martedì 22 febbraio 2011

Crisi libica: la demagogia della sinistra



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
lunedì 21 febbraio 2011

Le rivolte in Tunisia, Egitto, e ora anche in Libia, hanno avuto come effetto immediato quello di aumentare il numero di persone in partenza da quei luoghi e dirette verso l'Europa alla ricerca di un futuro migliore. A Lampedusa, dall'inizio del 2011, sono sbarcate quasi 6mila persone. Nello stesso periodo dello scorso anno gli sbarchi erano stati solamente una cinquantina e, se prendiamo in considerazione l'intero anno, gli arrivi avevano raggiunto quota 3mila. Negli ultimi anni il 2008 è stato quello più complicato, con 37mila arrivi. L'Italia era diventata il ventre molle d'Europa. L'accordo stretto dal nostro paese con la Libia, uno dei primi atti del governo in carica, una volta divenuto operativo (maggio 2009) aveva invertito questa dinamica e gli sbarchi erano drasticamente diminuiti. Questo è un dato di fatto e non certo una considerazione oggetto di speculazione politica.

La rivolta scoppiata ora in Libia, dopo quella in Tunisia, rischia di far aumentare gli arrivi sulle nostre coste in modo vertiginoso, visto che l'Italia è il paese più vicino ai due stati nord africani. Qualcuno, come Bersani ad esempio, si è rimesso a criticare l'accordo stretto dal nostro paese con la Libia nell'estate del 2008, definendolo una scelta sbagliata e affermando che, con le rivolte in corso in quel paese, il patto verrà meno. A queste persone bisogna rispondere che il solo controllo di polizia da parte del paese ospitante è un pannicello caldo, che può fare poco o nulla e che gli unici strumenti utili per combattere l'immigrazione clandestina sono proprio gli accordi bilaterali e i progetti di cooperazione allo sviluppo. Si tratta di una strategia che ha già dato i suoi frutti con l'Albania e che li stava dando anche con la Libia che, bisogna sempre ricordarlo, è la base delle partenze della maggior parte degli immigrati che arrivano clandestinamente via mare nel nostro paese. Con chi dovevamo firmare gli accordi se non con chi deteneva l'autorità nel paese e cioè con Gheddafi? Queste accuse sono davvero risibili. L'unica strada che andava intrapresa con coraggio per combattere efficacemente le direttrici della tratta degli esseri umani era proprio quella scelta dal governo Berlusconi. Quale, altrimenti, l'alternativa? Non certo continuare a far restare Lampedusa solo un «luogo di soccorso e primissima identificazione», come ad esempio chiesto da Amnesty International nel Rapporto Annuale 2009 sulla situazione dei diritti umani, e cioè un luogo dove chiunque possa sbarcare in sfregio alle leggi sull'ingresso legale nel nostro Paese.

Sono ridicole le affermazioni di Franceschini e Veltroni, che chiedono al nostro governo di intervenire nella rivolta in corso in Libia lamentando l'inerzia del nostro paese. I due non sono scesi nel dettaglio, ma si sono limitati a dichiarazioni generiche; non si sono fatti certo portatori di una proposta concreta e realizzabile. Sarebbe chiedere troppo. L'unica cosa sensata da fare in questo momento nel brevissimo periodo è: tenere per quanto possibile la situazione sotto controllo con i pattugliamenti nel Mediterraneo, non solo con mezzi e uomini italiani, ma a anche con l'intervento europeo in toto e nello specifico di Frontex, l'agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell'Unione europea, e condannare le violenze in Libia con una sola voce per tutta l'Europa. La condanna deve essere forte e unanime.
Giusto, quindi, l'appello dei 27 ministri degli Esteri Ue, che hanno chiesto «a tutte le parti» di astenersi da ogni forma di violenza: spetterà al popolo libico scegliere il proprio futuro e tutti i governi europei dovranno rispettare questo processo con l'augurio che la stabilizzazione di quel paese avvenga in tempi rapidi e con modi meno cruenti possibili, cosa che, comunque, non sembra essere all'orizzonte visti gli scontri violenti e sanguinosi in corso. Ci aspettano giorni duri e situazioni complesse da affrontare.
Il ministro Frattini al momento si è mosso molto bene, con la giusta e necessaria prudenza e in coordinamento con i suoi colleghi europei. La prudenza è d'obbligo, anche perché nessuno oggi è in grado dire come si evolverà la situazione. Nessuno, tra i governi europei, ha parteggiato ufficialmente solo per una parte nella crisi tunisina e in quella egiziana. E' stata solamente chiesta dapprima la cessazione delle violenze e, successivamente, è stata accettata quella che è stata l'evoluzione della situazione. Lo stesso avviene ora per la Libia. Secondo il ministro Frattini bisogna «rispettare la ownership nazionale della riconciliazione. Non possiamo pensare che alla fine del processo vi sia una divisione in due del Paese» (in una delle quali finisca per prevalere l'estermismo islamico). Un Paese che, ha sottolineato il capo della diplomazia italiana, «è sulla soglia di una guerra civile». Lo stesso ministro ha giustamente sottolineato che sulla situazione in Libia la posizione dell'Italia coincide con quella europea: «Sono il ministro degli Esteri di un paese europeo e le richieste alle autorità libiche le abbiamo fatte insieme, come Europa. Ora aspettiamo la risposta da Tripoli». «Il consiglio - si legge nelle conclusioni che anche Frattini ha riportato in conferenza stampa - chiede un'immediata fine dell'uso della forza contro i dimostranti, e moderazione da parte di tutte le parti in causa». Inoltre, «alle legittime aspirazioni e richieste di riforme da parte del popolo si deve rispondere attraverso un dialogo guidato dai libici» che sia «aperto, completo, significativo e nazionale, che porti a un futuro costruttivo per il paese e per la popolazione».

