mercoledì 26 ottobre 2011

L'importanza della riforma delle pensioni


di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
martedì 25 ottobre 2011

Quando si parla di riforma delle pensioni, si tocca sempre un tema delicato e, spesso e volentieri, la confusione la fa da padrone. Occorre, dunque, fare un po’ di chiarezza sul perché sarebbero necessari questi provvedimenti, quale è stata l’evoluzione della materia negli ultimi vent’anni, quali sarebbero le ipotesi di riforma e chi i destinatari.

Innanzitutto la riforma delle pensioni è necessaria nell’ambito della generale operazione di risanamento dei conti pubblici, resa sempre più urgente e indispensabile dal perdurare della crisi economica, ma anche per uscire quanto prima dal sistema dei pensionamenti anticipati che crea uno squilibrio finanziario pagato in toto solo dai giovani. Per capire meglio la situazione è importante dare una breve occhiata a quali sono state le riforme degli ultimi vent’anni e quali gli obiettivi perseguiti. Innanzitutto va detto che l’Italia ha una peculiarità che la contraddistingue in negativo dagli altri paesi europei: la pensione di anzianità (prestazione di natura economica e previdenziale erogata, a certe condizioni, a chi ha maturato il limite minimo di età anagrafica e/o di anzianità contributiva, prima del raggiungimento dell'età pensionabile).

Se in Europa la pensione di vecchiaia (si consegue quando si raggiungono i requisiti di età pensionabile) è il perno dei sistemi previdenziali, in Italia questo primato assoluto è stato eroso dal problema delle rendite di anzianità. Introdotta con la legge n. 903 del 1965, la pensione di anzianità è una delle cause principali della rilevante spesa del nostro sistema previdenziale. Veniamo alle riforme degli ultimi vent’anni. La cosiddetta riforma Amato, D.Lgs n. 503 del 1992, è stato il primo atto di una certa importanza in materia di pensioni. L’intento era di stabilizzare il rapporto tra spesa previdenziale e prodotto interno lordo (PIL). In seguito, il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo con la legge n. 335 del 1995 (la cosiddetta riforma Dini), ha portato un maggiore equilibrio nei conti pubblici poiché se prima la pensione era rapportata alla media delle retribuzioni (o redditi per i lavoratori autonomi) degli ultimi anni lavorativi, da quel momento in poi (per tutti i lavoratori privi di anzianità contributiva al 1° gennaio 1996) il calcolo si è basato su tutti i contributi versati durante l'intera vita assicurativa. Nel tempo ci sono stati altri aggiustamenti, alcuni positivi perché l’intento era sempre di proseguire nell’obiettivo di rimettere in equilibrio i conti pubblici (legge n. 449 del 1997, riforma Prodi; legge n. 243 del 2004, riforma Maroni; la manovra anti-crisi dell’ultimo Ferragosto), altri molto meno perché vanificavano parte del lavoro di riassestamento economico svolto negli anni precedenti (legge n. 247 del 2007, protocollo sul welfare, durante l’ultimo governo Prodi).

In che direzione andremo? Le ipotesi in campo sono diverse. E’ possibile affermare, tuttavia, che la soluzione migliore sarebbe l’innalzamento dell’età pensionabile ad almeno 67 anni e l’introduzione della cosiddetta ‘quota 100’ (calcolata addizionando gli anni di contributi versati con l’età), con la quale i 35 anni di contributi dovranno essere accompagnati da almeno 65 anni di età mentre i 40 ad almeno 60 anni. Secondo uno studio dell’Ocse (Pensions at a Glance 2011), nel 2010, l'Italia era il secondo Paese dell’OCSE più anziano dal punto di vista demografico dopo il Giappone con solo 2,6 persone in età lavorativa (20-64) relative a quelle di età pensionabile.

Il contesto demografico è il motore principale del livello elevato di spesa pensionistica di vecchiaia e superstiti: il 14,1% del PIL rispetto a 7,0% in media nell’OCSE. Tra i paesi Ocse, l'Italia ha speso la quota più elevata del reddito nazionale in pensioni – circa un settimo del PIL nel 2007. Altri paesi con alta spesa pensionistica pubblica sono: Austria, Francia e Grecia a circa il 12% del PIL e in Germania, Polonia e Portogallo al 11% circa. Come in altri paesi demograficamente anziani, in Italia la spesa pensionistica rappresenta una proporzione importante della spesa pubblica totale: 29,4% nel 2007. Con un’aspettativa di vita che aumenta sempre più (oggi circa 80 anni) e una età media di pensionamento di circa 58 anni (più bassa della media europea), non è più sostenibile economicamente pagare pensioni per 25-30 anni. Per questo motivo è necessario portare l’asticella dell’età pensionabile a 67 anni e fissare ‘quota 100’.

L’intervento sulle pensioni non è dettato da un cinico capriccio del Legislatore ma è una necessità che non nasce certamente ora, e ne sono prova gli interventi normativi di riequilibrio degli ultimi vent’anni. Mai come in questo momento, però, con una crisi che sta mettendo in ginocchio l’economia del mondo, l’ipotesi di riformare la materia diventa una questione centrale se non vogliamo far saltare uno dei pilastri fondamentali per il risanamento dei conti pubblici e continuare a tenere in piedi questo iniquo sistema previdenziale, dove i conti li pagano solo i giovani.

Chi è già in pensione non ha nulla da temere perché i diritti acquisiti non si toccano. Chi saranno i maggiori destinatari (e beneficiari) di questi interventi? Le nuove generazioni, quelle che oggi pagano lo squilibrio economico del vecchio sistema e che hanno un bisogno vitale che queste disposizioni siano adottate quanto prima. L’innalzamento dell’età pensionabile e la fissazione della ‘quota 100’ è l’unica strada maestra da percorrere, e magari da puntellare con altri interventi, per rispondere concretamente ai problemi derivanti dalla concomitanza di fattori come l’entrare tardi nel mondo del lavoro, l’avere un sistema pensionistico contributivo e una situazione non sempre lineare nei versamenti previdenziali dovuta alle carriere discontinue.

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