martedì 28 giugno 2011

L’inquietudine dei giovani italiani



Antonio Maglietta
28 giugno 2011

Secondo i dati diffusi dalla Fondazione Migrantes sull'emigrazione, per il 40% degli intervistati tra i 25 e 34 anni vivere in Italia è una sfortuna e il 40,6%, prendendo in considerazione tutte le fasce di età, ha dichiarato che si trasferirebbe volentieri altrove. Oltre il 60% dei connazionali, quindi, ritiene invece che vivere in Italia sia una fortuna, ma questa percentuale si riduce gradualmente man mano che dalle fasce di età più anziane si arriva ai giovani, i grandi delusi. Il male sovrano, per i giovani italiani, è la precarietà: a indicarlo il 43,5% dei 18-24enni e il 33,6% dei 25-34enni. Seguono, nell'ordine, la mancanza di senso civico (20,6%), l'eccessivo livello di corruzione (19,1%), la classe politica (15,2%), la condizione economica (8,6%), il tasso di criminalità (3,9%) e lo stato del welfare (1,3%). Secondo i dati dell’Aire (Anagrafe degli italiani all’estero), sulla totalità degli italiani emigrati all'estero, circa la metà (il 47,8%) sono donne e il 25%, la percentuale più elevata, ha tra i 30 e i 44anni, come lo è anche quella dei giovani, tra i 18 e i 29 anni, che lascia l'Italia per un paese straniero (21,1%) anche se è importante sottolineare che una parte di loro si sposta temporaneamente per un periodo di studio.
A tutti questi dati ufficiali, però, va aggiunta una considerazione: molti italiani che vivono all’estero non sono iscritti all’Aire o perché non hanno ancora deciso se restare o rientrare in Italia o perché neanche sanno dell’esistenza dell’anagrafe all’estero. Questo vuol dire che con tutta probabilità i numeri reali sono anche maggiori di quelli ufficiali. Non a caso secondo uno studio di Confimpreseitalia, l'associazione delle micro-imprese e dell'artigianato aderente a Confapi (Confederazione italiana della piccola e media industria privata), le cifre reali sarebbero il doppio di quelle ufficiali: più di 60mila giovani italiani, lavoratori o in cerca di lavoro, lasciano l'Italia ogni anno per cercare migliori occasioni all'estero. Molti di questi in cerca di prima occupazione e nel 70% dei casi si tratterebbe di laureati. Secondo la ricerca, l’investimento in capitale umano che sarebbe perso dal nostro sistema-paese per l’espatrio dei laureati ammonta a 5 miliardi e 915 milioni di dollari. Ma non è questo il punto perché far passare l’idea che l’estero sia indistintamente un Eldorado è assolutamente falso perché anche gli altri paesi soffrono gli effetti della crisi e hanno alti tassi di disoccupazione. Basta pensare al caso della Spagna, citata fino a pochissimo tempo fa da molti commentatori nostrani come un sistema da prendere a modello salvo poi rivelarsi con il suo tasso di disoccupazione giovanile schizzato a oltre il 40% la tomba dei sogni degli under 25 e non solo.
Che cosa spinge un giovane italiano ad andare all’estero per motivi di lavoro? Nella maggior parte dei casi due cose. Innanzitutto la voglia di migliorare la propria posizione sociale e, contemporaneamente, pensare che in Italia non ci sia alcuna opportunità per rendere concreto questo volere: l’ambizione e lo sconforto di non poter realizzare i propri sogni nel paese natio. E allora dobbiamo combattere con tutti i mezzi questi segnali di sconforto, ripulendo le riflessioni dai catastrofismi anche perché un certo flusso di emigrati è fisiologico e se analizziamo i dati sul medio-lungo periodo ci accorgiamo che la fuga all’estero è in costante e continua diminuzione. Questo vuol dire che non è vero che c’è una fuga dal nostr Segnalava, infatti, il V Rapporto sugli italiani nel mondo della Fondazione Migrantes, “in Italia i flussi con l’estero si sono ormai ridotti: un po’ più di 50mila l’anno quelli in uscita, e un po’ di meno quelli di ritorno. Bisogna mettere in conto che le partenze, specialmente quelle dei giovani, inizialmente hanno un carattere di sperimentazione, per cui i protagonisti non provvedono alla cancellazione anagrafica presso il proprio Comune, con la riserva di formalizzarla solo quando la permanenza all’estero sia diventata stabile”.
Il vero problema è quello del miglioramento delle vie per entrare nel mercato del lavoro (il sistema dell’istruzione, la formazione, gli strumenti per trovare lavoro) ma, soprattutto, la lotta contro la precarietà o comunque contro la percezione di vivere sul filo del rasoio o a causa del basso guadagno o perché il contratto di lavoro è di breve durata, e non si hanno certezze sul rinnovo, o perché addirittura si lavora in nero. Come si combatte questa situazione critica? Il percorso è lungo ed è già iniziato con la riforma del nostro sistema d’istruzione e con gli interventi nel settore della formazione. Resta aperta la questione degli ammortizzatori sociali perché è necessario dare ai giovani italiani la possibilità di lavorare ed esprimersi senza avere la paura di cadere nel baratro. La flessibilità, oramai è un dato accertato, è uno strumento che ha agevolato l’ingresso nel mercato del lavoro dopo che per buona parte degli anni ’90 quasi tutti i paesi occidentali soffrivano di alti tassi di disoccupazione. Il problema è che talvolta la flessibilità si è trasformata in precariato in assenza di adeguati strumenti di protezione sociale. Nella relazione letta qualche giorno fa al Convegno dei giovani di Confindustria, il direttore generale della banca d’Italia ha sottolineato che per i lavoratori con contratti a tempo determinato o con un rapporto di collaborazione la crisi ha ulteriormente ridotto le possibilità di transizione verso forme contrattuali più stabili e con maggiori tutele. Poco più di un quinto dei giovani occupati con lavoro dipendente tra i 15 e i 34 anni hanno contratti a termine, più che negli altri paesi europei, con l’eccezione della Spagna. Anche i percorsi di carriera e i salari dei giovani lavoratori autonomi – pari nel 2010 a circa il 20 per cento dei giovani occupati – si caratterizzano per un’elevata incertezza. Con la diffusione dei contratti atipici si è sostenuta l’occupazione, ma al costo di rendere il mercato del lavoro sempre più dualistico; accanto a una fascia di lavoratori tutelati, per lo più anziani, è sorta un’ampia area di lavoratori precari, per lo più giovani Oggi un giovane che si affaccia per la prima volta sul mercato del lavoro in Italia ha il 55% di probabilità di vedersi offrire soltanto un lavoro in qualche modo precario. Come se ne esce? Bisogna ripeterlo all’infinito affinché il concetto diventi sempre più chiaro: con un sistema universale di protezione sociale economicamente sostenibile. Certo si tratterebbe di mettere mano al nostro iniquo welfare, toccando interessi e facendo arrabbiare qualcuno, ma alla fine bisogna farlo. Il problema non è saltare da un lavoro all’altro ma avere una rete di protezione sotto che eviti di sfracellarsi in un burrone.