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venerdì 18 febbraio 2011

Immigrazione. Serve un forte impegno di Frontex



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
giovedì 17 febbraio 2011


Sull'aumento dei flussi di immigrati diretti in Europa a seguito dei noti fatti in corso in Egitto e Tunisia, va fatta chiarezza su chi deve fare cosa e su quali siano le prospettive di questi interventi. Innanzitutto dobbiamo tener presente che si tratta di una situazione di emergenza: casi del genere non possono essere affrontati con strumenti ordinari. Serve qualcosa di più in termini di idee, azioni, mezzi, uomini, risorse e tempi di reazione.

I Paesi maggiormente colpiti dall'aumento dei flussi sono certamente quelli (come l'Italia, la Francia, la Spagna, la Grecia, Malta e Cipro) che, a causa della propria posizione geografica, sono la porta d'ingresso in Europa. Per questo motivo essi vivono l'emergenza in corso con uno stato d'animo diverso rispetto agli altri Stati del Vecchio Continente. Spetta infatti a loro fare pressione sulle istituzioni europee, in modo unitario, per far capire a Frontex e alla Commissione Ue che si tratta di un problema di tutti e non solo dei Paesi frontalieri, spesso solo tappa di passaggio per arrivare in Germania o nei Paesi del nord. Va quindi giudicata molto positivamente la riunione voluta dal ministro Maroni il 23 febbraio a Roma, con i colleghi degli Stati già citati in precedenza, allo scopo di sostenere la posizione espressa dall'Italia in seno all'Unione Europea e di affermare una linea comune in vista del Consiglio Giustizia e Affari Interni in programma il giorno successivo a Bruxelles.

Lascia perplessi, al riguardo, l'intervista rilasciata a Repubblica da Ilkka Laitinen, direttore di Frontex, l'agenzia europea per il controllo delle frontiere. Laitinen ha affermato che a Lampedusa «svolgeremo un ruolo complementare a quello delle autorità italiane. Non possiamo sostituirci al loro lavoro. Daremo un aiuto nella gestione dei clandestini sbarcati e nell'eventuale rimpatrio nei Paesi di origine. Svolgiamo solo un ruolo di appoggio alle autorità del Paese ospitante. La responsabilità maggiore è, come sembra ovvio, dell'Italia». Insomma, il direttore di Frontex sembra voler dire che un aiutino lo darà, ma in sostanza dobbiamo vedercela da soli perché siamo noi il Paese ospitante. Come se l'Italia, ma a questo punto anche Francia, Spagna e tutti gli altri Paesi interessati, non fossero Europa ma altro. E che vuole dire Laitinen quando parla di ruolo di appoggio? Secondo il regolamento del Consiglio istitutivo dell'agenzia, essa ha il compito di coordinare la cooperazione operativa tra gli Stati membri in materia di gestione delle frontiere esterne; assistere gli Stati membri nella formazione di guardie nazionali di confine, anche elaborando norme comuni in materia di formazione; preparare analisi dei rischi; seguire l'evoluzione delle ricerche in materia di controllo e sorveglianza delle frontiere esterne; aiutare gli Stati membri che devono affrontare circostanze tali da richiedere un'assistenza tecnica e operativa rafforzata alle frontiere esterne; fornire agli Stati membri il sostegno necessario per organizzare operazioni di rimpatrio congiunte. Frontex ha fatto o farà tutto questo? Altro che il semplice aiutino che promette Laitinen!

