venerdì 28 ottobre 2011

Gli impegni dell’Italia per il mercato del lavoro


di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
giovedì 27 ottobre 2011

Nella lettera inviata dal governo italiano all’Ue, c’è l’impegno ad approvare misure addizionali concernenti il mercato del lavoro: «1. In particolare, il Governo si impegna ad approvare entro il 2011 interventi rivolti a favorire l'occupazione giovanile e femminile attraverso la promozione: a. di contratti di apprendistato contrastando le forme improprie di lavoro dei giovani; b. di rapporti di lavoro a tempo parziale e di contratti di inserimento delle donne nel mercato del lavoro; c. del credito di imposta in favore delle imprese che assumono nelle aree più svantaggiate. 2. Entro maggio 2012 l’esecutivo approverà una riforma della legislazione del lavoro a. funzionale alla maggiore propensione ad assumere e alle esigenze di efficienza dell’impresa anche attraverso una nuova regolazione dei licenziamenti per motivi economici nei contratti di lavoro a tempo indeterminato; b. più stringenti condizioni nell'uso dei «contratti para-subordinati» dato che tali contratti sono spesso utilizzati per lavoratori formalmente qualificati come indipendenti ma sostanzialmente impiegati in una posizione di lavoro subordinato».

In pratica il governo italiano ha deciso di puntare sull’implementazione dell’occupazione giovanile e femminile, sulla modifica della normativa sui licenziamenti per motivi economici nei contratti di lavoro a tempo indeterminato e sull’introduzione di paletti più fermi nell’uso dei contratti para-subordinati. Si tratta di una scelta condivisibile per una serie di motivi. Innanzitutto c’è un impegno chiaro e preciso per varare una serie di provvedimenti a favore dei soggetti storicamente più deboli nel mercato del lavoro: giovani e donne. L’alto tasso di disoccupazione degli under 24 e il basso tasso di occupazione delle donne sono le note dolenti sulle quali occorre intervenire quanto prima.

I giovani, oltre ad un welfare più attento alle loro esigenze, hanno bisogno di avere maggiori canali di ingresso nel mercato del lavoro, di investimenti nella loro formazione professionale e di tutele contro l’uso improprio dei contratti flessibili.

Le donne, invece, di strumenti utili per coniugare al meglio l’attività professionale con il lavoro di cura. Ben vengano quindi, la promozione del contratto di apprendistato, di quello a tempo parziale e di inserimento e la stretta sull’uso dei contratti para-subordinati. Per quanto riguarda la questione della modifica della normativa sui licenziamenti per motivi economici, invece, andrebbe sgomberato il campo dalle polemiche inutili sul fatto che innovare la materia significherebbe ledere i diritti dei lavoratori.

Non c’e’ scritto da nessuna parte che ci saranno licenziamenti facili e sicuramente sarà istituito un tavolo tra governo e parti sociali per cercare di arrivare a una soluzione condivisa. Si tratta, peraltro, di un provvedimento in linea con le raccomandazioni che il Consiglio europeo ha rivolto all'Italia nel mese di luglio. In quel testo si citava proprio l’eccesso di rigore e di onerosità delle nostre procedure concernenti il licenziamento dei lavoratori con contratto a tempo indeterminato e si raccomandava «di rafforzare le misure intese a combattere la segmentazione del mercato del lavoro, anche rivedendo aspetti specifici della legislazione a tutela dell’occupazione, comprese le norme e le procedure che disciplinano i licenziamenti».

Guardiamo quale è la situazione attuale. Il licenziamento individuale per motivi economici rientra nel novero del licenziamento per giustificato motivo oggettivo previsto dall’art. 3 legge n. 604 del 1966 e cioè il licenziamento determinato «da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa». Per capire per grandi linee quali strade potrebbe percorrere ipoteticamente il Legislatore, senza contare le possibili e probabili mediazioni con le parti sociali, occorre dare uno sguardo a quali sono gli orientamenti delle decisioni giurisprudenziali in questa materia. Uno, che potremmo definire di stampo liberale, parte dal presupposto che una volta dimostrata l’effettività della criticità della situazione economica (anche con riguardo all’incremento del profitto), la valutazione del giudice sul nesso con il licenziamento è limitata alla verifica della non pretestuosità o arbitrarietà (vedi sentenza Cass. 21121/04). Un altro, invece, molto più restrittivo, secondo cui questo tipo di licenziamento può avvenire solo per far fronte a una situazione che imponga un’effettiva necessità di ridurre i costi (non rientra l’incremento del profitto) e alla presenza della prova dell’impossibilità di reimpiego e di uno stretto collegamento con le ragioni della ristrutturazione (vedi sentenza Cass. 21282/06).

