giovedì 26 novembre 2009

Biotestamento: cinque domande all'onorevole Di Virgilio



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

mercoledì 25 novembre 2009

Domenico Di Virgilio è un medico prestato alla politica. Prima di essere eletto alla Camera dei Deputati ha svolto per 38 anni la professione negli ospedali romani ed è stato per 21 anni primario medico presso l'ospedale Giuseppina Vannini di Roma. E' autore di oltre 100 pubblicazioni a contenuto bioetico, epatologico, gastroenterologico, diabetologico, cardiologico e di medicina preventiva. Oggi siede tra i banchi di Montecitorio nelle file del Popolo della Libertà, di cui è uno dei vice presidenti del gruppo alla Camera, ed è il relatore del ddl Calabrò sul testamento biologico.

Onorevole Di Virgilio, sono stati circa 2.600 gli emendamenti presentati in Commissione Affari Sociali alla Camera sul ddl Calabrò. Come giudica l'atteggiamento tenuto dell'opposizione su un argomento così delicato?

Desidero interpretare un così elevato numero di emendamenti come un segno di grande sensibilità e di interesse da parte dei parlamentari, anche se i 2.400 presentati dai colleghi radicali fanno pensare ad un larvato ostruzionismo, ma spero di sbagliarmi. Certamente le dichiarazioni dell'ex ministro Livia Turco, che reclama «una legge più umana», che imponga l'astensione dall'accanimento terapeutico, un maggior aiuto alle famiglie, mi sembrano superflue in quanto già contenute nel testo proveniente dal Senato e comunque da me annunciate sia nella relazione introduttiva a luglio che nella replica di alcuni giorni fa in Commissione Affari Sociali, ma soprattutto contenuti negli emendamenti da me presentati.

Tra i punti di attrito emersi nel corso della discussione in Commissione sul disegno di legge in questione ci sono il valore non vincolante delle DAT (Dichiarazioni anticipate di trattamento) e la gestione del rapporto medico-paziente. A quale soluzione si potrebbe arrivare su questi punti nel passaggio a Montecitorio?

I sei emendamenti che ho presentato vanno a migliorare il testo pervenuto dal Senato su tre aspetti fondamentali della legge, e cioè l' alleanza terapeutica, il consenso informato e le dichiarazioni anticipate di trattamento. Tra questi emendamenti ve n'è uno che intende estendere la normativa a tutti i casi in cui il medico curante riscontri un'incapacità di comprendere le informazioni e non solo nello stato vegetativo. Le DAT non possono essere vincolanti per il medico in quanto, se così fosse, al paziente non potrebbero essere applicati quei vantaggiosi progressi della medicina che si potrebbero realizzare nell'intervallo temporale tra il momento della DAT e l'eventuale momento in cui si realizzi, nel futuro, una determinata situazione patologica imprevista. Un altro emendamento vuole proporre una soluzione in caso di controversia tra fiduciario e medico curante, e quindi nel caso che l'alleanza terapeutica cessi di sussistere; la soluzione prevede il ricorso ad un collegio di medici il cui parere è vincolate per il medico curante, il quale però non è tenuto a condividerle. Con l'alleanza terapeutica si vuole recuperare idealmente il rapporto medico-paziente anche in una situazione estrema, in cui il soggetto non è più in grado di esprimersi. In tal modo quel rapporto di fiducia che da sempre lega direttamente o indirettamente il paziente al medico, continua anche davanti all'impossibilità del malato di interagire, concretizzandosi nel dovere del medico di prestare tutte le cure di fine vita, agendo sempre nell'interesse esclusivo del bene del paziente. Inoltre desidero evidenziare che esiste un rischio grave, che spesso è sottovalutato o non percepito adeguatamente, quello dell'abbandono terapeutico, un rischio grande, che nasce dalla crescente conflittualità, dalla paura dei medici, dalla sfiducia dei pazienti e dei familiari che a volte portano il medico a mettersi sulla difensiva.

Altro tema spinoso è quello della nutrizione e dell'idratazione del paziente. Quali sono le posizioni emerse sul tema e quale, secondo lei, il possibile punto di equilibrio?

