lunedì 30 luglio 2007

Lavori usuranti, un'altra spina nel fianco per Prodi


di Antonio Maglietta - 28 luglio 2007


L'accordo recentemente raggiunto tra governo e parti sociali in materia di previdenza, lavoro e competitività (quello che comunemente viene definito «protocollo sul welfare»), dedica una particolare attenzione ai lavori usuranti. Il tema, dal punto di vista degli equilibri politici interni al centrosinistra e per i rapporti tra governo e sindacati, non è di poco conto. Non si è fatta attendere la richiesta dei sindacati e della sinistra massimalista di gonfiare a dismisura l'attuale lista, individuata dal decreto del ministro del Lavoro del 19 maggio 1999 (cosiddetto «decreto Salvi»). Ma perché c'è la gara tra i partiti della sinistra antagonista ed i sindacati a chi cerca di allungare di più la suddetta lista?
Bisogna sapere che i lavoratori che saranno individuati tra coloro che svolgono una attività particolarmente usurante, al momento del pensionamento di anzianità, potranno conseguire su domanda, entro certi limiti, il diritto alla pensione con requisito anagrafico ridotto di tre anni rispetto a quello previsto (con il requisito minimo di 57 anni) purché abbiano svolto tale attività a regime per almeno la metà del periodo di lavoro complessivo o (nel periodo transitorio) per almeno 7 anni negli ultimi 10 di attività lavorativa. Per tali tipologie lavorative sono state individuate risorse massime disponibili su base annua, ed una cifra complessiva nel decennio 2008-2017 pari a 10 miliardi di euro. Inoltre è stata prevista l'istituzione di una Commissione mista, costituita da governo e parti sociali, che entro il mese di settembre 2007 dovrà definire concrete ipotesi tecniche attuative di quanto già delineato nell'accordo.
In quest'ultimo, in particolare, la platea dei destinatari è così individuata:
lavoratori impegnati nelle attività previste dal decreto del ministro del Lavoro del 1999;
lavoratori considerati notturni secondo i criteri definiti dal decreto legislativo n. 66 del 2003;
lavoratori addetti a linea catena individuati sulla base di questi tre criteri:
lavoratori dell'industria addetti a produzioni di serie;
lavoratori vincolati all'osservanza di un determinato ritmo produttivo collegato a lavorazioni o a misurazioni di tempi di produzione con mansioni organizzate in sequenza di postazioni;
lavoratori che ripetono costantemente lo stesso ciclo lavorativo su parti staccate di un prodotto finale, che si spostano a flusso continuo o a scatti con cadenze brevi determinate dall'organizzazione del lavoro o della tecnologia. Sono esclusi gli addetti a lavorazioni collaterali a linee di produzione, alla manutenzione, al rifornimento materiali e al controllo di qualità;
conducenti di mezzi pubblici pesanti.
Purtroppo, con l'accordo del 20 luglio scorso, come sottolinea il maggior esperto italiano in materia previdenziale, il professor Giuliano Cazzola, non ci si limita ad intervenire sugli anni di effettivo svolgimento di una attività particolarmente usurante ma, addirittura, si riconosce una sorta di status perpetuo di lavoratore usurato. Insomma, uno status monolitico che resterebbe tale anche in presenza di un cambiamento radicale del tipo di lavoro svolto. Inoltre, non contenti, gli esponenti della sinistra parlamentare e governativa hanno già fatto sapere che il protocollo sul welfare non è soddisfacente e che, quindi, provvederanno ad emendare il provvedimento con cui verrà adottato l'accordo. Se sinistra e sindacati porranno un aut-aut per allargare ulteriormente la lista dei lavori usuranti, Prodi cosa farà? Fino ad ora ha sempre calato le braghe, all'insegna del motto «tengo famiglia». Ricordiamo, inoltre, che l'accordo verrà recepito nella Finanziaria 2008 o, comunque, in un provvedimento che dovrebbe essere discusso dal Parlamento in autunno, che mai come questa volta rischia di essere veramente caldo.