Tuttavia è pacifico, qualunque sia l’orientamento seguito dai giudici, che l’onere della prova incomba sul datore di lavoro mentre il lavoratore ha quello di allegare delle possibili occupazioni alternative. Secondo il professor Ichino, oggi senatore del Partito Democratico, i giudici nella maggior parte dei casi concreti mettono su di un piatto della bilancia il costo sociale del licenziamento e sull’altro la perdita che l’azienda dovrebbe patire se il rapporto continuasse, e giustificano il licenziamento solo quando quest’ultimo prevalga nettamente sul primo (Il costo sociale del licenziamento e la perdita aziendale attesa per la prosecuzione del rapporto come oggetto del bilanciamento sociale, in Riv. It. Dir. Lav., 2007).

mercoledì 26 ottobre 2011

L'importanza della riforma delle pensioni


di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
martedì 25 ottobre 2011

Quando si parla di riforma delle pensioni, si tocca sempre un tema delicato e, spesso e volentieri, la confusione la fa da padrone. Occorre, dunque, fare un po’ di chiarezza sul perché sarebbero necessari questi provvedimenti, quale è stata l’evoluzione della materia negli ultimi vent’anni, quali sarebbero le ipotesi di riforma e chi i destinatari.

Innanzitutto la riforma delle pensioni è necessaria nell’ambito della generale operazione di risanamento dei conti pubblici, resa sempre più urgente e indispensabile dal perdurare della crisi economica, ma anche per uscire quanto prima dal sistema dei pensionamenti anticipati che crea uno squilibrio finanziario pagato in toto solo dai giovani. Per capire meglio la situazione è importante dare una breve occhiata a quali sono state le riforme degli ultimi vent’anni e quali gli obiettivi perseguiti. Innanzitutto va detto che l’Italia ha una peculiarità che la contraddistingue in negativo dagli altri paesi europei: la pensione di anzianità (prestazione di natura economica e previdenziale erogata, a certe condizioni, a chi ha maturato il limite minimo di età anagrafica e/o di anzianità contributiva, prima del raggiungimento dell'età pensionabile).

Se in Europa la pensione di vecchiaia (si consegue quando si raggiungono i requisiti di età pensionabile) è il perno dei sistemi previdenziali, in Italia questo primato assoluto è stato eroso dal problema delle rendite di anzianità. Introdotta con la legge n. 903 del 1965, la pensione di anzianità è una delle cause principali della rilevante spesa del nostro sistema previdenziale. Veniamo alle riforme degli ultimi vent’anni. La cosiddetta riforma Amato, D.Lgs n. 503 del 1992, è stato il primo atto di una certa importanza in materia di pensioni. L’intento era di stabilizzare il rapporto tra spesa previdenziale e prodotto interno lordo (PIL). In seguito, il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo con la legge n. 335 del 1995 (la cosiddetta riforma Dini), ha portato un maggiore equilibrio nei conti pubblici poiché se prima la pensione era rapportata alla media delle retribuzioni (o redditi per i lavoratori autonomi) degli ultimi anni lavorativi, da quel momento in poi (per tutti i lavoratori privi di anzianità contributiva al 1° gennaio 1996) il calcolo si è basato su tutti i contributi versati durante l'intera vita assicurativa. Nel tempo ci sono stati altri aggiustamenti, alcuni positivi perché l’intento era sempre di proseguire nell’obiettivo di rimettere in equilibrio i conti pubblici (legge n. 449 del 1997, riforma Prodi; legge n. 243 del 2004, riforma Maroni; la manovra anti-crisi dell’ultimo Ferragosto), altri molto meno perché vanificavano parte del lavoro di riassestamento economico svolto negli anni precedenti (legge n. 247 del 2007, protocollo sul welfare, durante l’ultimo governo Prodi).

In che direzione andremo? Le ipotesi in campo sono diverse. E’ possibile affermare, tuttavia, che la soluzione migliore sarebbe l’innalzamento dell’età pensionabile ad almeno 67 anni e l’introduzione della cosiddetta ‘quota 100’ (calcolata addizionando gli anni di contributi versati con l’età), con la quale i 35 anni di contributi dovranno essere accompagnati da almeno 65 anni di età mentre i 40 ad almeno 60 anni. Secondo uno studio dell’Ocse (Pensions at a Glance 2011), nel 2010, l'Italia era il secondo Paese dell’OCSE più anziano dal punto di vista demografico dopo il Giappone con solo 2,6 persone in età lavorativa (20-64) relative a quelle di età pensionabile.