Resta fermo che privare un paziente che è ancora in grado di farne uso per il suo metabolismo di cibo ed acqua non significa sospendere una terapia (un'azione che, a certe condizioni e in determinate circostanze, può essere lecita o addirittura doverosa), ma non prendersi più cura di un malato (un'azione, l'abbandono di una persona non fisiologicamente autosufficiente, che è sempre un male). Idratazione e nutrizione, anche artificiali, sono sempre da considerare sostegni vitali anche se richiedessero tecniche sofisticate per essere adeguatamente attuate. In un mio emendamento, comunque, è prevista la possibilità della sospensione di alimentazione e idratazione, che comunque non costituendo terapie non possono far parte della DAT, soltanto nel caso in cui queste non risultino efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari.

Quali tempi prospetta per l'arrivo in aula del provvedimento?

C'è un impegno dei capigruppo perché la discussione in aula inizi nel mese di dicembre.

Una volta arrivato in aula, quali potrebbero essere a suo avviso i margini di modifica del testo uscito dalla Commissione?

Questo è imprevedibile, in quanto esiste per tutti libertà di coscienza. Spero però che, una volta raggiunta una convergenza sui miei emendamenti, questa convergenza possa realizzarsi anche in aula.

venerdì 20 novembre 2009

Diminuiscono le morti e gli infortuni sul lavoro nei primi 6 mesi del 2009



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

giovedì 19 novembre 2009

Forte calo di infortuni e morti sul lavoro nei primi sei mesi del 2009: rispettivamente -10,6% e -12,2%. I dati sono stati resi noti dall'Inail, che sottolinea come una quota tra i 5 e i 6 punti percentuali del calo sia da attribuire ad una componente «accidentale», rappresentata dalla contingente congiunta economica.

Nel dettaglio: nel primo semestre 2009 gli infortuni sul lavoro sono stati 397.980, contro 444.958 del primo semestre 2008, mentre i casi mortali sono stati 490 a fronte dei 558 dello stesso periodo dell'anno precedente. La riduzione degli infortuni e dei casi mortali ha riguardato soprattutto i lavoratori nell'effettivo esercizio della loro attività (cioè in occasione del lavoro): rispettivamente -11,1% e -13,1%. Più contenuta, invece, la flessione degli infortuni in itinere, ovvero quelli che si sono verificati sul percorso casa-lavoro e viceversa (-5,8%), e dei relativi casi mortali (-9,2%). Molto rilevante, infine, il calo dei morti sulla strada in occasione di lavoro (-20,5%). Il dato - sottolinea l'Inail - accentua sensibilmente il miglioramento in atto ormai da molti anni.

Ma va detto che il primo semestre di quest'anno è stato un periodo particolarmente negativo per l'economia italiana, sia sul versante dell'occupazione, diminuita dello 0,9% nel primo trimestre e dell'1,6% nel secondo, che su quello della produzione industriale, calata di oltre il 20%. Se a questo si aggiunge il massiccio ricorso alla cassa integrazione, «appare chiaro come al sostenuto calo della quantità di lavoro effettuata corrisponda, ovviamente, una considerevole flessione dell'esposizione ai rischi di infortunio».

Quanto ai singoli settori di attività, il decremento ha interessato soprattutto l'industria (-21,5% di infortuni e -18,7% di casi mortali) e in particolare il comparto metalmeccanico, che ha fatto registrare una riduzione del 27,3% per gli infortuni e del 20% per i casi mortali. Anche le costruzioni segnano un consistente calo degli infortuni (-15,8%) e uno molto più modesto dei casi mortali (-3,9%). Molto più limitata, invece, la flessione registrata nell'agricoltura e nei servizi, che segnano entrambi un calo degli incidenti del 2,2%, accreditando ulteriormente l'ipotesi che vede nell'andamento negativo della produzione industriale una delle principali cause della diminuzione degli infortuni nei primi 6 mesi di quest'anno. Il miglioramento dei livelli infortunistici ha favorito soprattutto gli uomini (-13,95%) e in misura più contenuta le donne (-2,1%), mentre la riduzione dei casi mortali è stata molto sostenuta per entrambi i sessi (-18,2% per le femmine e -11,7% per i maschi). Infine, i maggiori cali in termini infortunistici hanno riguardato il nord: in particolare il nord-est ha registrato una riduzione del 14,3% degli infortuni e del 20,9% dei casi mortali. Al centro - unico caso in controtendenza - in tutto il panorama infortunistico si registra un incremento di una decina di infortuni mortali: 107 casi contro 98 dello stesso periodo del 2008.

