martedì 21 giugno 2011

Combattere il presentismo



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
martedì 21 giugno 2011

Secondo il rapporto del Censis «Fenomenologia di una crisi antropologica», «gli italiani sembrano sempre più imprigionati nel presente, con uno scarso senso della storia e senza visione del futuro. Al desiderio si è sostituita la voglia, alle passioni le emozioni, al progetto l’annuncio. In un mondo dominato dalle emozioni, conta solo quello che si prova nel presente, non la tensione che porta a guardare lontano. La perdita di significato della scuola è uno dei sintomi più evidenti del «presentismo». I limiti dell’offerta formativa, che non garantisce il raggiungimento del successo attraverso un percorso di studi impegnativo, condiziona l’atteggiamento complessivo dei giovani italiani. Che in Europa sono quelli che danno una minore importanza alla scuola: il 50% la ritiene un investimento valido, contro ad esempio il 90% dei giovani in Germania».
Non bisogna meravigliarsi. Secondo i dati più recenti sempre del Censis, in Italia lavora il 66,9% dei laureati dai 25 ai 34 anni, contro una media europea dell’84%, (87,1% in Francia, 88% in Germania, 88,5% nel Regno Unito). Al contrario di quello che accade negli altri Paesi europei, il tasso di occupazione tra i laureati italiani in quella fascia di età è più basso di quello dei diplomati (69,5%). Secondo la Salary Guide 2011, una ricerca condotta dalla Hays, società che è tra i leader mondiali nel reclutamento di professionalità manageriali, che ha coinvolto centinaia di aziende e migliaia di professionisti con l’obiettivo di indagare sul mercato del lavoro e sulle problematiche nuove o consolidate che lo affliggono, in Italia la laurea e in generale il titolo di studio contano davvero poco per le aziende rispetto all’esperienza di lavoro (in pratica solo nel 10% dei casi). E allora un giovane si chiede: perché sudare per arrivare alla laurea se poi non servirà per aprire le porte del mercato del lavoro? Ecco il punto.
La recente riforma dell’università, tra mille polemiche e altrettante resistenze, ha cercato di porre rimedio alle criticità del nostro sistema dell’istruzione attraverso la razionalizzazione dei corsi di laurea, davvero troppi e utili solo per pagare gli stipendi a qualche barone e alla sua corte, e le nuove regole introdotte in materia di reclutamento e finanziamento. Ma il problema non è solo a monte ma anche a valle. Perché le nostre aziende, nella maggior parte dei casi, cercano solo lavoratori con bassi profili professionali? Il più delle volte è così, anche se è opportuno segnalare che spesso diversi posti di lavoro restano vacanti perché mancano lavoratori idonei a ricoprirli. La colpa è anche del nostro sistema formativo, che si è evoluto negativamente dando più importanza all’arricchimento delle tasche dei formatori che alla necessità dei formati di migliorare le proprie capacità e il proprio profilo professionale. Tempo fa Giuseppe De Rita, il presidente del Censis, ha segnalato che c'è stata una divaricazione nel mercato del lavoro: da una parte i nostri giovani hanno imboccato la strada della scolarizzazione progressiva; dall'altra gli immigrati che hanno coperto i buchi lasciati liberi.
I nostri giovani sono stati colpiti dalla maledizione/benedizione della scuola. Abbiamo sacrificato gli istituti tecnici, quando l'Italia si è costruita su di loro. Che ce ne facciamo dei diplomati generici? E dei corsi di laurea che non hanno alcuna ragione d'essere? Abbiamo costruito un monumento al generico rifiutando ideologicamente la formazione finalizzata al lavoro. Oggi i giovani italiani, segnala il citato rapporto dell’istituto di ricerca, sono anche quelli in Europa che meno hanno intenzione di avviare una propria attività autonoma: il 27,1% contro una media europea del 42,8%, il 74,3% in Bulgaria, il 62,2% in Polonia, il 60,6% in Romania, ma anche il 53,5% in Spagna, il 44,1% in Francia e il 40,3% nel Regno Unito. Significativa è la motivazione addotta: al 21,8% appare un’impresa troppo complicata, contro una media europea del 12,7%. E anche qui non c’è alcuno stupore nel leggere certi dati.
La colpa è dell’eccessiva burocratizzazione del sistema economico, la stessa piaga che vessa continuamente chi ha voglia di fare un’attività rispettando le regole e premia incredibilmente e sistematicamente invece chi quelle stesse regole le aggira. La semplificazione amministrativa, un percorso già intrapreso da questo governo, è la via maestra per abbattere questo sistema come lo è anche quella di colpire più duramente le violazioni sostanziali ancor di più di quelle formali e distinguere e combattere diversamente l’illegalità criminale da quella per la sopravvivenza. Combattere quello che il Censis chiama il «presentismo» è un dovere di tutti: a partire dalle istituzioni, passando da quelli che i sociologi chiamano i corpi intermedi, fino ai singoli cittadini. Nessuno è esente da colpe e tutti possono essere utili per risalire la china e uscire dal pantano. Bisogna avere però una visione di insieme perché con le misure di corto respiro non si va lontano.

FONTE

Nessun commento:

Google