Il contesto demografico è il motore principale del livello elevato di spesa pensionistica di vecchiaia e superstiti: il 14,1% del PIL rispetto a 7,0% in media nell’OCSE. Tra i paesi Ocse, l'Italia ha speso la quota più elevata del reddito nazionale in pensioni – circa un settimo del PIL nel 2007. Altri paesi con alta spesa pensionistica pubblica sono: Austria, Francia e Grecia a circa il 12% del PIL e in Germania, Polonia e Portogallo al 11% circa. Come in altri paesi demograficamente anziani, in Italia la spesa pensionistica rappresenta una proporzione importante della spesa pubblica totale: 29,4% nel 2007. Con un’aspettativa di vita che aumenta sempre più (oggi circa 80 anni) e una età media di pensionamento di circa 58 anni (più bassa della media europea), non è più sostenibile economicamente pagare pensioni per 25-30 anni. Per questo motivo è necessario portare l’asticella dell’età pensionabile a 67 anni e fissare ‘quota 100’.

L’intervento sulle pensioni non è dettato da un cinico capriccio del Legislatore ma è una necessità che non nasce certamente ora, e ne sono prova gli interventi normativi di riequilibrio degli ultimi vent’anni. Mai come in questo momento, però, con una crisi che sta mettendo in ginocchio l’economia del mondo, l’ipotesi di riformare la materia diventa una questione centrale se non vogliamo far saltare uno dei pilastri fondamentali per il risanamento dei conti pubblici e continuare a tenere in piedi questo iniquo sistema previdenziale, dove i conti li pagano solo i giovani.

Chi è già in pensione non ha nulla da temere perché i diritti acquisiti non si toccano. Chi saranno i maggiori destinatari (e beneficiari) di questi interventi? Le nuove generazioni, quelle che oggi pagano lo squilibrio economico del vecchio sistema e che hanno un bisogno vitale che queste disposizioni siano adottate quanto prima. L’innalzamento dell’età pensionabile e la fissazione della ‘quota 100’ è l’unica strada maestra da percorrere, e magari da puntellare con altri interventi, per rispondere concretamente ai problemi derivanti dalla concomitanza di fattori come l’entrare tardi nel mondo del lavoro, l’avere un sistema pensionistico contributivo e una situazione non sempre lineare nei versamenti previdenziali dovuta alle carriere discontinue.

venerdì 7 ottobre 2011

La tragedia di Barletta offre qualche spunto di riflessione



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
venerdì 07 ottobre 2011

La tragedia di Barletta ha colpito il cuore di tante persone per vari motivi: l'assurdità di quelle morti, le polemiche sulla prevedibilità o meno del crollo della palazzina, il fatto che le vittime fossero donne che lavorassero in nero e sottopagate. Sul caso specifico di quanto è avvenuto nella cittadina pugliese la giustizia farà il suo corso. La Procura di Trani ha aperto un fascicolo per disastro colposo e omicidio colposo plurimo.

Restano due fatti: la morte di quelle povere persone per il crollo della palazzina e la loro condizione lavorativa. In quest'ambito, ci occuperemo della seconda questione per fare alcune considerazioni di carattere generale.

La prima sulla sicurezza dei luoghi di lavoro. Le donne morte sotto le macerie lavoravano in nero. La magistratura farà luce, oltre che sui motivi che hanno causato il crollo della palazzina, sulle condizioni del luogo in cui queste persone operavano. La materia è molto complessa. Come insegna un'altra tragedia, quella degli operai morti nelle acciaierie ThyssenKrupp di Torino, la sicurezza del luogo del lavoro è inquadrata in un complesso quadro di disposizioni (c'è una direttiva-quadro europea modificata nel tempo e la normativa italiana), non dipende dal fatto che l'attività d'impresa sia ubicata al nord o al sud del paese, che l'azienda sia grande o piccola e che sia italiana o straniera.