Il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, considera «confortanti» i dati diffusi dall'Inail, ma ha chiesto comunque di «non abbassare la guardia», perché l'obiettivo sugli incidenti, soprattutto mortali, è comunque «tendere a zero». Insomma, sarà pure vero che la diminuzione degli infortuni e delle morti sul lavoro è in parte frutto anche della congiuntura economica, ma è altrettanto vero che questo dato dimostra come sempre più aziende investano in sicurezza, come la normativa sia nella maggior parte dei casi applicata e come il dialogo tra le parti sociali, dove c'è, sia in grado di dare i suoi frutti.

Tuttavia questi dati positivi, come ha fatto bene a ricordare Sacconi, non devono far calare la tensione sull'argomento, ma spingere a fare sempre di più e meglio, anche perché il lavoro può essere tutto tranne che un appuntamento con la morte. Un paese che si definisce civile si misura anche su questo tema. Questo significa che tutti gli attori in campo dovranno puntare con decisione su tre cose fondamentali: un dialogo sempre più stretto e proficuo tra le parti sociali (dando vita a comitati paritetici, agli enti bilaterali, a forme di condivisione per garantire ambienti di lavoro più sicuri), volto a produrre un controllo aggiuntivo sui luoghi di lavoro in affiancamento a quello svolto dalle istituzioni; un percorso formativo costante del lavoratore; un'informazione chiara e capillare.

mercoledì 11 novembre 2009

La tolleranza parte dall’accettazione della diversità



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

martedì 10 novembre 2009

«Al problema dell'immigrazione, che rappresenta uno dei «grandi cambiamenti sociali in atto», «occorre dare risposte avendo chiaro che non ci può essere uno sviluppo effettivo se non si favorisce l'incontro tra i popoli, il dialogo tra le culture e il rispetto delle legittime differenze». Lo ha affermato Papa Benedetto XVI nel suo discorso al VI Congresso Mondiale della Pastorale dei Migranti e dei Rifugiati. «In questa ottica - si è chiesto il Pontefice - perché non considerare l'attuale fenomeno mondiale migratorio come condizione favorevole per la comprensione tra i popoli e per la costruzione della pace e di uno sviluppo che interessi ogni Nazione?».

Secondo il presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale dei migranti e gli itineranti, mons. Antonio Maria Veiò, che ha aperto lunedì mattina in Vaticano il Congresso: «Occorre superare le paure che nascono dalle migrazioni viste come un'incognita, talvolta ridotta esclusivamente ad una questione di ordine pubblico da affrontare con la repressione. Guardando al futuro - ha aggiunto -, si potrà probabilmente pensare a strumenti addizionali per provvedere alle lacune che emergono in un fenomeno umano in continua evoluzione e crescita o a una nuova convenzione internazionale che sintetizzi la normativa sui diritto e doveri dei migranti. Oggi - ha sottolineato - tuttavia, appare sempre più importante puntare sulla integrazione, che non equivale a un processo di assimilazione».

Sul tema dell'integrazione e della tolleranza è intervenuto anche lo scrittore franco-marocchino Tahar Ben Jelloun, a margine della cerimonia di apertura della XV edizione del Medfilm Festival a Roma, che ha affermato di aver sentito il bisogno di tornare sull'argomento dopo gli episodi di intolleranza verificatisi negli ultimi tre anni in Italia. Per uscire dalla spirale dell'odio nei confronti dell'altro, secondo lo scrittore, «bisogna puntare sui bambini, perché è inutile spiegare a un adulto di quarant'anni, cresciuto nel pregiudizio, cosa sia la tolleranza». E ancora: «Nelle scuole pubbliche il crocifisso non deve esserci. Negli istituti privati e cattolici la cosa è diversa. La religione deve rimanere un fatto privato, a qualsiasi latitudine e in qualsiasi mondo, sia in quello cristiano che in quello musulmano e ebraico». «L'Italia, però, non è un Paese laico, è una nazione estremamente attaccata alla religione cristiana e ai suoi simboli, almeno sul piano formale», ha affermato polemicamente l'intellettuale francofono più tradotto al mondo. Impossibile quindi immaginare che in Italia venga varata una legge come quella introdotta in Francia nel 2004 dal governo Raffarin, che vieta i simboli religiosi nelle scuole? «Per ottenerla - ricorda Ben Jelloun - ci sono voluti cento anni. E in Italia, di laicità dello Stato, si è iniziato a parlare da poco».