mercoledì 25 luglio 2007

Gli statali in paradiso


di Antonio Maglietta - 24 luglio 2007

L'articolo 46, comma 3, del decreto legislativo n. 165 del 2001 prevede che l'Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni (ARAN) trasmetta ogni tre mesi al parlamento, al governo ed ai comitati di settore un rapporto sull'andamento delle retribuzioni di fatto dei pubblici dipendenti. Nonostante la specifica previsione di legge, il parlamento non ha ricevuto l'ultimo rapporto del 2006 ed il primo del 2007. Nel frattempo il governo Prodi, calandosi le braghe senza un minimo di resistenza di fronte alle richieste dei sindacati confederali, ha previsto cospicui aumenti nell'ambito delle retribuzioni del settore pubblico, senza la benché minima contropartita. L'occasione poteva essere propizia per cercare di inserire un credibile meccanismo, all'interno delle dinamiche contrattuali, che fosse in grado di legare le retribuzioni alla produttività. A tutt'oggi il rapporto trimestrale non è stato formalmente trasmesso alle Camere, mentre risulta sia stato irritualmente pubblicato, a partire dalla fine del mese di giugno, sul sito internet dell'Agenzia.
Il rapporto, inoltre, non fornisce i dati sull'andamento delle retribuzioni di fatto relative al 2006, nonostante l'Istat, sin dagli inizi di giugno, abbia pubblicato le proprie rilevazioni statistiche in proposito. Bisogna ricordare che l'andamento delle retribuzioni di fatto, che incorporano anche gli aumenti riconosciuti dalle singole Amministrazioni in sede decentrata, rappresenta l'elemento di maggiore criticità del settore pubblico. Inoltre appare grave la divaricazione fra i tassi di aumento retributivo del settore pubblico e quelli del settore privato. La criticità della situazione è stata anche evidenziata di recente dalla Banca Centrale Europea, il cui bollettino economico del giungo 2007 segnala come negli ultimi sette anni l'Italia presenti tassi di aumento della retribuzione pro-capite del settore pubblico (+36%) più che doppi rispetto ai tassi di incremento delle retribuzioni pro-capite del settore privato (+14,8%) e del tutto fuori linea rispetto alla media dei Paesi dell'area della moneta unica europea.
Ora una analisi comparata pubblico-privato basata sui dati relativi ai tassi di assenteismo (secondo il professor Pietro Ichino nel privato sarebbero pari al 4/6% mentre nel pubblico 12/14%) e sui tassi di aumento della retribuzione pro-capite (+14,8% nel privato a dispetto di un ben più cospicuo +36% nel pubblico) sarebbe veramente impietosa e, per alcuni versi, anche ingenerosa nei confronti delle tante eccellenti figure professionali presenti nel pubblico impiego. Tuttavia l'analisi è utile per fare qualche considerazione sull'andamento delle tutele riservate ai lavoratori ed in tal senso è palese che i lavoratori del settore privato godano di minore attenzione rispetto a quelli pubblici. Il nodo centrale è che gli impiegati pubblici, al pari dei pensionati, sono diventati il baluardo del sindacalismo nostrano. Infatti, oramai già da diverso tempo, gli statali sono l'unica categoria «attiva» che associa due aspetti fondamentali del potere contrattuale: la cospicua quantità di tessere sindacali prodotte (cosa che fidelizza il rapporto categoria-sindacato) ed i grandi numeri (gli impiegati pubblici, secondo l'ultimo conto annuale della Ragioneria Generale dello Stato, sono circa 3,5 milioni). E' ovvio che, in un tale quadro, i sindacati confederali tendano a riservare una maggiore attenzione a questa categoria. Le differenze in termini di produttività, tasso di assenteismo, tasso di aumento della retribuzione pro-capite, tra settore pubblico e settore privato, non possono essere ricondotte in toto alla presunta maggiore o minore tutela sindacale, ma è chiaro che l'azione del sindacato incide, e non poco, sui vari indicatori del mondo del lavoro.
Forzando il concetto, si potrebbe arrivare a sostenere che i settori meno sindacalizzati (quelli privati) sono anche quelli maggiormente produttivi. Ma addossare tutta la colpa ai sindacati sarebbe sbagliato. Infatti il loro potere, come dimostrano le ultime vicende in tema di pubblico impiego e pensioni, è indirettamente proporzionale a quello del governo. Più il governo si dimostra incapace di dare una linea politica decisa, più aumenta la capacità di pressione dei sindacati. E' la debolezza politica del governo Prodi il vero problema. Manca una idea guida che ispiri i provvedimenti dell'esecutivo. Ecco quindi che, nel deserto delle idee politiche del centrosinistra, il governo ha pensato bene di attingere da quelle ben più floride dei sindacati. Ecco la risposta ai tanti perché sulle sanatorie nel pubblico impiego, sull'abolizione dello scalone della riforma Maroni e sull'allungamento della lista dei lavori usuranti. Sulla scia del sindacato, il governo Prodi ha individuato la nuova classe sociale di riferimento, quella che nell'immaginario collettivo subentra alle classe operaia (sempre meno numerosa e poco appetibile elettoralmente): gli impiegati pubblici. Gli esclusi sono i giovani e i lavoratori produttivi (anche i tanti presenti nel pubblico impiego).