Per quanto riguarda gli interventi utili e le prospettive, in primo luogo, nel breve periodo, serve parare il colpo aumentando i pattugliamenti nel Mediterraneo per tenere sotto controllo la situazione e intervenire per evitare tragedie in mare. Al contempo è necessario garantire che la situazione a terra continui ad essere regolata attraverso la normale procedura: identificazione, vaglio delle singole posizioni e conseguente azione. Nessuno si sogni di chiedere all'Italia di farsi carico da sola di tutte le eventuali richieste di asilo che dovessero arrivare. Si tratta di un problema comune e tutti i Paesi europei dovranno fare la propria parte. Queste operazioni rischiano però di rivelarsi insufficienti nel lungo periodo se non si affronta con la diplomazia il vero problema che è la stabilizzazione della Tunisia, dell'Egitto e di tutti quei Paesi che si dovessero trovare nella stessa situazione. La proposta di un piano Marshall lanciata dal ministro Frattini va sostenuta da tutti gli Stati europei e dalle istituzioni comunitarie. Se 32 milioni di egiziani continueranno a vivere con 2 dollari al giorno, qualunque sarà l'evoluzione politica delle rivolte, i flussi di immigrati diretti in Europa non si arresteranno.

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lunedì 14 febbraio 2011

IMMIGRAZIONE. OCCORRE L'INTERVENTO EUROPEO



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
lunedì 14 febbraio 2011

L'instabilità politica in Tunisia ed Egitto sta alimentando i viaggi della speranza verso l'Italia, terra spesso di transito per raggiungere altre destinazioni in Europa. La situazione a Lampedusa e dintorni, dove stanno avvenendo sbarchi di clandestini con una certa regolarità, è un segnale molto chiaro a riguardo. C'è allarme anche in Francia. Il governo transalpino ha avvertito che non tollererà un esodo di massa d'immigrati clandestini dalla Tunisia o da altri Paesi. «Non vi può essere tolleranza per l'immigrazione clandestina», ha sottolineato il ministro Eric Besson, intervistato dall'emittente televisiva Canal Plus. E' bene chiarire che a guadagnarci, in tutta questa situazione, sarebbero solamente le organizzazioni criminali che lucrano sulla tratta degli esseri umani e sulle speranze di questa povera gente. A perderci, invece, tutti gli altri, immigrati compresi.

Se non vogliamo correre il fondato pericolo di essere travolti da una marea umana, dobbiamo lasciar perdere le chiacchiere dei profeti di sventura e le sterili polemiche, ragionare con raziocinio e buon senso, pensare che qualsivoglia intervento non risolverà subito la situazione, che bisognerà avere come prospettiva il medio-lungo periodo. Nell'immediato è necessario correre ai ripari muovendosi su diversi fronti: controllo e salvaguardia delle frontiere, assistenza in mare e su terraferma agli immigrati clandestini, diplomazia.

Sul fronte della salvaguardia delle frontiere va accolta positivamente la dichiarazione del ministro Frattini, che vuole ripristinare i pattugliamenti nel Mar Mediterraneo, un meccanismo che fino a un mese fa aveva riportato a zero l'immigrazione clandestina. Questo è un dato di fatto difficilmente contestabile e, quindi, ripresentare questo piano d'intervento non può che essere un'azione positiva nell'ottica del contenimento del fenomeno.

Per quanto riguarda invece l'assistenza in mare e su terraferma agli stranieri in fuga dai loro Paesi, l'Italia non deve far altro che continuare con quello che ha sempre fatto: agire nel pieno rispetto delle regole nazionali e internazionali, con quell'umanità che da sempre ha contraddistinto il lavoro svolto dai nostri operatori, sia civili sia militari. Ma una cosa è la doverosa assistenza alle persone, tutt'altra è la concessione dell'asilo. Sempre il ministro francese Besson, parlando della situazione nel suo Paese e della concessione dell'asilo, ha affermato che «alcuni possono avere diritto». In vista dell'eventuale elargizione del beneficio non si dovrà insomma trattare - ha spiegato - di una «decisione collettiva», bensì sarà necessario «analizzare caso per caso» la situazione dei richiedenti. Insomma, in Francia mettono le mani avanti e nessuno si sogna minimamente di concedere il diritto d'asilo a tutti i richiedenti, com'è successo di sentire qui in Italia, dove peraltro non si capiscono bene quali siano i presupposti e la prospettiva di lungo periodo di una tale proposta assurda.

Il piano diplomatico è quello più delicato, ma è anche quello su cui bisogna puntare con più decisione per affrontare il problema. In questo ambito le direttrici di intervento sono tre: sul tavolo delle relazioni internazionali per promuovere azioni che stabilizzino la Tunisia e l'Egitto, su quello dei rapporti bilaterali con i Paesi di provenienza e, infine, in ambito comunitario.