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martedì 21 giugno 2011

Combattere il presentismo



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
martedì 21 giugno 2011

Secondo il rapporto del Censis «Fenomenologia di una crisi antropologica», «gli italiani sembrano sempre più imprigionati nel presente, con uno scarso senso della storia e senza visione del futuro. Al desiderio si è sostituita la voglia, alle passioni le emozioni, al progetto l’annuncio. In un mondo dominato dalle emozioni, conta solo quello che si prova nel presente, non la tensione che porta a guardare lontano. La perdita di significato della scuola è uno dei sintomi più evidenti del «presentismo». I limiti dell’offerta formativa, che non garantisce il raggiungimento del successo attraverso un percorso di studi impegnativo, condiziona l’atteggiamento complessivo dei giovani italiani. Che in Europa sono quelli che danno una minore importanza alla scuola: il 50% la ritiene un investimento valido, contro ad esempio il 90% dei giovani in Germania».
Non bisogna meravigliarsi. Secondo i dati più recenti sempre del Censis, in Italia lavora il 66,9% dei laureati dai 25 ai 34 anni, contro una media europea dell’84%, (87,1% in Francia, 88% in Germania, 88,5% nel Regno Unito). Al contrario di quello che accade negli altri Paesi europei, il tasso di occupazione tra i laureati italiani in quella fascia di età è più basso di quello dei diplomati (69,5%). Secondo la Salary Guide 2011, una ricerca condotta dalla Hays, società che è tra i leader mondiali nel reclutamento di professionalità manageriali, che ha coinvolto centinaia di aziende e migliaia di professionisti con l’obiettivo di indagare sul mercato del lavoro e sulle problematiche nuove o consolidate che lo affliggono, in Italia la laurea e in generale il titolo di studio contano davvero poco per le aziende rispetto all’esperienza di lavoro (in pratica solo nel 10% dei casi). E allora un giovane si chiede: perché sudare per arrivare alla laurea se poi non servirà per aprire le porte del mercato del lavoro? Ecco il punto.
La recente riforma dell’università, tra mille polemiche e altrettante resistenze, ha cercato di porre rimedio alle criticità del nostro sistema dell’istruzione attraverso la razionalizzazione dei corsi di laurea, davvero troppi e utili solo per pagare gli stipendi a qualche barone e alla sua corte, e le nuove regole introdotte in materia di reclutamento e finanziamento. Ma il problema non è solo a monte ma anche a valle. Perché le nostre aziende, nella maggior parte dei casi, cercano solo lavoratori con bassi profili professionali? Il più delle volte è così, anche se è opportuno segnalare che spesso diversi posti di lavoro restano vacanti perché mancano lavoratori idonei a ricoprirli. La colpa è anche del nostro sistema formativo, che si è evoluto negativamente dando più importanza all’arricchimento delle tasche dei formatori che alla necessità dei formati di migliorare le proprie capacità e il proprio profilo professionale. Tempo fa Giuseppe De Rita, il presidente del Censis, ha segnalato che c'è stata una divaricazione nel mercato del lavoro: da una parte i nostri giovani hanno imboccato la strada della scolarizzazione progressiva; dall'altra gli immigrati che hanno coperto i buchi lasciati liberi.
I nostri giovani sono stati colpiti dalla maledizione/benedizione della scuola. Abbiamo sacrificato gli istituti tecnici, quando l'Italia si è costruita su di loro. Che ce ne facciamo dei diplomati generici? E dei corsi di laurea che non hanno alcuna ragione d'essere? Abbiamo costruito un monumento al generico rifiutando ideologicamente la formazione finalizzata al lavoro. Oggi i giovani italiani, segnala il citato rapporto dell’istituto di ricerca, sono anche quelli in Europa che meno hanno intenzione di avviare una propria attività autonoma: il 27,1% contro una media europea del 42,8%, il 74,3% in Bulgaria, il 62,2% in Polonia, il 60,6% in Romania, ma anche il 53,5% in Spagna, il 44,1% in Francia e il 40,3% nel Regno Unito. Significativa è la motivazione addotta: al 21,8% appare un’impresa troppo complicata, contro una media europea del 12,7%. E anche qui non c’è alcuno stupore nel leggere certi dati.
La colpa è dell’eccessiva burocratizzazione del sistema economico, la stessa piaga che vessa continuamente chi ha voglia di fare un’attività rispettando le regole e premia incredibilmente e sistematicamente invece chi quelle stesse regole le aggira. La semplificazione amministrativa, un percorso già intrapreso da questo governo, è la via maestra per abbattere questo sistema come lo è anche quella di colpire più duramente le violazioni sostanziali ancor di più di quelle formali e distinguere e combattere diversamente l’illegalità criminale da quella per la sopravvivenza. Combattere quello che il Censis chiama il «presentismo» è un dovere di tutti: a partire dalle istituzioni, passando da quelli che i sociologi chiamano i corpi intermedi, fino ai singoli cittadini. Nessuno è esente da colpe e tutti possono essere utili per risalire la china e uscire dal pantano. Bisogna avere però una visione di insieme perché con le misure di corto respiro non si va lontano.