Insomma Ben Jelloun predica la tolleranza a modo suo giacché proprio lui non tollera la cultura del nostro paese, giudicata con piglio severo come cosa ben diversa da quella francese. Parla di fantomatici episodi d'intolleranza nel nostro paese ma dimentica colpevolmente i gravissimi episodi di violenza che hanno scosso le banlieues di alcune città francesi e i motivi dello scoppio di quelle terribili ondate. Ah, les français! A suo avviso la tolleranza non consiste nella semplice accettazione delle diversità. Serve di più: l'intervento dello Stato, nelle vesti di padre-pardone, per cancellare le diversità in favore del totem statalista. Quindi niente simboli religiosi, come il crocifisso nelle scuole pubbliche; e pazienza se si tratta di segni tangibili della nostra cultura e non di imposizioni di natura religiosa (come sarebbe ad esempio la preghiera in classe).

Per lo scrittore francese la via maestra per l'integrazione passerebbe esclusivamente per l'appiattimento culturale, sia da parte del paese ospitante che dell'immigrato, e l'asservimento del singolo alla legge dello Stato. Stiamo parlando, quindi, della riproposizione del modello assimilazionista francese, quello miseramente fallito alla pari di tutti gli altri modelli d'integrazione avanzati fin qui conosciuti. Secondo Angelo Panebianco, questo modello si fonda sulla «concessione della "cittadinanza repubblicana", con i suoi diritti di libertà, in cambio di una privatizzazione del credo religioso, del divieto di far valere entro l'arena pubblica le appartenenze religiose». Tuttavia «in Francia, non solo settori rilevanti della nuova immigrazione musulmana ma anche molti figli e nipoti di quegli immigrati nordafricani che, alcuni decenni fa, scelsero con orgoglio di diventare "cittadini francesi" rifiutano oggi l'assimilazione: sposano, polemicamente, il separatismo culturale, contro l'appartenenza francese» (Panebianco A., Corriere della Sera, 6 dicembre 2004). Bisognerebbe ricordare a Ben Jelloun, così caustico nel giudicare il rapporto tra religioni e tolleranza, che, com'è possibile leggere anche sull'Enciclopedia Treccani, questo principio si è affermato originariamente in campo religioso come riconoscimento della libertà di coscienza in nome della coesistenza pacifica di tutte le confessioni e gli orientamenti di fede. In senso più vasto, la tolleranza è intesa come libertà di coscienza, come rispetto di tutte le convinzioni non solo in materia di religione, ma anche di politica, morale e scienza. Così intesa, la tolleranza si identifica con il pluralismo dei valori, dei gruppi e degli interessi nella società, e il suo significato finisce per coincidere con quello di libertà.

Quindi tolleranza significa libertà e non asservimento. Tuttavia sappiamo che anche il modello pluralista britannico, che concedeva generosamente spazi pubblici alle minoranze etniche o religiose in nome della tolleranza, sotto forma di «diritti collettivi», è miseramente fallito. E allora da dove bisogna partire? Innanzitutto dall'esperienza che ci dice quali sono stati i modelli di integrazione falliti e le motivazioni di queste debacles. La vera sfida che attende i governi dei paesi ospitanti è proprio quella di trovare un nuovo modello di convivenza tra diversi che non ripeta gli errori del passato.

venerdì 6 novembre 2009

Pari opportunità e parità di trattamento nel lavoro tra uomini e donne



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

giovedì 05 novembre 2009

In questi giorni, nelle Commissioni Lavoro (che mercoledì scorso ha già dato parere positivo con osservazioni) e Politiche Europee della Camera, è in discussione, per una richiesta di parere, lo schema di decreto legislativo recante recepimento della direttiva 2006/54/CE riguardante l'attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego. Il testo introduce alcune novità nel nostro ordinamento.

Vengono ampliate le competenze del Comitato nazionale per l'attuazione dei principi di parità di trattamento ed uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici, istituito presso il ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Tale Comitato elaborerà iniziative per favorire il dialogo tra le parti sociali al fine di promuovere la parità di trattamento; promuoverà iniziative per favorire il dialogo con le organizzazioni non governative che hanno un legittimo interesse a contribuire alla lotta contro le discriminazioni fra donne e uomini nell'occupazione e nell'impiego; scambierà informazioni con corrispondenti organismi europei.