Il ministro Frattini ha proposto un «Piano Marshall per il Mediterraneo», in modo da promuovere economicamente la transizione democratica in Egitto e Tunisia. Si tratta di una proposta di buon senso, che va sostenuta. Lo sviluppo economico di quelle aeree è l'unico mezzo realistico per diminuire le partenze nel medio-lungo periodo. Se 32 milioni di egiziani, su un totale di 80, vivono con meno di 2 dollari al giorno, la via da intraprendere non può che essere quella. Il titolare della Farnesina incontrerà anche il primo ministro del governo di transizione tunisino, Mohammed Gannouchi, con cui parlerà di pattugliamenti al largo delle coste tunisine, aiuto con mezzi navali e terrestri e, come preannunciato dal ministro dell'Interno, Roberto Maroni, di un contingente di poliziotti per frenare il flusso di migliaia di disperati che stanno sbarcando in questi giorni a Lampedusa. Il problema della collaborazione con i Paesi di provenienza degli immigrati, vista la situazione in cui versano Egitto e Tunisia, è forse l'aspetto più problematico per quanto riguarda le garanzie che possono arrivare sull'attuazione degli eventuali accordi. Tuttavia non c'è altra strada realisticamente percorribile.

Destano stupore, infine, le dichiarazioni del commissario europeo agli Affari Interni, Cecilia Malmstroem, in risposta a quelle del ministro dell'Interno italiano («Siamo soli, l'Europa non sta facendo nulla», aveva detto Maroni. «Sono allibito da questo approccio burocratico»): «Sono stata formalmente in contatto sabato scorso con le autorità italiane, a cui ho chiesto in che modo la Commissione poteva fornire sostegno. La loro risposta è stata: "No, grazie, in questo momento non ne abbiamo bisogno"». Con tutta la buona volontà, sembra davvero difficile che un Paese come l'Italia, in una situazione del genere, rifiuti un aiuto che da sempre reclama. E infatti Maroni ha affidato una secca replica al suo portavoce: «Non è vero che l'Italia ha rifiutato l'aiuto offerto dalla Commissione europea per fronteggiare l'emergenza sbarchi dalla Tunisia. Maroni e Malmstroem - spiega una nota - si sono sentiti sabato scorso ed il ministro ha avanzato alcune richieste, peraltro non nuove: l'intervento di Frontex per controllare il Mediterraneo, gestire i centri per gli immigrati e rimpatriare i clandestini, nonché il rispetto del principio del burden sharing, che cioè siano tutti i Paesi dell'Unione a farsi carico di rifugiati e clandestini».

L'Italia non è il solo Paese che rischia di essere travolto dall'ondata di clandestini proveniente da Egitto e Tunisia. Sappiamo, come detto, che è a rischio anche la Francia e, indirettamente, tutto il resto d'Europa. Il problema è che Francia e Italia sono le porte d'ingresso e, volenti o nolenti, sentono il problema in modo diverso rispetto ad altri Paesi del Vecchio Continente. Non siamo certo al «mal comune, mezzo gaudio», ma ad una prospettiva in cui due voci in Europa che chiedono la stessa cosa, ossia una politica solidale nell'Unione in tema di salvaguardia delle frontiere esterne, gestione della fase assistenziale e concessione del diritto di asilo, è molto meglio di una in cui ce n'è una sola.

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venerdì 4 febbraio 2011

Diminuisce la cassa integrazione, cresce la speranza nella ripresa


di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
giovedì 03 febbraio 2011

Secondo gli ultimi dati dell'Inps, a gennaio sono stati chiesti ed autorizzati 60,3 milioni di ore di cassa integrazione. L'istituto ha segnalato che questo dato «segna un calo significativo, sia a livello congiunturale (-30,3% rispetto a dicembre 2010, quando sono stati chiesti 86,5 milioni di ore di cig), sia a livello tendenziale (-25,5% rispetto a gennaio 2010, quando vennero autorizzati 80,9 milioni di ore)». Secondo l'Inps questi numeri «confermano clamorosamente una tendenza alla diminuzione della richiesta di cig in atto dal mese di giugno 2010. Si tratta di una flessione generalizzata per tutti e tre gli istituti: -14,6% di richieste di cassa integrazione ordinaria (cigo) rispetto a dicembre; -44,9% per la cassa integrazione straordinaria (cigs); -16,8% per la cassa integrazione in deroga (cigd)».

Per i settori produttivi il calo più significativo riguarda industria e artigianato (-31,6% rispetto a dicembre 2010) e il commercio (-36%). L'industria segnala anche il crollo delle richieste di cigs (-44,2%) e cigd (-10%). A livello territoriale la diminuzione di richieste di cig è quasi equamente distribuita, con la punta per le regioni del Centro, che hanno registrato una flessione nelle richieste dell'ordine del 45,6%.

