadino chi vi nasce da uno straniero autorizzato a risiedervi in modo permanente. In Germania e in Spagna, inoltre, non è consentita la doppia cittadinanza per cui lo straniero o il figlio di stranieri che acquista la cittadinanza nazionale deve rinunciare a quella di origine. Perché allora si chiede all'Italia di acquisire nel proprio ordinamento un pacchetto di norme che nessun paese occidentale si sogna di avere organicamente tutte insieme?

Anche monsignor Piergiorgio Saviola, direttore generale della Fondazione Migrantes, in un editoriale pubblicato dal giornale Famiglia Cristiana in edicola questa settimana, invita a rivedere la normativa sulla cittadinanza. E puntuale è arrivata anche la dichiarazione del Ministro per la solidarietà sociale, Paolo Ferrero: «Condivido la posizione espressa dai vescovi italiani che auspicano per coloro che nascono in Italia, anche se da genitori stranieri, il pieno riconoscimento della cittadinanza italiana». Ma diamo uno sguardo alla normativa nostrana: la cittadinanza italiana, basata principalmente sullo «ius sanguinis» (diritto di sangue), per il quale il figlio nato da padre italiano o da madre italiana è italiano, è regolata attualmente dalla legge 5 febbraio 1992, n. 91 e dai regolamenti di esecuzione. Per essere dichiarato cittadino italiano, al compimento dei 18 anni il figlio di immigrati nato in Italia deve farne richiesta. A questo proposito acquista importanza l'articolo 4, comma 2, della legge 5 febbraio 1992, n. 91, sulla disciplina dell'acquisto della cittadinanza italiana per lo straniero nato in Italia che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino alla maggiore età. Requisito per tale concessione sono il possesso del permesso di soggiorno (annotato su quello dei genitori) fin dalla nascita e la registrazione all'anagrafe del Comune di residenza. Una circolare del ministero dell'Interno del 7 novembre 2007 precisa che certificazione scolastica, attestati di vaccinazione, certificati medici in generale o altro, potranno comprovare la permanenza nel nostro Paese per l'iscrizione anagrafica, pur se tardiva, degli stranieri nati in Italia che chiedono l'acquisto della cittadinanza italiana. Qualora ci fossero periodi di interruzione nella titolarità del permesso di soggiorno, il richiedente potrà presentare documentazione che attesti comunque la presenza in Italia (certificazione scolastica, medica, o altro).

Secondo i dati Istat, al 1° gennaio 2007 gli stranieri residenti in Italia sono 2.938.922 (1.473.073 maschi e 1.465.849 femmine); rispetto all'anno precedente gli iscritti in anagrafe sono aumentati di 268.408 unità (+10,1%). In base ai dati disponibili di fonte Ministero dell'Interno, sono 215 mila i cittadini stranieri che fino al 2006 hanno ottenuto la cittadinanza italiana. La maggior parte delle acquisizioni di cittadinanza italiana avviene per matrimonio. Le concessioni della cittadinanza italiana per naturalizzazione, invece, sono ancora poco frequenti, specialmente se confrontate con il bacino degli stranieri potenzialmente in possesso del requisito principale e cioè la residenza continuativa per 10 anni. Più di uno straniero su quattro (26,2%) è regolarmente presente in Italia da oltre un decennio e quindi potrebbe essere in possesso del requisito della residenza continuativa. Gli stranieri con regolare permesso di soggiorno che vivono da 5 anni nel nostro Paese rappresentano, invece, il 50,5% del totale degli stranieri residenti in Italia (Istat: La popolazione straniera residente in Italia, 2 ottobre 2007).

In pratica sono gli stessi stranieri che, pur avendone i requisiti, non richiedono la cittadinanza italiana. Ma allora perché diminuire il dato temporale da 10 a 5 anni, raddoppiando la platea degli aventi diritto? Quale dato scientifico qualifica questa proposta di modifica della legge sulla cittadinanza come una necessità? Perché solo in Italia si vuole legiferare con l'istinto del momento e non con la ragione e lo studio dei dati, peraltro in una materia così delicata?