La seconda riflessione riguarda la recente modifica della normativa in materia di sicurezza e sull'attività di vigilanza e controllo sui luoghi di lavoro. Spesso si fa lo sbaglio di confondere e intrecciare questa delicata questione con la burocrazia fine a se stessa. Due anni fa il Governo è intervenuto sul tema con il decreto legislativo 5 agosto 2009, n. 106, che ha integrato e corretto il testo unico (decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81). Questa norma ha introdotto un sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi in settori a particolare rischio infortunistico e ha puntato sul superamento di un approccio meramente formalistico e burocratico al tema della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, prestando maggiore attenzione ai profili sostanziali e agli obiettivi da raggiungere. In sostanza quello che conta è la tutela reale del lavoratore e non la burocratizzazione del sistema, che nulla aggiunge in termini di sicurezza e molto toglie alle dinamiche economiche delle attività produttive. Nello stesso momento, inoltre, il Ministero del Lavoro ha disposto nel tempo una serie d'iniziative per stanare il lavoro nero come, tra le altre cose, l'aumento delle attività ispettive con tanto di valutazione delle attività svolte fino ad ora e pianificazione per il futuro, il piano straordinario di vigilanza per le regioni del Sud nei settori a maggiore rischio di morti e infortuni come l'agricoltura e l'edilizia, le convenzioni per la cooperazione tra le Direzioni provinciali del Lavoro, la Guardia di Finanza e l'Arma dei Carabinieri.
Il caso di Barletta, come anche diverse altre tragedie che l'hanno preceduta, sono la dimostrazione evidente che ci sono situazioni che purtroppo sfuggono alle norme e ai controlli e che appesantire inutilmente la normativa della sicurezza sul lavoro non salva alcuna vita. Servono, invece, sempre più controlli (razionali) da parte delle istituzioni, più occhi vigili da parte di tutti gli operatori coinvolti nel sistema economico-sociale, norme chiare e severe per la tutela della salute dei lavoratori, pene certe.

La terza considerazione riguarda la condizione delle donne nel mercato del lavoro. Le differenze di genere sono un dato storico che trascende i confini nazionali. Gli studi sul tema si sprecano. Basterebbe citarne uno a caso per quantificare il problema in numeri e in tutta la sua gravità. Per esempio l'International Migration Outlook 2008 segnalò che, in tutto il mondo, la differenza salariale tra lavoratori immigrati e autoctoni (in media tra il 15% ed il 20% in meno a sfavore degli immigrati) è più piccola di quella tra uomo e donna. Il problema ha radici profonde. John Stuart Mill sosteneva che la differenza fra uomo e donna era visibile solo perché le donne non avevano le stesse possibilità degli uomini, ma, una volta eliminate le disparità, e una volta aperte le porte dell'istruzione e della carriera alle donne, esse sarebbero diventate in tutto simili agli uomini (The subjection of women, 1869). Dopo quasi un secolo e mezzo siamo qui a parlare di donne che lavoravano in nero e che guadagnavano 4 euro all'ora. Ovviamente ci sono anche tanti uomini che svolgono attività in nero e con paghe da fame. Il problema per le donne, tuttavia, è che spesso sono pagate meno anche quando sono in regola.

La quarta considerazione riguarda la concorrenza nel mercato globale. Il problema del lavoro irregolare e dei bassi salari va inquadrato anche, e soprattutto, in alcune dinamiche negative prodotte dalle attuali regole del mercato mondiale. Il caso di Barletta è quasi un classico esempio di come in certi tipi di produzione le attività italiane, ma si potrebbe dire occidentali, non sono più competitive perché ci sono realtà nel mondo dove le condizioni socio-economiche, che spesso trascendono in un vero e proprio sfruttamento, permettono di produrre con costi minori rispetto ai nostri. Se si vuole competere a quel livello e in quel tipo di produzione, quindi, non resta che ricreare in parte o in tutto quelle condizioni che permettono alla merce di essere concorrenziale in quel segmento di mercato. Si tratta di un ragionamento che, preso così, è totalmente inaccettabile per tanti motivi (c'è l'alternativa della riconversione della produzione, l'innalzamento della qualità, lo spostamento in un altro segmento di mercato, ecc.). Resta che questa spirale negativa è chiara e porta a produrre due tipi di pensiero: da un lato chi afferma che questo tipo di attività, pur se irregolare e sottopagata, permette di vivere o almeno sopravvivere e chi non accetta che comunque in Italia si crei quel tipo di condizione lavorativa. Il tema è incandescente e l'unica cosa certa è che non possiamo risolverlo da soli e, quasi certamente, neanche in compagnia dei soli partners comunitari.

martedì 4 ottobre 2011

Marchionne lascia Confindustria



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
martedì 04 ottobre 2011

L’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, con una lettera inviata al Presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, come già preannunciato nella lettera del 30 giugno scorso, ha comunicato la decisione di Fiat e Fiat Industrial di uscire dall’organizzazione dal 1° gennaio 2012. Facciamo due considerazioni: una più ampia sul fatto in sé e l’altra più breve di tipo generale sul corporativismo italiano.