Tutti questi numeri ci forniscono la possibilità di fare qualche considerazione sullo stato di salute del nostro tessuto produttivo e sul protrarsi degli effetti della crisi economica mondiale. Sono almeno un paio d'anni che l'andamento delle richieste di cassa integrazione servono per monitorare gli effetti della crisi. La cassa integrazione ordinaria segnala le difficoltà legate a eventi o situazioni temporanee di mercato, quella straordinaria, tra le altre cose, le crisi industriali, mentre quella in deroga la tenuta di chi ha un contratto atipico. Quando le richieste di cig aumentavano, era giusto sottolineare che il sistema di protezione sociale aveva mantenuto vivo il nostro tessuto produttivo ma anche che la crisi mordeva e provocava grosse difficoltà al sistema delle imprese, costrette a ricorrere a questo strumento. Almeno fino a tre mesi fa, la progressiva diminuzione della cig ordinaria e di quella straordinaria e, di contro, l'aumento di quella in deroga introdotta dal governo Berlusconi, delineava una situazione che confermava che nei periodi di crisi ad essere colpite con più durezza sono sempre le persone più deboli, e in questo caso si trattava di quelle con un contratto atipico (nello specifico tutti i lavoratori subordinati, compresi apprendisti, lavoratori con contratto di somministrazione e lavoranti a domicilio, dipendenti da aziende che operino in determinati settori produttivi o specifiche aree regionali, individuate in accordi governativi). Ora la decisa diminuzione di tutti e tre i tipi di cassa integrazione fotografa realisticamente una chiara inversione di tendenza non episodica, perché sono diversi mesi che si registrano indicazioni positive sul tema; continua, dato che da qualche tempo ogni mese e senza interruzioni ci sono diminuzioni nelle richieste; infine rilevante sul piano dei numeri, sia a livello congiunturale che tendenziale.

I numeri ci dicono che la crisi non è ancora passata e che la sua scia continua a produrre effetti negativi. Per questo motivo è giusto non abbassare la guardia. Tuttavia questi stessi dati ci permettono di guardare al futuro con maggiore speranza e serenità alla luce dell'aumento delle ore lavorate e dei segnali di ripresa che s'intravedono, seppur ancora troppo timidi e selettivi.