Antonio Maglietta

venerdì 11 gennaio 2008

Immigrazione: le espulsioni collettive



di Antonio Maglietta - 10 gennaio 2008

Il presidente francese, Nicolas Sarkozy, ha annunciato che, insieme ai capi dei governi italiano, Romano Prodi, e spagnolo, José Luis Rodriguez Zapatero, si sta lavorando all'organizzazione di «espulsione collettive» dei migranti in situazione irregolare nei tre Stati. Parlando alla conferenza stampa di inizio anno, Sarkozy non ha spiegato in che cosa consisteranno né come verranno organizzate queste operazioni, ma ha riferito che il premier italiano e spagnolo gliele hanno «chieste». Nel luglio del 2005, i ministri dell'Interno di cinque Paesi europei (Francia, Italia, Spagna, Regno Unito e Germania) si accordarono a Evian (Francia) per organizzare voli congiunti per il rimpatrio dei clandestini, rafforzare gli sforzi e migliorare l'efficacia dei meccanismi d'espulsione esistenti. La misura fu criticata dalle associazioni di solidarietà dei migranti e anche da istituzioni come il Consiglio d'Europa.

Il capo dello stato francese ha parlato della proposta nel quadro di una riflessione sulla politica dell'immigrazione del suo governo, che è criticata - perché considerata eccessivamente restrittiva- tanto dalla sinistra che dalle associazioni per i diritti civili. Sarkozy ha ricordato che sia Prodi che Zapatero hanno assicurato pubblicamente che non torneranno a compiere regolarizzazioni di massa dei clandestini, come avvenuto negli anni precedenti. Il presidente francese ha anche difeso la politica delle quote, necessarie - ha spiegato - per consentire alle autorità francesi di fissare ogni anno il numero degli stranieri necessari per l'economia nazionale. «Dobbiamo applicare la politica delle quote in funzione delle capacità di accoglienza e integrazione. E' l'unica soluzione», ha osservato. Quanto alla regolarizzazione di persone senza documenti legali di residenza, il presidente francese ha osservato che «se le accettiamo, non potremo convincere gli altri che, per venire, devono chiedere il visto».

Ma ecco che dall'Italia arrivano subito i distinguo e le precisazioni del Ministro dell'interno Giuliano Amato che non puntano al cuore del problema: «Non facciamo confusione. I voli collettivi li organizza da tempo l'Unione europea per ricondurre in patria gli immigrati clandestini espulsi da diversi Paesi. Ma l'Italia non fa nessuna espulsione collettiva. Da noi le espulsioni sono regolate dalla legge Bossi-Fini, che prevede specifici provvedimenti di espulsione, ciascuno motivato in riferimento a singole persone e ciascuno convalidato dall'autorità giudiziaria. Tutto prevediamo, dunque, fuorché la possibilità di espulsioni di massa o di gruppo».

L'affermazione del Ministro in punta di diritto non fa una piega. Infatti l'art. 4, Protocollo Addizionale n. 4 della Convenzione europea per la Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali (oltre che l'art. 19 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione europea), applicabile in Italia ad integrazione della normativa vigente interna, recita che «le espulsioni collettive di stranieri sono vietate». Ma il punto non è questo. Il nodo da sciogliere è quello di come interpretare tale norma affinché vengano garantiti tutti gli interessi in campo e soprattutto che un diritto fondamentale, soprattutto su una materia importante come l'immigrazione, non venga usato ad uso e consumo dei «furbi».

A tal riguardo ci viene in soccorso una sentenza della Corte di Cassazione (n. 16571/2005 del 19 maggio 2005). Con distinti decreti il Prefetto di Milano all'esito di unica operazione di sgombero di un'area occupata, previa identificazione nominativa e verifica delle condizioni giuridiche di presenza di ciascuno in Italia, dispose l'espulsione dal territorio nazionale, ex art. 13, comma 2, lett. A-B, del Decreto Legislativo n. 286/98, di 15 cittadini rumeni di etnia ROM. Oppostisi gli espulsi, il Tribunale di Milano con decreto 3/8/2004 annullò le espulsioni sull'assunto che l'art. 4 par. 4 dell'allegato alla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo - vietante le espulsioni collettive di stranieri - dovesse interpretarsi nel senso che fossero vietate le espulsioni plurime adottate con identica motivazione ed in contestualità a carico di stranieri se pur con distinti provvedimenti. Per la cassazione di tale decreto, l'U.T.G. di Milano - in persona del Prefetto - ha proposto ricorso alla Corte di Cassazione, che lo ha accolto con la seguente motivazione: «Come da questa Corte assai di recente considerato (Cass. 23134/04), l'indirizzo della Corte Europea in merito alla latitudine del divieto di espulsione collettiva di cui all'art. 4 del IV protocollo addizionale alla CEDU [1] è quello di ricomprendere in esso quelle espulsioni adottate nei riguardi di un gruppo di stranieri senza che per ciascuno di essi venga svolto esame ragionevole ed obiettivo delle ragioni e delle difese di ciascuno innanzi all'Autorità competente». Tale indirizzo appare dunque affrontare la sostanza di un problema delicato che riguarda Paesi aderenti che alla data della Convenzione erano di elevato livello di strutturazione organizzativa e di adeguato standard di civiltà giuridica: al di là della poco realistica ed irragionevole ipotesi della adozione di espulsioni «di massa» di gruppi, in una logica di scelta aprioristica della espulsione per ragioni etniche, si è inteso vietare che le ragioni della estromissione del «gruppo» assorbissero la valutazione delle singole posizioni individuali degli espellendi con riguardo alla oggettività e legalità della ragione espulsiva.