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sabato 18 giugno 2011

Nuove misure per combattere la clandestinità



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
venerdì 17 giugno 2011

Nell'ultimo Consiglio dei Ministri è stato approvato un decreto-legge che, come si legge nel comunicato di Palazzo Chigi, serve per corrispondere all'invito formulato all'Italia dalle Istituzioni europee a rendere più completa la normativa di recepimento della direttiva 2004/38 in materia di diritto per i cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri; il decreto-legge recepisce anche la direttiva 2008/115 in materia di rimpatrio di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare. Queste le principali innovazioni:

ripristinata la procedura di espulsione coattiva immediata per tutti gli extracomunitari clandestini qualora:
pericolosi per l'ordine pubblico e la sicurezza dello Stato;
a rischio di fuga;
espulsi con provvedimento dell'autorità giudiziaria;
violino le misure di garanzia imposte dal Questore;
violino il termine per la partenza volontaria.
2. Introdotto l'allontanamento coattivo (espulsione) anche dei cittadini comunitari per motivi di ordine pubblico se permangono sul territorio nazionale, in violazione della direttiva 38/2004 sulla libera circolazione dei comunitari.
3. Prolungato il periodo di permanenza nei Centri di identificazione ed espulsione fino a 18 mesi, in linea con le disposizioni della direttiva.
4. Per evitare il rischio di fuga dello straniero, sono previste misure di garanzia idonee, la cui violazione è punita con la multa da 3.000 a 18.000 euro.
5. Rimodulate le fattispecie dei reati di violazione e reiterata violazione dell'ordine del Questore di lasciare il territorio con la previsione della sanzione pecuniaria e con la possibilità per il giudice di pace di sostituire la condanna con l'espulsione.
6. Attribuita al giudice di pace la competenza anche sui reati di violazione e reiterata violazione dell'ordine del Questore di lasciare il territorio e sui reati di violazione delle misure di garanzia per evitare il pericolo di fuga e delle misure alternative al trattenimento imposte dal Questore.
7. Previste misure alternative al trattenimento nel Cie per lo straniero irregolare che non sia pericoloso, quali la consegna del passaporto o altro documento equipollente, l'obbligo di dimora e l'obbligo di presentazione presso gli uffici della Forza pubblica. La violazione delle misure viene punita con la multa da 3.000 a 18.000 euro.
8. Prevista la concessione di un termine per il rimpatrio volontario, anche assistito, dello straniero irregolare che non rientri nelle condizioni previste al punto 1.
9. Introdotte ulteriori misure di adeguamento della normativa nazionale alle direttive 38/2004 e 115/2008.

Il pacchetto di misure è abbastanza corposo e la tempistica di adozione dimostra la volontà del Governo di prevenire, attraverso l'irrigidimento delle misure in tema di espulsione dei clandestini, il riacutizzarsi del fenomeno degli sbarchi che tende ad aumentare di intensità con la bella stagione e il mare calmo. Tuttavia non si può pensare di risolvere solo per via legislativa o con la sola forza di polizia la questione degli arrivi di stranieri in Italia in violazione delle nostre leggi in materia di ingresso e permanenza sul territorio nazionale. Le norme e il lavoro delle forze dell'ordine sono importanti perché rappresentano anche per certi versi un deterrente, oltre che un meccanismo vitale nel controllo del territorio e nella prevenzione di tutti quei fenomeni negativi legati alla clandestinità. Tuttavia non basta e si deve fare di più.

Non è un caso, ad esempio, che il ministro dello Sviluppo Economico, Paolo Romani, sarà oggi e domani in missione a Tunisi insieme ai vertici di Ice, Simest, Sace e Invitalia per rinsaldare i nostri legami di natura economica con la Tunisia, primo paese toccato dalle rivolte scoppiate in Nord-Africa e luogo di partenza della maggior parte delle persone arrivate clandestinamente in Italia negli ultimi mesi in cerca di fortuna. Bisogna ricordare che le oltre 700 imprese italiane presenti in quel territorio in tutti i principali settori, dai beni strumentali ai prodotti intermedi, fino ai generi di consumo, danno lavoro a oltre 55 mila persone. Si tratta di una moltitudine di gente che lavora e vive nel proprio territorio grazie all'imprenditoria italiana e che non ha alcuna intenzione di emigrare. Questo è il punto. Il flusso delle partenze può diminuire strutturalmente solo se in quei paesi aumentano le possibilità di trovare un posto di lavoro che permetta di vivere in maniera dignitosa. E' questo l'impegno e la sfida più grande che attende il nostro paese.