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mercoledì 2 febbraio 2011

L'impegno del governo contro la disoccupazione



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
mercoledì 02 febbraio 2011

Ci sono aspetti positivi e negativi negli ultimi dati Istat sulla disoccupazione. Innanzitutto vale la pena di ricordare che il periodo di riferimento è dicembre 2010. Le notizie positive sono il tasso di disoccupazione generale stabile rispetto alla rilevazione del mese precedente e la piccola diminuzione di quello riguardante le donne sia su base mensile sia annuale. Quelle negative, invece, sono il consolidamento della disoccupazione giovanile e il lieve aumento del tasso di disoccupazione totale rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Il consolidamento del tasso di disoccupazione della fascia di età che va dai 15 ai 24 anni, così come il lieve aumento della disoccupazione in generale su base annuale (+0,2% da dicembre 2009 a dicembre 2010), ma non su base mensile (tasso invariato da novembre 2010 a dicembre 2010), è dovuto alla scia degli effetti negati della crisi economica mondiale. E' opportuno parlare di «scia» perché il dato negativo, con riferimento alla disoccupazione giovanile, è molto più accentuato su base annuale (+ 2,4% da dicembre 2009 a dicembre 2010) e lieve su base mensile (+0,1% da novembre 2010 a dicembre 2010). Lo stesso discorso può essere fatto, seppur con valutazioni e numeri molto più positivi, sull'andamento del dato generale riguardante la disoccupazione. I dati indicano, quindi, una stabilizzazione degli effetti della crisi economico-finanziaria sull'occupazione. Ovviamente questo non significa minimizzare il problema della disoccupazione. Ogni persona che resta a casa rappresenta una sconfitta per il sistema, oltre a tutto quello che questa condizione già comporta sul piano personale. Quindi, quando si parla di numeri, con riferimento alla disoccupazione, bisogna sempre tener presente che dietro quelle cifre ci sono delle persone.
Per avere un quadro più chiaro e completo della situazione, i numeri sulla disoccupazione italiana devono essere anche confrontati con quelli analoghi degli altri paesi europei. Secondo gli ultimi dati dell'Eurostat, la disoccupazione è rimasta invariata a dicembre, rispetto al mese precedente, nell'eurozona (10%) e nell'Ue a 27 (9,6%). Su base annuale (da dicembre 2009 a dicembre 2010), invece, c'è stato un aumento dello 0,1%. L'andamento del tasso di disoccupazione in Europa, quindi, è in linea con quello che è stato l'andamento italiano nello stesso periodo, con la differenza che nel nostro paese il tasso di disoccupazione è inferiore (8,6%) a quello della media del Vecchio Continente.
Quanto alla disoccupazione giovanile, tra i ragazzi sotto i 25 anni, a dicembre era del 20,4% nell'eurozona ed al 21% nell'Ue a 27, con il minimo in Olanda, all'8,2% ed il massimo in Spagna, al 42,8%. In Italia è al 29%. Su questo dato va fatto un discorso a parte. La disoccupazione dei giovani nel mondo del lavoro italiano è un problema che viene da lontano. I dati ci dicono che da sempre donne e giovani sono i punti deboli del sistema e, in periodo di crisi, sono i primi a essere colpiti.
E' per questo motivo che vanno accolti con grande soddisfazione i dati sulla diminuzione del tasso di disoccupazione femminile sia su base mensile (- 0,3% da novembre 2010 a dicembre 2010) che annuale (- 0,3% da dicembre 2009 a dicembre 2010). Il ministro del lavoro e delle politiche sociali, Maurizio Sacconi, nel corso del question time alla Camera dei deputati di mercoledì, rispondendo ad una interrogazione del gruppo del Popolo della Libertà sul tema della disoccupazione, con particolare riguardo a quella giovanile, presentata da Simone Baldelli e Annagrazia Calabria, ha affermato che il fenomeno dipende dal fatto che «recentemente c'è stata una forte protezione degli adulti, che si è realizzata con una regolazione del lavoro, come lo stesso articolo 18, che tende a scaricarsi sui più giovani e sulle modalità contrattuali con cui vengono assunti» e dagli ammortizzatori che si sono rivolti ai «capi famiglia». C'è, inoltre, «un forte disallineamento tra le competenze richieste dal mercato del lavoro e quelle offerte dal sistema educativo». Il governo è già intervenuto sul tema degli ammortizzatori sociali iniqui, quando ad esempio ha introdotto la cassa integrazione in deroga, ma su questo punto si può e si deve fare molto di più per arrivare a creare un sistema finanziariamente equilibrato che dia a tutti quelli che oggi ne sono sprovvisti, e guarda caso si tratta nella maggior parte dei casi di giovani, una copertura sociale in grado di garantire un po' più di tranquillità.
Va comunque dato atto a questo governo di avere messo in campo una serie di azioni sul tema specifico del contrasto alla disoccupazione giovanile, innanzitutto quando ha scelto in modo lungimirante di investire sulle competenze, con il rilancio dell'apprendistato e della formazione professionale, e di implementare gli strumenti per far incontrare domanda e offerta di lavoro. A riguardo va segnalato «Cliclavoro», il nuovo portale del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali realizzato per favorire e migliorare l'intermediazione tra domanda e offerta di lavoro e il raccordo tra i sistemi delle imprese, dell'istruzione, della formazione e delle politiche sociali.
Ma vanno anche menzionati altri interventi importanti come il Piano triennale «Liberare il lavoro per liberare i lavori», approvato nel Consiglio dei Ministri del 30 luglio dello scorso anno, la bozza del disegno di legge delega sullo Statuto dei lavori, inviata alle parti sociali l'11 novembre scorso, il piano del ministro Meloni e, da ultimo, la cabina di regia interministeriale che vede coinvolti la stessa Meloni, la Gelmini e Sacconi. Ovviamente ci vuole tempo per valutare l'impatto di questi interventi, ma tutto si può dire tranne che il governo è stato a guardare. La disoccupazione è una condizione deprimente, soprattutto per chi è abituato ad essere attivo, ma lo sbaglio più grande che si può fare è mollare e non credere più di riuscire a rientrare nel mercato. Bisogna stringere i denti, investire su se stessi, credere nelle proprie capacità.

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martedì 1 febbraio 2011

Qualunquismo e benaltrismo. Così la sinistra risponde a Berlusconi



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
martedì 01 febbraio 2011

In Italia, da qualche tempo, ci si esercita spesso e volentieri in atteggiamenti che non portano da nessuna parte: il qualunquismo e il benaltrismo. Si dice no a una proposta, ma non si avanza mai un'alternativa credibile. S'invocano i salari tedeschi, ma non i tempi e i modi di lavoro in uso in Germania. Si parla di modello inglese a proposito dell'incidenza dei contratti a tempo indeterminato nel mercato del lavoro, ma poi non si accettano le regole sul licenziamento tipiche di quel sistema. Si chiedono gli investimenti per la ricerca come in Usa, ma ci si dimentica che la maggior parte dei finanziamenti lì arriva dal settore privato.