Il gruppo dirigente della Fiat ha deciso che la permanenza in Confindustria avrebbe bloccato il processo di sviluppo del gruppo torinese. Il motivo è altrettanto chiaro ed esplicito: la mancanza di garanzie su quelle certezze indispensabili per lo sviluppo economico non solo del Paese nel suo complesso ma anche delle singole attività imprenditoriali che agiscono entro i suoi confini. Per capire ancora meglio di quali certezze si stia parlando, è giusto fare riferimento a tre passi in avanti fatti negli ultimi tempi nell’ambito delle relazioni industriali nel nostro Paese.

Il primo: gli accordi sugli stabilimenti Fiat di Pomigliano d’Arco, Termini Imerese e Grugliasco hanno rappresentato un buon modello di «flessibilità contrattata» in grado di coniugare al meglio le richieste dalla parte datoriale, necessarie per restare competitivi sul mercato globale, con l’indispensabile tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori.
Il secondo: l’accordo interconfederale del 28 giugno scorso ha introdotto innovazioni positive sul tema delle regole per la rappresentanza sindacale, sulle garanzie di efficacia per gli accordi firmati dalla maggioranza dei rappresentanti dei lavoratori e sulla definizione degli ambiti di interesse dei contratti nazionali e di quelli aziendali. Tuttavia, nonostante l’apprezzamento per i contenuti di quest’accordo, Marchionne aveva già avvisato con una lettera la Marcegaglia che, in assenza di altri passi che avessero consentito di acquisire quelle garanzie di esigibilità necessarie per la gestione degli accordi raggiunti per Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco, Fiat e Fiat Industrial sarebbero state costrette a uscire dal sistema confederale con decorrenza dal 1° gennaio 2012. Il terzo: l’art. 8 della manovra, oltre ad introdurre degli innovativi strumenti di flessibilità, ha previsto l’estensione della validità dell’accordo interconfederale ad intese raggiunte prima del 28 giugno. Una questione, quella della retroattività, che tocca direttamente gli accordi siglati dalla Fiat. Marchionne ha contestato che, dopo tre passi in avanti, è arrivato un salto indietro dopo la firma dell’accordo interconfederale del 21 settembre dato che, come scrive lo stesso amministratore delegato della Fiat, «è iniziato un acceso dibattito che, con prese di posizione contraddittorie e addirittura con dichiarazioni di volontà di evitare l’applicazione degli accordi nella prassi quotidiana, ha fortemente ridimensionato le aspettative sull’efficacia dell’Articolo 8. Si rischia quindi di snaturare l’impianto previsto dalla nuova legge e di limitare fortemente la flessibilità gestionale». E continua: «da parte nostra, utilizzeremo la libertà di azione applicando in modo rigoroso le nuove disposizioni legislative. I rapporti con i nostri dipendenti e con le Organizzazioni sindacali saranno gestiti senza toccare alcun diritto dei lavoratori, nel pieno rispetto dei reciproci ruoli, come previsto dalle intese già raggiunte per Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco».

Marchionne è uscito da Confindustria per avere le mani libere nel senso che il sistema corporativo che difende gli interesse dei datori di lavoro, a suo avviso, non è più in grado di fare quelli di un grande gruppo come la Fiat che opera sul mercato globale. Non è, insomma, un rifiuto delle regole, poiché lo stesso amministratore delegato del gruppo torinese ha affermato che si atterrà alle disposizioni di legge e alle intese già raggiunte in passato sulle situazioni di singoli stabilimenti, ma un vero e proprio rifiuto delle logiche e delle dinamiche del sistema corporativo di cui faceva parte. E qui, a questo punto, è possibile fare una seconda e breve considerazione di carattere generale. In un’epoca in cui le regole del libero mercato sono in corso di riscrittura, perché oramai obsolete non solo dinanzi alla crisi economica mondiale, ma anche di fronte alle moderne esigenze siano esse singole o collettive, è ancora utile per il bene comune tenere in piedi i sistemi corporativi (Confindustria, ordini professionali, ecc.) così come li conosciamo ora? Cui prodest?
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