Si allargano, altresì, le funzioni della consigliera o del consigliere nazionale di parità, che rileverà gli squilibri nell'accesso al lavoro, nella formazione professionale, nella retribuzione, nel trattamento pensionistico e svolgerà inchieste indipendenti in materia di discriminazioni sul lavoro e pubblicherà relazioni e raccomandazioni in materia.

Inoltre, le lavoratrici in possesso dei requisiti per la pensione di vecchiaia avranno diritto di proseguire il rapporto di lavoro fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini, previa comunicazione al datore di lavoro da effettuarsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto alla pensione.

Nelle forme pensionistiche complementari collettive di cui al decreto legislativo n. 252 del 2005 sarà vietata qualsiasi discriminazione diretta o indiretta per quanto riguarda: il campo di applicazione di tali forme pensionistiche e relative condizioni di accesso; l'obbligo di versare i contributi e il calcolo degli stessi; il calcolo delle prestazioni, comprese le maggiorazioni da corrispondere per il coniuge e per le persone a carico, nonché le condizioni relative alla durata e al mantenimento del diritto alle prestazioni.

Lo schema di decreto legislativo stabilisce anche che i contratti collettivi possono prevedere misure specifiche per prevenire tutte le forme di discriminazione sessuale, e sarà vietata qualsiasi discriminazione per ragioni connesse al sesso, con particolare riguardo ad ogni trattamento sfavorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione alla titolarità e all'esercizio dei relativi diritti. Insomma, seppur l'articolo 3 della nostra Costituzione era già molto chiaro in tema di pari dignità sociale, è sempre meglio prevedere ulteriori specifici interventi in materia con legge ordinaria.

La discriminazione tra uomo e donna nel mercato del lavoro è una brutta realtà. Per capire i termini del problema basterebbe dire che, secondo l'International Migration Outlook 2008, in tutto il mondo, la differenza salariale tra lavoratori immigrati e autoctoni (in media tra il 15% ed il 20% in meno a sfavore degli immigrati) è più piccola di quella tra uomo e donna. John Stuart Mill, che come deputato s'impegnò sul tema della parità tra uomo e donna seppur senza successo, sosteneva che la differenza fra uomo e donna era visibile solo in quanto le donne non avevano le stesse possibilità degli uomini, ma, una volta eliminate le disparità, e una volta aperte le porte dell'istruzione e della carriera alle donne, esse sarebbero diventate in tutto simili agli uomini (The subjection of women, 1869). Sono passati 140 anni dal momento in cui Mill metteva nero su bianco questi concetti e, a distanza di quasi un secolo e mezzo, siamo ancora qui a parlare dello stesso problema. Speriamo non dover aspettare altrettanto per arrivare ad avere finalmente una società in cui vi siano realmente pari opportunità e parità di trattamento fra uomini e donne nel mercato del lavoro.

mercoledì 4 novembre 2009

Immigrazione. Perché non serve gridare al «razzismo dilagante»



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

martedì 03 novembre 2009


Settecento milioni di persone adulte, soprattutto dall'Africa, sono pronte ad emigrare permanentemente per cercare un futuro migliore, malgrado la grave crisi economica mondiale. E' quanto emerge da uno studio Gallup, presentato lunedì ad Atene al Terzo Forum Globale per l'Emigrazione e lo Sviluppo (Gfmd). Secondo lo studio Gallup, la destinazione finale preferita dalla maggior parte di coloro che sono pronti, avendone la opportunità, ad abbandonare i propri paesi sono gli Stati Uniti, seguiti in Europa da Gran Bretagna, Spagna, Francia e Germania. Il Forum Globale ha l'obiettivo di favorire il dialogo tra paesi di origine dell'emigrazione e quelli di arrivo. La conferenza si svolge proprio in Europa dove, sottolinea l'Iamr (Assemblea Internazionale degli Emigranti e dei Rifugiati), «i lavoratori immigrati, e in particolare quelli clandestini, si confrontano con un incerto destino ed un ambiente sempre più ostile».

Ma perché l'ambiente diventa sempre più ostile? Spesso i rapporti stilati da queste organizzazioni internazionali non leggono con spirito obiettivo la realtà dei fatti e cioè non capiscono o non vogliono capire che non ci troviamo dinanzi ad una sorta di razzismo dilagante, ma davanti a qualcosa di molto più complesso. Innanzitutto c'è il problema del rapporto tra immigrazione clandestina e criminalità. Con riferimento al nostro paese, secondo l'International Migration Outlook - Ocse/Sopemi 2009, nel 2008 i cittadini stranieri denunciati sono stati 205.188 (29,7% del totale), mentre gli stranieri arrestati sono stati 97.432 (49,2% del totale); al 1° settembre 2009 i detenuti stranieri erano 23.696 (37% del totale). Si tratta di cifre notevolmente sproporzionate se consideriamo che la stragrande maggioranza degli stranieri che commettono reati sono clandestini.