Il qualunquismo e il benaltrismo, se fatti propri dagli uomini politici, servono solo per mascherare la mancanza di progetti e per pontificare sul nulla. Nel vuoto di idee e in assenza di proposte realistiche in grado di attrarre consenso, in Italia la lotta politica viene portata avanti cercando di screditare l'avversario. Sappiamo tutti le cose che vengono contestate a Berlusconi. E sarebbe utile ricordare che a De Gasperi, colui che non fece morire di fame gli italiani dopo la guerra, diedero del servo a libro paga degli Stati Uniti e del baciapile clericale. A Fanfani dello speculatore edilizio e distruttore delle bellezze naturali del Paese. Ad Andreotti del mafioso e a Craxi del ladro. Ogni grande leader politico che è divenuto presidente del Consiglio è stato fatto oggetto di diffamazioni gravissime da parte della sinistra. I cui rappresentanti, così impegnati a gettare fango sugli avversari politici, non hanno mai spiegato il perché gli italiani preferissero questi leader politici e non altri. Chi erano gli altri? Gente che fino agli anni '80 era sostenuta da un Paese nemico, in piena guerra fredda, e che proponeva la via comunista come alternativa al modello di sviluppo occidentale. Bisognerebbe chiedere a chi ha vissuto davvero sotto il comunismo i benefici ricevuti. Dopo il crollo del Muro di Berlino, poi, la presunta alternativa politica non ha proposto più nulla. Tant'è vero che le funzioni spettanti alle opposizioni parlamentari sono state assunte da soggetti estranei al mondo politico, come i sindacati e qualche magistrato.

Ora Berlusconi, con grande saggezza, ha proposto un patto per lo sviluppo. Qual è stata la risposta da parte delle opposizioni? Se ne vada. E questa sarebbe l'alternativa? Persone che vogliono sovvertire il responso delle elezioni democratiche con giochi di palazzo o sperando nell'aiuto della magistratura? E quale sarebbe la loro proposta di sviluppo, ovviamente al netto del «più tasse per tutti», che è stata l'unica cosa che i signori della sinistra hanno messo in atto quando sono stati al governo? Qui non è in gioco solo il futuro di Berlusconi, ma quello di chi, per vari motivi, non si riconosce nella sinistra. L'attacco concentrico che sta subendo il presidente del Consiglio è qualcosa di molto pericoloso, perché mette in gioco l'essenza stessa della democrazia che - è sempre bene ricordarlo - significa governo del popolo. Chi oggi vorrebbe togliere di mezzo Berlusconi senza passare dalle elezioni sta cercando di fregare il popolo, non solo quello che l'ha votato, ma tutti gli italiani, per cercare di instaurare una sorta di aristocrazia moderna, un governo dei migliori - si fa per dire - dove le esigenze del popolo, di noi tutti, sarebbero l'ultima cosa a cui pensare.

Già ora qualche brillante mente di sinistra ha iniziato a mettere le mani avanti e a dire che non tutto finirà con Berlusconi e che il berlusconismo continuerà. Insomma, se la morsa tra giochi di palazzo da un lato e circuito mediatico-giudiziario dall'altro arrivasse a raggiungere i risultati sperati, si stanno già mettendo le basi per sferrare gli stessi attacchi rivolti a Berlusconi contro chiunque dovesse essere il futuro candidato premier del centrodestra negli anni a venire, e contro le persone che dovessero sostenerlo. Opporsi democraticamente all'attacco violento sferrato contro Berlusconi e la parte politica che lo sostiene è una battaglia di libertà che dovrebbe unire tutti quelli che non si ritrovano su posizioni di sinistra e che chiedono solo una cosa: che la volontà del popolo sia rispettata.

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«Disoccupazione giovanile, ecco il lavoro del governo»


Il Predellino intervista Antonio Maglietta, studioso delle tematiche relative al mondo del lavoro cresciuto alla "scuola" di don Gianni Baget Bozzo, sul quel 29% di disoccupazione giovanile che sta infiammando il dibattito politico italiano.

di Andrea Camaiora

Di che stiamo parlando? Il peggio sembra passato. I dati ci dicono che i livelli di disoccupazione giovanile e di disoccupazione generale sono in linea con ciò che avviene nel resto dell'Europa. Noi peraltro in questo campo abbiamo specificità storiche negative: da noi la disoccupazione giovanile è sempre stata più alta. Da novembre a dicembre 2010 è aumentata dello 0,1% mentre vista su base annuale – cioè vista nel pieno della crisi – è cresciuta del 2,4%. Nel frattempo però il governo ha agito concretamente attraverso il piano triennale approvato a luglio dell'anno scorso da Sacconi e altri progetti di largo respiro. Occorre però dare tempo a queste iniziative perché possano produrre effetti. Allo stato attuale il governo Berlusconi ha già messo in campo una vasta gamma di interventi per contrastare il fenomeno storico della disoccupazione giovanile, ultimo dei quali il piano interministeriale di Sacconi, Gelmini e Meloni da un miliardo e ottantadue milioni di euro.