Se un ordinamento prescrive - come impongono tutti i paesi aderenti alla Unione Europea - che lo straniero debba munirsi di titolo di soggiorno per permanere nello Stato, prevedendo che, in difetto, si può dar corso alla misura espulsiva e che il medesimo straniero, pur privo di tal titolo, non possa essere espulso quando ostino ragioni di protezione, umanitarie o di coesione familiare, è attorno alla sussistenza di tali condizioni abilitanti od ostative che si deve incentrare la verifica dell'Autorità munita del potere espulsivo, ed il controllo necessario del Giudice. E se dalla verifica amministrativa e dal susseguente controllo giurisdizionale emerga che quelle condizioni abilitanti alla espulsione sussistevano e che difettavano le ragioni ostative, il fatto che siano stati emessi plurimi contestuali provvedimenti a carico di soggetti colti in situazione irregolare da un controllo di polizia appare del tutto irrilevante ai fini di ritenere avverata la previsione dell'art. 4 IV Prot.Add. CEDU (...).

In pratica, secondo la Corte, il provvedimento di espulsione deve essere adottato sempre individualmente e prendendo in considerazione, in modo reale, non fittizio e di mera forma, le singole e differenziate situazione di ogni individuo. Una volta rispettato questo, è possibile espellere più persone identificate nell'ambito della stessa operazione: è questo il limite imposto dalla Convenzione europea per la Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali.