Poi c'è il problema della concorrenza sleale nel mercato del lavoro. Sempre più spesso alcuni operatori economici usano, o sarebbe dire meglio sfruttano, la leva dell'immigrazione clandestina per risparmiare sul costo del lavoro ed essere maggiormente competitivi sul mercato mondiale o, più banalmente, per massimizzare i profitti. Già l'International Migration Outlook 2008, infatti, segnalava che praticamente in tutto il mondo gli immigrati guadagnano meno dei lavoratori nazionali, eccetto che in Australia.

Questi dati trovano una ulteriore conferma anche in studi su scala più ridotta, come ad esempio quello dell'associazione di assistenza socio-sanitaria milanese Naga, che ha analizzato i dati di oltre 47.500 suoi utenti dal 2000 al 2008: la percentuale dei clandestini occupati che risiedono in Italia da un anno è sotto il 40%, dopo due anni di permanenza la percentuale sale a circa il 65% e continua a salire al 76% dopo quattro anni. L'aspetto più sorprendente di questa evoluzione è la rapidità con cui essa avviene. Nei 9 anni presi in considerazione la condizione lavorativa dei clandestini è migliorata, passando dal 49,2% di occupati del 2000 al 61,6% del 2008. Il lavoro nel 2008 è stabile per il 52% del campione (contro il 47,5% nel 2000), saltuario per il 47%, ambulante per l'1%. Per area geografica, sono più stabili gli immigrati provenienti dall'Europa dell'est (67%), seguiti dai sudamericani e asiatici. Il tempo medio di permanenza in Italia è notevolmente aumentato, spiegano dal Naga: nel 2003 il 53% era in Italia da meno di un anno, mentre nel 2008 sono meno del 25%, contro un 30% che è qui da almeno quattro anni. In generale però «i migranti svolgono lavori non qualificati, mentre nel paese di origine molti erano impiegati in occupazioni con elevato livello di specializzazione». A confermarlo, in particolare, un dato: il 70% delle laureate lavorano come collaboratrici domestiche. Infine, in attesa di un'analisi che verrà presentata a gennaio, il rapporto indaga sulla situazione abitativa: quasi il 12% delle donne vive a casa del datore di lavoro, il 7% degli uomini e il 4% delle donne è senza fissa dimora o vive in insediamenti abusivi (specie per quanto riguarda subsahariani e est-europei) e l'88,6% vive in affitto, con un affollamento abitativo per stanza quasi triplo rispetto alla media milanese: 2,2 abitanti per locale contro lo 0,71 della media di Milano.

Insomma, se il clandestino viene percepito dagli autoctoni come una persona che in genere commette reati e determina un abbassamento del costo del lavoro a loro danno è chiaro che, indipendentemente dal fatto che egli possa essere una brava persona o meno, ci troveremo dinanzi ai presupposti per la costruzione di un ambiente ostile per questa gente. E allora la risposta a questo problema non può che essere articolata in una serie di azioni rivolte all'esterno (cooperazione allo sviluppo con i paesi di provenienza per diminuire il numero delle partenze; corsi di formazione professionale in loco; progetti per agevolare gli investimenti in quei territori, ecc...) e all'interno dei confini nazionali (razionalizzazione dei flussi in ingresso sulla base di vari parametri che non siano solo quelli legati al mondo del lavoro ma anche alle politiche scolastiche, a quelle abitative e al welfare state; rispetto delle regole per l'ingresso e la permanenza nel territorio nazionale; parità di trattamento tra lavoratori stranieri ed autoctoni; ecc...).