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giovedì 16 giugno 2011

Fiom-Cgil contro tutti. Non è una novità



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
giovedì 16 giugno 2011

Tutti in campo in difesa dell'accordo sulla newco di Pomigliano contro il quale la Fiom-Cgil ha presentato ricorso. Sabato 18 giugno ci sarà la prima udienza a Torino. Fim, Uilm e Ugl hanno presentato una memoria «per difendere le importanti ragioni sindacali di un accordo che ha assicurato lavoro e prospettive industriali allo stabilimento di Pomigliano». Si è mobilitata anche la Confindustria. «Stiamo lavorando alacremente - ha spiegato nei giorni scorsi la presidente, Emma Marcegaglia - a un accordo in tempi rapidi tra le parti sociali sulla rappresentanza, che serve alla Fiat ma anche a tutte le imprese italiane per avere le certezze sull'esigibilità dei contratti». Una mano tesa, quindi, a Sergio Marchionne che sul ricorso della Fiom-Cgil aveva detto: «Ci preoccupiamo di tutto, ma siamo pronti a gestire le eventuali conseguenze che potrebbero derivare dal ricorso». E la Fiom? Il segretario generale, Maurizio Landini, ha affermato qualche giorno fa che «c'è un vizio di fondo, parliamo di una truffa legislativa, perché è un trasferimento d'impresa mascherato». Una soluzione che «violando le leggi» impedisce ai lavoratori il trasferimento alla nuova società «senza dimettersi e mantenendo i diritti che avevano, entrando nella nuova azienda con il contratto del 2008». Da qui anche la richiesta della Fiom alla magistratura «di accertare come questo percorso voluto dalla Fiat rappresenti un comportamento antisindacale» finalizzato anche «ad escludere la Fiom dagli stabilimenti».

Per il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi è «auspicabile» una «intesa tra le parti sociali per lo sviluppo di relazioni industriali di prossimità», perché «bisogna velocizzare sui cambiamenti alle relazioni industriali nel nostro sistema». Va completato il lavoro fatto con la riforma del 2009 (firmata da Confindustria con Cisl e Uil, con il no della Cgil), ha detto Sacconi, «dando agli accordi aziendali il potere di regolare tutti gli aspetti che riguardano l'organizzazione del lavoro».
Le posizioni sono chiare. Le parti sociali, ma non da ora, sono divise: da un lato la sola Fiom-Cgil e dall'altro tutti gli altri. C'è chi, come il sindacato rosso dei metalmeccanici, uscito sconfitto dalle consultazioni dei lavoratori sul futuro dei loro stabilimenti, vuole bloccare tutte le riforme possibili a colpi di ricorsi alla magistratura e c'è chi, come gli altri sindacati e Confindustria, ha scelto la via del dialogo con le controparti e della modernizzazione sostenibile del nostro mercato produttivo e del lavoro. L'accordo sullo stabilimento Fiat di Pomigliano, sul quale pende il ricorso della Fiom, è solo la punta dell'iceberg.

Per capire meglio cosa sta succedendo bisogna sapere che le divergenze non nascono certo ora e che sono diversi anni che l'unità sindacale, che peraltro non è un totem, sembra una chimera. La diversità di vedute tra i vari rappresentanti dei lavoratori ha avuto nel tempo la sua naturale evoluzione fino ad arrivare al grande punto di rottura: l'accordo del 2009. L'Accordo del 23 luglio 1993, superando il sistema degli adeguamenti salariali automatici, aveva fissato in quattro anni la durata dei contratti e previsto una sessione intermedia ogni 2 anni per il rinnovo della parte economica. Più recentemente, con l'Accordo del 22 gennaio 2009 tra il governo Berlusconi e le Parti sociali, ad eccezione della Cgil, dove è stato ridefinito il modello di contrattazione sia di primo sia di secondo livello, esteso al pubblico impiego con l'Accordo del 30 aprile 2009, la vigenza dei contratti collettivi nazionali è stata portata a tre anni sia per la parte normativa sia per quella economica, e sono state introdotte nuove regole per il calcolo degli adeguamenti retributivi sull'andamento delle dinamiche inflazionistiche.
Insomma, nel 2009 c'è stato un passaggio storico da un modello che aveva come obiettivo quello di contribuire alla riduzione dell'indice inflattivo a uno che individuava un'altra priorità: lo sviluppo del sistema produttivo ed economico del Paese. Il tempo passa e, con esso, cambiano le esigenze. Un paese moderno coglie al volo la necessità di cambiare. Noi ci abbiamo messo almeno 10 anni in più rispetto al dovuto poiché già nel 1997 la Commissione Giugni evidenziò il manifestarsi dei limiti dell'accordo del '93. La Fiom-Cgil è ferma al 1993, gli altri, invece, seppur con ritardo, guardano al futuro.

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martedì 14 giugno 2011

Fuori la criminalità dal mercato del lavoro



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
martedì 14 giugno 2011

Il crimine organizzato è come un’azienda e come essa si muove nelle dinamiche dell’economia di mercato. Reperisce (illegalmente) fondi, crea e mantiene una struttura organizzativa, produce beni e servizi nell’economia (illegale e legale). Nell’analisi delle relazioni tra l’economia reale e il crimine organizzato, l’incidenza del malaffare nel mercato del lavoro rappresenta una delle massime espressioni di come le attività criminali rovinino il futuro dei giovani.