Come giudica gli ultimi dati Istat sulla disoccupazione?
Ci sono luci e ombre. Ricordiamo, innanzitutto, che il periodo di riferimento è dicembre 2010. Le luci: il tasso di disoccupazione generale stabile rispetto alla rilevazione del mese precedente e la piccola diminuzione di quello riguardante le donne sia su base mensile che annuale. Le ombre: il consolidamento della disoccupazione giovanile e il lieve aumento del tasso di disoccupazione totale rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente.

Da cosa dipendono questi due dati negativi?
La disoccupazione giovanile, insieme al basso tasso di occupazione delle donne, è uno dei problemi storici del nostro mercato del lavoro. Il consolidamento del tasso di disoccupazione della fascia di età che va dai 15 ai 24 anni, così come il lieve aumento della disoccupazione in generale su base annuale (+0,2% da dicembre 2009 a dicembre 2010), ma non su base mensile (tasso invariato da novembre 2010 a dicembre 2010), è dovuto alla scia degli effetti negati della crisi economica mondiale.

Parlo di scia perché il dato negativo, con riferimento alla disoccupazione giovanile è molto più evidente su base annuale (+ 2,4% da dicembre 2009 a dicembre 2010) che su base mensile (+0,1% da novembre 2010 a dicembre 2010). Lo stesso discorso, con indicazioni molto più positive, può essere fatto sull'andamento del dato generale riguardante la disoccupazione. I dati indicano, quindi, una stabilizzazione degli effetti della crisi economico-finanziaria sull'occupazione.

Come vanno le cose negli altri Paesi?
Ecco questo è un dato ancora più interessante perché la situazione italiana va analizzata non solo rispetto al proprio andamento interno ma anche confrontata con quello che avviene negli altri paesi. Secondo gli ultimi dati dell'Eurostat la disoccupazione resta invariata a dicembre nell'eurozona e nell'Ue a 27, dove si registra rispettivamente un tasso del 10 e del 9,6%, esattamente lo stesso rilevato il mese precedente.

Su base annuale (da dicembre 2009 a dicembre 2010) è stato registrato, invece, un aumento dello 0,1%. Dati in linea con quello che è stato l'andamento del tasso italiano nello stesso periodo con la differenza che in Italia il tasso di disoccupazione è inferiore (8,6%). Quanto alla disoccupazione giovanile, tra i ragazzi sotto i 25 anni, a dicembre era del 20,4% nell'eurozona ed al 21% nell'Ue a 27, con il minimo in Olanda, all'8,2% ed il massimo in Spagna, al 42,8%. In Italia è al 29%.

Che cosa dovrebbe fare il governo in Italia per contrastare la disoccupazione giovanile?
Innanzitutto proseguire sulla scelta di investire sulle competenze, con il rilancio dell'apprendistato e della formazione professionale, e sull'implementazione e la pubblicità dei mezzi a disposizione per far incontrare domanda e offerta di lavoro. Sull'ultimo punto vorrei segnalare uno strumento che pochi conoscono e che si chiama 'Cliclavoro', il nuovo portale del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali realizzato per favorire e migliorare l'intermediazione tra domanda e offerta di lavoro e il raccordo tra i sistemi delle imprese, dell'istruzione, della formazione e delle politiche sociali.

Da segnalare anche il Piano triennale "Liberare il lavoro per liberare i lavori" , approvato nel Consiglio dei Ministri del 30 luglio dello scorso anno, la bozza del disegno di legge delega sullo Statuto dei lavori, inviata alle parti sociali l'11 novembre scorso, il piano del ministro Meloni e, da ultimo, quello interministeriale presentato qualche giorno fa.

Di cosa si tratta?
Si tratta di un piano presentato dai ministri Sacconi, Gelmini e Meloni, da un miliardo e 82 milioni di euro per favorire l'inserimento dei ragazzi nel mondo del lavoro attraverso il monitoraggio delle professionalità richieste dal mondo del lavoro, l'orientamento alle scelte educative, l'integrazione di scuola-università-lavoro, i servizi di accompagnamento al lavoro.

1 febbraio 2011

FONTE
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