mercoledì 11 novembre 2009

La tolleranza parte dall’accettazione della diversità



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

martedì 10 novembre 2009

«Al problema dell'immigrazione, che rappresenta uno dei «grandi cambiamenti sociali in atto», «occorre dare risposte avendo chiaro che non ci può essere uno sviluppo effettivo se non si favorisce l'incontro tra i popoli, il dialogo tra le culture e il rispetto delle legittime differenze». Lo ha affermato Papa Benedetto XVI nel suo discorso al VI Congresso Mondiale della Pastorale dei Migranti e dei Rifugiati. «In questa ottica - si è chiesto il Pontefice - perché non considerare l'attuale fenomeno mondiale migratorio come condizione favorevole per la comprensione tra i popoli e per la costruzione della pace e di uno sviluppo che interessi ogni Nazione?».

Secondo il presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale dei migranti e gli itineranti, mons. Antonio Maria Veiò, che ha aperto lunedì mattina in Vaticano il Congresso: «Occorre superare le paure che nascono dalle migrazioni viste come un'incognita, talvolta ridotta esclusivamente ad una questione di ordine pubblico da affrontare con la repressione. Guardando al futuro - ha aggiunto -, si potrà probabilmente pensare a strumenti addizionali per provvedere alle lacune che emergono in un fenomeno umano in continua evoluzione e crescita o a una nuova convenzione internazionale che sintetizzi la normativa sui diritto e doveri dei migranti. Oggi - ha sottolineato - tuttavia, appare sempre più importante puntare sulla integrazione, che non equivale a un processo di assimilazione».

Sul tema dell'integrazione e della tolleranza è intervenuto anche lo scrittore franco-marocchino Tahar Ben Jelloun, a margine della cerimonia di apertura della XV edizione del Medfilm Festival a Roma, che ha affermato di aver sentito il bisogno di tornare sull'argomento dopo gli episodi di intolleranza verificatisi negli ultimi tre anni in Italia. Per uscire dalla spirale dell'odio nei confronti dell'altro, secondo lo scrittore, «bisogna puntare sui bambini, perché è inutile spiegare a un adulto di quarant'anni, cresciuto nel pregiudizio, cosa sia la tolleranza». E ancora: «Nelle scuole pubbliche il crocifisso non deve esserci. Negli istituti privati e cattolici la cosa è diversa. La religione deve rimanere un fatto privato, a qualsiasi latitudine e in qualsiasi mondo, sia in quello cristiano che in quello musulmano e ebraico». «L'Italia, però, non è un Paese laico, è una nazione estremamente attaccata alla religione cristiana e ai suoi simboli, almeno sul piano formale», ha affermato polemicamente l'intellettuale francofono più tradotto al mondo. Impossibile quindi immaginare che in Italia venga varata una legge come quella introdotta in Francia nel 2004 dal governo Raffarin, che vieta i simboli religiosi nelle scuole? «Per ottenerla - ricorda Ben Jelloun - ci sono voluti cento anni. E in Italia, di laicità dello Stato, si è iniziato a parlare da poco».

Insomma Ben Jelloun predica la tolleranza a modo suo giacché proprio lui non tollera la cultura del nostro paese, giudicata con piglio severo come cosa ben diversa da quella francese. Parla di fantomatici episodi d'intolleranza nel nostro paese ma dimentica colpevolmente i gravissimi episodi di violenza che hanno scosso le banlieues di alcune città francesi e i motivi dello scoppio di quelle terribili ondate. Ah, les français! A suo avviso la tolleranza non consiste nella semplice accettazione delle diversità. Serve di più: l'intervento dello Stato, nelle vesti di padre-pardone, per cancellare le diversità in favore del totem statalista. Quindi niente simboli religiosi, come il crocifisso nelle scuole pubbliche; e pazienza se si tratta di segni tangibili della nostra cultura e non di imposizioni di natura religiosa (come sarebbe ad esempio la preghiera in classe).

Per lo scrittore francese la via maestra per l'integrazione passerebbe esclusivamente per l'appiattimento culturale, sia da parte del paese ospitante che dell'immigrato, e l'asservimento del singolo alla legge dello Stato. Stiamo parlando, quindi, della riproposizione del modello assimilazionista francese, quello miseramente fallito alla pari di tutti gli altri modelli d'integrazione avanzati fin qui conosciuti. Secondo Angelo Panebianco, questo modello si fonda sulla «concessione della "cittadinanza repubblicana", con i suoi diritti di libertà, in cambio di una privatizzazione del credo religioso, del divieto di far valere entro l'arena pubblica le appartenenze religiose». Tuttavia «in Francia, non solo settori rilevanti della nuova immigrazione musulmana ma anche molti figli e nipoti di quegli immigrati nordafricani che, alcuni decenni fa, scelsero con orgoglio di diventare "cittadini francesi" rifiutano oggi l'assimilazione: sposano, polemicamente, il separatismo culturale, contro l'appartenenza francese» (Panebianco A., Corriere della Sera, 6 dicembre 2004). Bisognerebbe ricordare a Ben Jelloun, così caustico nel giudicare il rapporto tra religioni e tolleranza, che, com'è possibile leggere anche sull'Enciclopedia Treccani, questo principio si è affermato originariamente in campo religioso come riconoscimento della libertà di coscienza in nome della coesistenza pacifica di tutte le confessioni e gli orientamenti di fede. In senso più vasto, la tolleranza è intesa come libertà di coscienza, come rispetto di tutte le convinzioni non solo in materia di religione, ma anche di politica, morale e scienza. Così intesa, la tolleranza si identifica con il pluralismo dei valori, dei gruppi e degli interessi nella società, e il suo significato finisce per coincidere con quello di libertà.

Quindi tolleranza significa libertà e non asservimento. Tuttavia sappiamo che anche il modello pluralista britannico, che concedeva generosamente spazi pubblici alle minoranze etniche o religiose in nome della tolleranza, sotto forma di «diritti collettivi», è miseramente fallito. E allora da dove bisogna partire? Innanzitutto dall'esperienza che ci dice quali sono stati i modelli di integrazione falliti e le motivazioni di queste debacles. La vera sfida che attende i governi dei paesi ospitanti è proprio quella di trovare un nuovo modello di convivenza tra diversi che non ripeta gli errori del passato.

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