Nella relazione della commissione Antimafia, sul lavoro svolto a metà mandato, si segnala che «il primato del lavoro nero si spiega con l'esistenza di un'economia caratterizzata dal contoterzismo, dal difficile accesso al credito, dall'imprenditoria di prima generazione, dall'assistenzialismo, da ogni forma di illegalità e da quanto altro, per l'appunto, alimenta l'offerta di lavoro irregolare». Per la commissione Antimafia l'elemento più «drammatico è che troppe volte siano proprio le mafie a raccoglierla, avvalendosi della loro influenza economica, sociale e politica; o peggio ancora fornendo l'alternativa di una vera e propria occupazione criminale. Questo sciagurato reclutamento avviene soprattutto tra le nuove generazioni e, in particolare, tra i giovanissimi provenienti dalle famiglie più povere e a più basso livello di istruzione». Alla fragilità del tessuto economico-sociale, prosegue la commissione Antimafia, «si aggiungono l'eccessiva burocratizzazione e la scarsa efficienza delle amministrazioni regionali, degli enti locali e degli uffici periferici dello Stato, sia nel loro rapporto con i cittadini, sia nella loro interazione con i fattori dello sviluppo».

Il fatturato prodotto dalla criminalità organizzata (stimato in circa 175 miliardi di euro annui dall’Eurispes) interessa sia il Sud che il Nord del paese. La somma del dato del sommerso con quello delle attività criminali arriva a una dimensione pari al 50% del PIL. Stiamo parlando di cifre enormi che vengono reinvestite in ambito direttamente criminale ma anche nell’economia legale a scopo di riciclaggio.Secondo la relazione di controllo della Corte dei Conti sulla «Gestione dei beni confiscati alla criminalità organizzata» le attività economiche su cui investono maggiormente le organizzazioni criminali sono quelle edilizie, immobiliari, commerciale e la grande distribuzione. Il messaggio è chiaro. Le attività criminali, facendo concorrenza illegale alle imprese oneste, riducono ancor di più le possibilità per i giovani di trovare un lavoro. Al contempo, però, offrono a questa galassia di persone l’opportunità di poter entrare direttamente o indirettamente al servizio del malaffare, con un impegno all’interno della stessa struttura organizzativa criminale o occupando posti nelle attività legali, comprate con i soldi ‘sporchi’ e usate per il riciclaggio.

Il Governo sta facendo la sua parte con l’attività ispettiva del Ministero del lavoro, il piano straordinario contro le mafie, con l’approvazione da ultimo dello schema di decreto legislativo recante il Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione presentato dal ministro della giustizia, Angelino Alfano, e il sequestro dei beni (secondo relazione del Ministero della Giustizia al Parlamento, sfiora i 400 milioni di euro il valore dei beni pignorati alla criminalità organizzata negli ultimi 5 anni in Italia). Ma questo non basta e il governo centrale può fare molto ma non tutto. Ognuno deve prendersi le proprie responsabilità per sconfiggere le mafie e spezzare i tentacoli criminali che soffocano il nostro mercato del lavoro. Serve un impegno maggiore da parte di tutti gli altri soggetti interessati. Tanto per cominciare Regioni, Province, Comuni, sindacati, rappresentanze datoriali, singole persone devono essere ancora più vigili e le banche devono dare credito alle imprese che hanno le carte in regola per investire nell’economia legale. Sarebbe solo un buon inizio perché la strada per schiacciare la piovra criminale è lunga e tutta in salita.

giovedì 9 giugno 2011

Sì al referendum sull’acqua = Sì alla Casta, agli sprechi e alle tasse



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
giovedì 09 giugno 2011

I referendum del 12 e 13 giugno sembrano aver risvegliato in molti un po' di senso civico. E fin qui le note positive. Nel merito, però, se si chiede alla maggior parte delle persone che andranno a votare «sì», spesso ci si imbatte in risposte davvero imbarazzanti sulle motivazioni. L'imbarazzo nasce dal fatto che queste persone non sanno su cosa andranno a votare.

Analizziamo i quesiti referendari sull'acqua. Questi ultimi, qualora fosse raggiunto il quorum e vincesse il «sì», bloccherebbero il processo di liberalizzazione della gestione del servizio idrico, facendo rimanere le cose così come stanno. Entriamo nel merito del problema senza perderci in chiacchiere da bar e slogan. I promotori del sì affermano che il loro intento è di difendere l'acqua pubblica, ma difficilmente entrano nel dettaglio. Perché? Molto semplice.

L'acqua, comunque vada il referendum, resterà sempre pubblica. L'art. 15 del Decreto Ronchi, che parla di «piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche il cui governo spetta esclusivamente alle istituzioni pubbliche», spazza via ogni dubbio. Così come pubbliche resteranno le infrastrutture e le reti. Il motivo del contendere, invece, è la gestione. Oggi il servizio è in mano al pubblico, alla «Casta», ai nominati della politica. Il problema, per la verità, non è neanche quello perché ciò che conta è la qualità del servizio offerto che, come tutti ben sanno e forse non ricordano, è spesso davvero scadente. E' questa la questione principale.

Il Decreto Ronchi cerca di assicurare ai cittadini una gestione più efficace ed efficiente, aprendo al libero mercato e alla trasparenza e rompendo, di fatto, un monopolio. Qual è l'alternativa proposta dai sostenitori del «sì» in materia di gestione del servizio idrico, appurato che la proprietà, al netto delle speculazioni, resterà in ogni caso pubblica? Queste persone hanno spiegato ai cittadini che i necessari interventi di ammodernamento della rete idrica, in caso di vittoria dei «sì», si pagherebbero a colpi di aumento delle tasse? No, non è stato spiegato. E non si tratta di una scelta, ma di un obbligo visto lo stato penoso in cui versa la nostra rete.