Antonio Maglietta

martedì 8 gennaio 2008

Immigrazione: il lassismo del Consiglio Territoriale della Provincia di Roma

di Antonio Maglietta - 8 gennaio 2008

Il complesso fenomeno dell'immigrazione si gestisce sotto vari aspetti e fasi e certamente non può prescindere dal rispetto di alcuni elementi fondamentali come la sicurezza e l'integrazione.In tema di programmi concreti per l'integrazione degli stranieri in Italia va segnalato il ruolo del Consiglio Territoriale per l'Immigrazione, che è un organismo collegiale che opera nel territorio provinciale, come previsto dall'art. 57 del DPR n. 394/99 (regolamento di attuazione del Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero). Il Prefetto è responsabile della formazione e del funzionamento del Consiglio, che ha il compito di analizzare le problematiche dell'immigrazione e di promuovere interventi finalizzati all'inserimento dell'immigrato nel contesto sociale locale.
Il Consiglio opera in collegamento con le iniziative dell'Amministrazione Regionale e dagli enti locali per favorire politiche pubbliche integrate, fondate su uno spirito di chiara cooperazione istituzionale.Il Consiglio, presieduto dal Prefetto, è composto dai seguenti rappresentanti di istituzioni pubbliche e categorie private e sociali:
Presidente della Provincia;
rappresentante della Regione;
Sindaco del Comune capoluogo, o suo delegato, nonché Sindaco, o suo delegato, del comune di volta in volta interessato;
Uffici periferici dell'Amministrazione statale;
Presidente della Camera di Commercio, industria, artigianato e agricoltura o suo delegato;
almeno due rappresentanti delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro;
almeno due rappresentanti delle associazioni più rappresentative degli stranieri extracomunitari operanti nel territorio;
almeno due rappresentanti degli enti e delle associazioni localmente attivi nel soccorso e nell'assistenza agli immigrati.
Possono essere invitati a partecipare alle riunioni del Consiglio anche i rappresentanti delle Aziende Sanitarie Locali, di Enti e Associazioni pubbliche o private interessate agli argomenti in trattazione.
I Consigli Territoriali svolgono un ruolo fondamentale nell'intercettare nelle diverse realtà locali le esigenze legate al fenomeno migratorio e, in una fase successiva, nel proporre iniziative territoriali e interventi per rispondere a tali esigenze. Più precisamente i Consigli Territoriali per l'Immigrazione sono un organismo fondamentale per monitorare in sede locale la presenza degli stranieri sul territorio e la capacità di assorbire i flussi migratori. Gli interventi più significativi promossi dai Consigli vengono sostenuti da protocolli d'intesa o da accordi di programma. Tra essi si segnalano l'istituzione di numerosi sportelli polifunzionali attivati per orientare gli stranieri, per indirizzarli sulle procedure, per informarli su diritti e doveri, per favorire il loro accesso ai pubblici servizi, o anche per dare visibilità a corsi di formazione professionale.
Il Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione del Ministero dell'Interno, tramite i Consigli Territoriali, raccoglie le problematiche che emergono a livello locale e promuove una politica organica in materia di immigrazione, cercando di indirizzare gli interventi in modo omogeneo e promuovendo:
la realizzazione di una sempre maggiore collaborazione tra istituzioni diverse;
la programmazione di politiche sociali di integrazione, che tenga conto delle diverse realtà territoriali;
l'attuazione di interventi di assistenza e di integrazione sociale dei cittadini stranieri.
Insomma, il ruolo dei Consigli è fondamentale. Tuttavia sarebbe auspicabile anche responsabilizzare gli stranieri che usufruiscono di tali iniziative, magari con un meccanismo simile al «prestito d'onore» con certe garanzie, anche perché ciò servirebbe a scoraggiare eventuali furbi, a premiare gli stranieri che hanno veramente voglia di integrarsi, a rendere gli stessi dei soggetti attivi e a far capire ai cittadini italiani, che contribuiscono con le loro tasse o con donazioni private, che quell'iniziativa non solo viene pagata dagli stessi stranieri che ne usufruiscono, ma che è importante anche per il loro futuro e che alla fine quei soldi anticipati di tasca propria non sono certo buttati via. Scorrendo le varie attività promosse sul territorio italiano dai vari Consigli a livello locale, consultabili integralmente regione per regione digitando il link http://www.rai.it/RAInet/societa/Rpub/raiRSoPubArticolo2/0,7752,id_obj=32314^sezione=cittadiniimmigrati,00.html, stupisce che non ci sia traccia dell'attività di uno dei Consigli più strategici, quello della Provincia di Roma. Infatti, da ciò che risulta dal sito ufficiale che raccoglie tutte le iniziative dei vari organi, quel Consiglio non sembra aver intrapreso alcuna iniziativa. Digitanto il link http://www.cittadini.rai.it/RAInet/societa/Rpub/raiRSoPubArticolo2/0,7752,id_obj=32345^sezione=homepage,00.html si palesa agli occhi dell'utenza una assenza inaspettata ed incomprensibile. Sul sito della Prefettura di Roma, al link http://www.prefettura.roma.it/index.php/fd=news/ff=read/id=78.html, l'ultima notizia utile proveniente dall'attività del citato Consiglio risale al 30 novembre 2007 (la precedente addirittura al 1 febbraio 2007) relativamente alla discussione sulle nuove procedure di inoltro telematico delle domande di nulla osta al lavoro per cittadini extracomunitari e della gestione dei procedimenti di competenza dello Sportello Unico per l'immigrazione. Ben poca cosa per un territorio ad alta concentrazione di immigrati. Tenendo presente esclusivamente le prime 12 comunità residenti in Italia, solo nella città di Roma, secondo gli ultimi dati Istat sulla popolazione straniera residente nel nostro Paese, risiedono: 4.784 albanesi, 3.114 marocchini, 31.362 romeni, 7.364 cinesi, 6.207 ucraini, 24.009 filippini, 1.796 tunisini, 1.251 macedoni, 10.614 polacchi, 4.224 indiani, 6.144 ecuadoriani, 9.235 peruviani.
Viene da chiedersi cosa fanno le istituzioni politiche locali facenti parte del Consiglio Territoriale della Provincia di Roma (Regione Lazio, Provincia e Comune di Roma), tutte rette dal centrosinistra, per fare qualcosa di concreto in tema di integrazione degli stranieri sul loro territorio? Nulla. Si parla tanto e giustamente di «mani legate» da parte degli amministratori locali in tema di sicurezza ma, almeno nell'ambito della Provincia di Roma, anche laddove gli stessi potrebbero far qualcosa di concreto, il lassismo è drammaticamente evidente.

Antonio Maglietta
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