Non è utile, quindi, puntare il dito e gridare al razzismo dilagante senza indagare sulle cause che creano un ambiente ostile per gli immigrati nel paese ospitante. L'unica via possibile è quella di analizzare razionalmente i motivi di questa situazione ed i possibili rimedi nel breve e nel lungo periodo.

lunedì 2 novembre 2009

Immigrazione e criminalità: Rapporto Caritas-Migrantes 2009



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

mercoledì 28 ottobre 2009

Il Dossier statistico di Caritas-Migrantes 2009 - edizione numero 19, presentato mercoledì 28 ottobre a Roma, dedica un approfondimento specifico al rapporto tra immigrazione e criminalità nella parte intitolata «Immigrati e criminalità. Dati, interpretazioni e pregiudizi», realizzata insieme a Redattore Sociale e già in parte anticipata il 6 ottobre scorso. La prima questione affrontata è se l'aumento della criminalità sia dovuto in maniera più che proporzionale all'aumento della popolazione residente. La risposta, secondo il dossier, è negativa. Nel periodo 2001-2005 l'aumento degli stranieri residenti è stato del 101% e l'aumento delle denunce presentate contro stranieri del 46%.

Seconda questione: ci si chiede se gli stranieri regolari siano caratterizzati da un tasso di criminalità superiore a quello degli italiani. A prima vista sembrerebbe proprio così: nel 2005 l'incidenza degli stranieri sulla popolazione residente è stata del 4,5% e l'incidenza sulle denunce penali con autore noto del 23,7% (130.131 su 550.590). In realtà, solo nel 28,9% dei casi sono implicati stranieri legalmente presenti e ciò abbassa il loro tasso di criminalità, che scende ulteriormente ipotizzando che anche gli italiani che delinquono siano per il 92,5% concentrati tra i ventenni e i trentenni (come accade tra gli stranieri) e considerando che il confronto non tiene conto dei reati contro la normativa sull'immigrazione: alla fine, il tasso di criminalità risulta essere analogo per italiani e stranieri.

Terza questione: ci si domanda se gli stranieri irregolari si caratterizzino per i loro comportamenti delittuosi. Secondo il Rapporto Caritas-Migrantes, è vero che, in proporzione, sono più elevate le denunce a loro carico, da riferire in parte al loro stato di maggiore precarietà e in parte anche al loro coinvolgimento nelle spire della criminalità organizzata. Sembra quasi la scoperta dell'acqua calda visto che si tratta di una semplice conferma di un dato noto sin dal rapporto sulla criminalità in Italiapresentato il 20 giugno del 2007. A questi dati potrebbero essere affiancati gli ultimi disponibili in materia, tratti dall'International Migration Outlook - Ocse/Sopemi 2009, che ci dicono che, per quanto riguarda il rapporto tra immigrazione e criminalità, nel 2008 i cittadini stranieri denunciati sono stati 205.188 (29,7% del totale), mentre gli stranieri arrestati sono stati 97.432 (49,2% del totale); al 1 settembre 2009 i detenuti stranieri erano 23.696 (37% del totale). Queste cifre, se confrontate con il tasso di incidenza degli stranieri sulla popolazione residente in Italia al 1 gennaio 2009 (5,8% secondo) sono davvero sproporzionati. Tuttavia è bene sottolineare che secondo il Censis a delinquere sono soprattutto gli irregolari e i clandestini e che il capo della polizia Manganelli, il 7 maggio scorso, in occasione del 157° anniversario della fondazione della Polizia, ha affermato che in Italia i clandestini arrivano a commettere il 30% dei reati e, in certe zone, il 70%.

Ricordiamo che già nel 2007 il ministro dell'Interno dell'ultimo governo di centrosinistra, Giuliano Amato, aveva affermato che «la criminalità si concentra, per quanto riguarda gli immigrati, nel mondo degli irregolari, sia per i reati in violazione della normativa sull'immigrazione, che per i rati predatori, particolarmente frequenti nel Nord Est italiano, in ragione della concentrazione di ricchezza e della notevole presenza di flussi migratori clandestini anche "mordi e fuggi" dall'Est dell'Europa».

Tutti questi dati ci dicono, quindi, che gli stranieri in regola commettono reati nella stessa percentuale degli italiani e che il vero problema è il tasso di criminalità di irregolari (stranieri che hanno perduto i requisiti necessari per la permanenza sul territorio nazionale, ad esempio quando il permesso di soggiorno è scaduto e non è stato rinnovato, di cui erano però in possesso all'ingresso in Italia) e clandestini (stranieri entrati in Italia senza regolare visto di ingresso). La conclusione da trarne, senza fare tanti giri di parole, è quella di rispondere attraverso la repressione, la cooperazione allo sviluppo con i paesi di provenienza degli immigrati e l'aiuto delle istituzioni comunitarie.
Google