Secondo una recente indagine dell'Istat, si registra, a livello nazionale, una perdita del 47% di acqua potabile, dovuta alle necessità di garantire una continuità di afflusso nelle condutture, ma anche alle effettive perdite delle condutture stesse. Le maggiori dispersioni di rete si osservano in Puglia, Sardegna, Molise e Abruzzo dove, per ogni 100 litri di acqua erogata, se ne immettono in rete circa 80 litri in più; quelle più basse si riscontrano in Lombardia e nelle due province autonome di Trento e Bolzano.

Questi sono i fatti coperti dalla coltre della vulgata populista, che vuole chiamare i cittadini a esprimersi su quesiti che, nel caso in cui passassero, porterebbero a cose ben diverse rispetto a quelle propagandate.

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martedì 7 giugno 2011

E' un pasticcio il quesito referenderario sul nucleare



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
martedì 07 giugno 2011


La Corte Costituzionale ha dato il via libera al nuovo quesito sul nucleare così come riformulato dalla Cassazione dopo le modifiche introdotte dalla legge «omnibus» (Legge n. 75 del 2011). La decisione sarebbe stata presa unanimemente dai giudici dopo aver ascoltato i legali delle parti in camera di consiglio. Il referendum sul nucleare, quindi, si farà. Il punto però non è questo e neppure se andare a votare sì, no o astenersi. E' un altro. Questo nuovo quesito riformulato dalla Cassazione è utile o no allo scopo? Insomma nel caso in cui vincessero i «sì», sarà impedito il ritorno al nucleare nel nostro paese così come vorrebbero i promotori del referendum?

La questione è molto semplice. Prima dell'approvazione del decreto omnibus, poi convertito in legge, il quesito recitava: «Volete voi che sia abrogato il decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, nel testo risultante per effetto di modificazioni ed integrazioni successive, recante Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria, limitatamente alle seguenti parti: art. 7, comma 1, lettera d: realizzazione nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia nucleare». Una richiesta chiara e semplice. Con un «sì» si chiedeva l'abrogazione della norma che prevedeva il ritorno all'atomo. Con il no o l'astensione la legge restava in vita e, con essa, il processo verso il nucleare.
Oggi, dopo l'approvazione della legge omnibus e l'intervento della Cassazione, il nuovo quesito, recante l'accattivante titolo «Abrogazione delle nuove norme che consentono la produzione nel territorio nazionale di energia elettrica nazionale», recita: «Volete che siano abrogati i commi 1 e 8 dell'art. 5 del d.l. 31/03/2011 n. 34 convertito con modificazioni dalla legge 26/05/2011 del n. 75?»
In pratica, con un titolo che certo non rispecchia quanto si chiederà ai cittadini, si sottoporrà al giudizio del corpo elettorale l'abrogazione della norma che dispone che non si debba procedere all'attuazione del programma di localizzazione, realizzazione ed esercizio nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia elettrica nucleare (comma 1) e di quella che, inoltre, determina l'adozione entro un anno di una strategia energetica nazionale (comma 8). Dove è la norma che espressamente introduce il nucleare? Non c'è e nelle dieci pagine di motivazione depositate all'ufficio centrale per il referendum, i Supremi Giudici hanno sottolineato che all'articolo 5 «la norma pone in essere il meccanismo di temporanea sospensione» che è in realtà regolativa di un rinvio (non di una abrogazione o eliminazione della scelta nucleare) libero da qualsiasi vincolo temporale e rimette la riprese del nucleare, secondo quanto si afferma nel successivo comma 8 dell'articolo 5, ad un provvedimento adottabile dal consiglio dei ministri entro il termine di 12 mesi.

Come ben sanno tutte quelle persone che hanno letto le due disposizioni di cui si chiede l'abrogazione, in quei testi non c'è scritto esplicitamente da nessuna parte che il nostro paese debba ritornare al nucleare. Secondo la Cassazione, invece, in quei testi non c'è scritto quello che è stato messo nero su bianco ma, in realtà, una semplice moratoria di 12 mesi con una successiva ripresa del processo. Comunque sia, la vicenda, certamente di non facile interpretazione, ha prodotto il risultato paradossale che i cittadini saranno chiamati a esprimersi su un quesito che riporta un titolo che non rispecchia l'esplicito contenuto dello stesso. A giudizio della Cassazione, quindi, i cittadini dovranno dire, sempre se non sceglieranno la via dell'astensione, se sono d'accordo o meno con il contenuto implicito della norma di cui si chiede l'abrogazione. Un papocchio.

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giovedì 2 giugno 2011

Mercato del lavoro: meno disoccupati e più inattivi



di Antonio Maglietta
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giovedì 02 giugno 2011

Secondo gli ultimi dati dell’Istat, il numero dei disoccupati diminuisce del 2,9% ad aprile rispetto a marzo (-60 mila unità). Il dato riguarda sia la parte maschile sia quella femminile. Su base annua il numero di disoccupati cala del 7,6% (-164 mila unità). Il tasso di disoccupazione si attesta all’8,1%, in diminuzione di 0,2 punti percentuali rispetto a marzo; su base annua si registra una discesa di 0,6 punti percentuali.

Il tasso di disoccupazione giovanile si porta al 28,5%, registrando una flessione congiunturale di 0,1 punti percentuali. Il tasso di inattività è al 38,1% (0,6 punti percentuali in più rispetto ad aprile 2010). Insomma, ci sono luci, per la discesa del tasso di disoccupazione, e ombre, per l’aumento degli inattivi. Parliamo prima di cosa non va, specificando, innanzitutto, chi sono gli inattivi. Secondo la Treccani, l’inattivo lo si può suddividere in due categorie, alla prima vi appartengono coloro che non cercano lavoro e non sarebbero immediatamente disponibili a lavorare, se ne fosse loro offerta l’opportunità. La seconda, che l’Istat ha definito zona grigia (nel Rapporto annuale edito nel 2005, che fotografa la situazione del Paese nel 2004; cfr. tabella p. 24), comprende: a) coloro che cercano non attivamente lavoro, ma sarebbero disponibili a lavorare, se ne fosse loro offerta la possibilità; b) coloro che cercano attivamente lavoro ma non sarebbero immediatamente disponibili a lavorare; c) coloro che non cercano lavoro, ma che se capitasse loro un’offerta l’accetterebbero.

In pratica l’inattivo è il disoccupato che non cerca attivamente un lavoro. Una persona che ha smesso di fare i colloqui di lavoro, di mettersi in contatto con un centro pubblico per l’impiego, di partecipare a un concorso pubblico, di affidarsi a un annuncio sul giornale. Sempre secondo la Treccani, quindi, si tratterebbe in estrema sintesi di una persona in età lavorativa, compresa tra i 15 e i 64 anni, che non svolge un’attività produttiva e non è compresa nella categoria dei disoccupati. Il tasso di inattività è il rapporto tra gli inattivi e la corrispondente popolazione di riferimento. La somma del tasso di inattività e del tasso di attività è pari al 100%. Capire, quindi, chi sono gli inattivi significa intuire subito i motivi per cui un aumento del tasso di inattività è un brutto segnale. Tutte le componenti del mercato del lavoro italiano, le istituzioni, le imprese, il mondo delle professioni, i sindacati, dovranno fare la propria parte per far tornare la speranza, tutti consci che nessuno ha in mano la bacchetta magica e che la crisi economica mondiale non facilità certo la situazione. Veniamo ai dati positivi. La citata crisi economica mondiale morde ancora e fa sentire i suoi effetti. Basta leggere le notizie che riportano i media su quello che succede in Spagna, in Grecia, ma oramai un po’ dappertutto, per capire che la situazione è ancora critica.

Il nostro paese, tuttavia, in controtendenza, offre spunti positivi con la diminuzione del tasso di disoccupazione generale, sia per le donne sia per gli uomini, e di quello giovanile. Aumenta anche il divario tra il tasso italiano e quello che si registra mediamente in Europa (- 1,8%). Quando si dice che l’Italia sta meglio di tanti altri paesi, quindi, dati alla mano, si afferma il vero. Come ha giustamente ricordato il ministro Sacconi, «della ripresa- aggiunge- beneficiano per ora prevalentemente i cassintegrati che vengono richiamati all'attività lavorativa». Questo vuol dire che la cassa integrazione ha fatto bene il suo dovere, mantenendo vivo il nostro tessuto produttivo, e che la lievissima ripresa, che speriamo nel tempo diventi sempre più forte, sta permettendo a diverse persone di riprendere la propria attività. Che non si viva in un paese perfetto, non devono certo dircelo i vari Vendola, Bersani o il redivivo Prodi: lo sapevamo già anche senza il loro aiuto. Anzi, se oggi al governo ci fossero stati loro, memori del disastroso governo del professore bolognese, avrebbero solo che esibito l'incapacità di prendere una qualsiasi decisione eccetto quella di aumentare le tasse ai cittadini. Non si possono di certo dimenticare le loro lodi nei confronti del novello messia Zapatero: con la sinistra avremmo rischiato seriamente di fare la fine della Spagna.

mercoledì 1 giugno 2011

La Cassazione convalida il referendum sul nucleare



La Corte di Cassazione ha stabilito che il 12 e 13 giugno si terrà il referendum sul nucleare. E' stata così accolta l'istanza presentata dal Pd che chiedeva di trasferire il quesito sulle nuove norme appena votate nel decreto omnibus da poco convertito in legge: quindi la richiesta di abrogazione rimane la stessa, ma invece di applicarsi alla precedente legge si applicherà appunto alle nuove norme sulla produzione di energia nucleare (art. 5 commi 1 e 8).

«La corte si è riunita oggi e ha deciso che sarà tenuto il referendum con il trasferimento del quesito sui commi 1 e 8 dell'articolo 5 della nuova legge». Così il consigliere della Corte di cassazione, Raffaele Botta, ha comunicato ai giornalisti presenti di fronte all'ingresso del tribunale di piazza Cavour la decisione presa durante l'udienza. Botta ha poi spiegato che «il quesito dovrà essere riformulato». Secondo il consigliere «la corte ha ritenuto evidentemente che questi commi potrebbero consentire che comunque si proceda al programma di localizzazione e attuazione del programma. Ha quindi trasferito alla nuova legge il quesito. La decisione è presa a maggioranza».

E’ davvero singolare che la Corte abbia deciso che, in pratica, si possano raccogliere le firme necessarie per richiedere un referendum per l’abrogazione di una parte di una legge e che poi è possibile modificare il quesito e chiamare a votare i cittadini per l’abrogazione di parte di un’altra legge che dice cose diverse. Il quesito referendario, infatti, era stato presentato per dire no alla realizzazione sul territorio nazionale di impianti di produzione di energia nucleare. La norma che si voleva abrogare faceva parte del decreto-legge recante «Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria», firmato il 25 giugno 2008 e convertito in legge con modificazioni il 6 agosto dello stesso anno: «Volete voi che sia abrogato il decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, nel testo risultante per effetto di modificazioni ed integrazioni successive, recante Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria, limitatamente alle seguenti parti: art. 7, comma 1, lettera d: realizzazione nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia nucleare?».

Ora, grazie ad un’istanza del Pd, accolta dalla Cassazione, la richiesta di abrogazione, che per questa novità dell’ultima ora dovrà prevedere per forza di cose un cambiamento del quesito, si rivolge ad una parte del cosiddetto decreto omnibus convertito nella Legge 26 maggio 2011, n. 75 e, nello specifico, ai commi 1 («Al fine di acquisire ulteriori evidenze scientifiche, mediante il supporto dell'Agenzia per la sicurezza nucleare, sui profili relativi alla sicurezza nucleare, tenendo conto dello sviluppo tecnologico in tale settore e delle decisioni che saranno assunte a livello di Unione europea, non si procede alla definizione e attuazione del programma di localizzazione, realizzazione ed esercizio nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia elettrica nucleare») e 8 («Entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto il Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dello sviluppo economico e del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano e acquisito il parere delle competenti Commissioni parlamentari, adotta la Strategia energetica nazionale, che individua le priorità e le misure necessarie al fine di garantire la sicurezza nella produzione di energia, la diversificazione delle fonti energetiche e delle aree geografiche di approvvigionamento, il miglioramento della competitività del sistema energetico nazionale e lo sviluppo delle infrastrutture nella prospettiva del mercato interno europeo, l'incremento degli investimenti in ricerca e sviluppo nel settore energetico e la partecipazione ad accordi internazionali di cooperazione tecnologica, la sostenibilità ambientale nella produzione e negli usi dell'energia, anche ai fini della riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, la valorizzazione e lo sviluppo di filiere industriali nazionali. Nella definizione della Strategia, il Consiglio dei Ministri tiene conto delle valutazioni effettuate a livello di Unione europea e a livello internazionale sulla sicurezza delle tecnologie disponibili, degli obiettivi fissati a livello di Unione europea e a livello internazionale in materia di cambiamenti climatici, delle indicazioni dell'Unione europea e degli organismi internazionali in materia di scenari energetici e ambientali») dell’art. 5 che dicono cose ben diverse. Il comma 1 dispone che non si debba procedere all’attuazione del programma di localizzazione, realizzazione ed esercizio nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia elettrica nucleare, andando incontro alle richieste di chi aveva promosso il referendum. Il comma 5, invece, determina l’adozione entro un anno di una strategia energetica nazionale, cosa di cui questo paese ha assolutamente bisogno, senza che venga assolutamente nominato il nucleare.

La scelta del Governo e della maggioranza che lo sostiene, con l’approvazione del decreto omnibus poi convertito in legge, era stata molto chiara: favorevole all'energia nucleare, ma con una pausa di riflessione sul tema della sicurezza, insieme con l'Unione europea. Il tutto per evitare che per la seconda volta (dopo il referendum del 1987 svolto a ridosso del disastro di Chernobyl dell’anno prima) sia l’emotività, provocata questa volta dai fatti in Giappone, a farci prendere una decisione su una scelta così importante per il Paese. L’art. 39 della Legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo), peraltro, dispone che «se prima della data dello svolgimento del referendum, la legge, o l'atto avente forza di legge, o le singole disposizioni di essi cui il referendum si riferisce, siano stati abrogati, l'Ufficio centrale per il referendum dichiara che le operazioni relative non hanno più corso». Quasi certamente la Cassazione ha fatto riferimento alla sent. n. 68/78 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di questo articolo rispetto all'art. 75, comma 1, della Costituzione «limitatamente alla parte in cui non prevede che se l'abrogazione degli atti o delle singole disposizioni cui si riferisce il referendum venga accompagnata da altra disciplina della stessa materia, senza modificare né i principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente né i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti, il referendum si effettui sulle nuove disposizioni legislative». Ma qui la situazione è ben diversa.

Nella prima norma che si voleva abrogare, c’era un esplicito riferimento al ritorno al nucleare, nella seconda, invece, un blocco espresso delle procedure per rendere attuabile tale piano e la predisposizione di un piano energetico che non menzionava assolutamente l’atomo. Insomma erano stati modificati i principi ispiratori della disciplina precedente e i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti, tanto è vero che l’art. 5 della Legge 26 maggio 2011, n. 75 reca il titolo «Abrogazione di disposizioni relative alla realizzazione di nuovi impianti nucleari» e che il comma 2 del predetto dispone espressamente e senza alcun dubbio che «l'articolo 7 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, è abrogato».

Ora la Cassazione, forzando con tutta evidenza la mano, ha deciso che il corpo elettorale dovrà pronunciarsi per l’abrogazione delle norme che prevedono già il blocco dell’attuazione del programma per il ritorno al nucleare e l’adozione di una strategia energetica nazionale perché, a loro avviso, queste disposizioni non dicono in realtà quello che c’è scritto nero su bianco. Si tratta di una decisione che sottopone al voto dei cittadini l’abrogazione di una sorta di ‘norma fantasma’ che ancora non c’è. Quasi un voler colpire l’intenzione ancor prima dell’attuazione. Un paradosso che, con tutto il rispetto, pone tante domande sul ruolo della Cassazione.

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