lunedì 23 luglio 2007

L'assenteismo nel pubblico impiego


di Antonio Maglietta - 21 luglio 2007


Purtroppo la cronaca quotidiana è impietosa e nell'ambito del dibattito politico sul futuro e le prospettive di riforma del pubblico impiego nostrano si è abbattuto, come un macigno, l'eco dell'inchiesta giudiziaria della magistratura umbra che ha portato all'arresto, da parte dei carabinieri del Nas, di 12 dipendenti dell'ospedale Santa Maria della Misericordia di Perugia. I reati contestati sono falso in atto pubblico e truffa aggravata e, secondo quanto si legge in una nota della procura di Perugia, gli arrestati si sarebbero allontanati dal luogo di lavoro mediante l'illecito utilizzo del badge marcatempo che sarebbe stato timbrato da terzi ed avrebbero svolto, inoltre, attività lavorative parallele in strutture private in orario di servizio. Il caso potrebbe essere tranquillamente archiviato come semplice malcostume circostanziato se non fosse per alcuni numeri ed alcune considerazioni.
Innanzitutto bisogna premettere che il calcolo del tasso di assenteismo è espresso come percentuale tra le ore di assenza per malattia e quelle lavorabili in un anno. Secondo il professor Pietro Ichino, ordinario di diritto del lavoro all'università statale di Milano, il tasso di assenza per malattia di un lavoratore autonomo è tra l'1 e l'1,5%; tra i lavori dipendenti di un'azienda privata varia tra il 4 e il 6%; nel settore pubblico si arriva invece a volte al 12/14%. Insomma, siamo dinanzi a percentuali decisamente fin troppo elevate per parlare di semplice malcostume, senza suonare il campanello di allarme, e portare l'attenzione anche su altri aspetti come l'eccessivo spreco di denaro pubblico e sui minori servizi destinati a cittadini ed imprese, sia in termini quantitativi che, soprattutto, qualitativi.
Il Ministro Nicolais, intervenendo sul caso dell'ospedale umbro, ha detto in sostanza che i mezzi per combattere la piaga dell'assenteismo nel pubblico impiego ci sono già e basterebbe applicarli, chiedendo infine, dalle pagine del quotidiano La Repubblica: «licenziamenti certi e veloci per i dipendenti condannati». E' vero che i mezzi esistono già: il merito è di un contratto collettivo sottoscritto sotto il governo Berlusconi. Infatti secondo il CCNL (contratto collettivo nazionale di lavoro) del 12 giugno 2003, le fattispecie rilevate nella citata inchiesta potevano rientrare teoricamente nei casi per cui è previsto il licenziamento senza preavviso di cui all'art. 13, comma 6. Invece secondo l'ipotesi di CCNL per il quadriennio normativo 2006-2009, le stesse fattispecie sono state tipicizzate (ossia espressamente indicate) entro l'ambito di applicazione di una sanzione disciplinare meno punitiva come la sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da 11 giorni fino ad un massimo di 6 mesi. Insomma, a parole il Governo dichiara di voler intraprendere una lotta senza quartiere contro una delle piaghe endemiche del pubblico impiego nostrano; stando ai fatti, invece, sceglie di contrastare il malcostume dell'assenteismo dal posto di lavoro con strumenti poco incisivi.
Se è vero che una azione efficace contro l'assenteismo deve essere innanzitutto preventiva (maggiori controlli interni) e, nei casi limite, punitiva e repressiva (intervento delle forze dell'ordine e della magistratura) allora è pure vero che, se i dirigenti non hanno gli strumenti idonei per agire, l'empasse, che si configurerebbe qualora il controllore non avesse gli strumenti idonei per controllare, contribuirà a far proseguire il triste andazzo che vede i nullafacenti guadagnare (e continuare a lavorare nella Pubblica Amministrazione) tanto quanto i lavoratori virtuosi. A quando una vera riforma incentrata sulla meritocrazia?

martedì 17 luglio 2007

Pensioni e lavori usuranti


di Antonio Maglietta - 17 luglio 2007


Digitando su internet http://www.unioneweb.it/ appare la scritta, quanto mai eloquente, «Ci scusiamo per l'inconveniente, il sito è attualmente in manutenzione». Ma non è solo il sito della coalizione di governo, che uno scherzo del destino, ed il tafazzismo degli esperti di comunicazione del centrosinistra, volle che si chiamasse «Unione», ad essere in manutenzione; lo sono anche gli equilibri politici tra massimalisti e riformisti. A soffrire, per questo continuo tira e molla su tutto e tutti tra i vari partiti del centrosinistra e tra gli stessi ministri del governo di Romano Prodi, è l'intero Paese che, da oramai un anno, vive in un limbo in cui l'unica cosa certa è l'incertezza.
Invece di fare gli amministratori della res pubblica i politici del centrosinistra sembrano essere più attratti dal «tiro alla fune». Si tratta oramai su tutto e la mediazione, al ribasso, sembra oramai una prassi consolidata. Il guaio è che la salvaguardia degli equilibri interni al centrosinistra e la stessa durata del governo rischiano di provocare non pochi disastri all'intero sistema Paese. Caso eloquente: la trattativa sulle pensioni. Sul tavolo c'è la riforma Maroni del governo Berlusconi. La sinistra massimalista chiede l'abolizione del cosiddetto scalone mentre i riformisti, seppur con qualche giro di valzer (per la serie: «se non ci sono i soldi per l'abolizione resta lo scalone»), sono per il suo mantenimento. La posta in palio è altissima: la sostenibilità nel lungo periodo dell'intero sistema pensionistico che potrebbe riversarsi per intero sulle spalle delle nuove generazioni; senza contare, tra le altre cose, la creazione di antipatiche sacche di privilegio all'interno del mondo del lavoro qualora un giovane, calcolatrice alla mano, scoprisse di dover pagare più contributi pensionistici rispetto ai propri genitori per avere circa la metà della loro pensione. La prospettiva potrebbe essere simpaticamente rappresentata da una vignetta satirica che raffiguri un padre che, dopo aver cenato con la famiglia al ristorante, si alza e va via senza pagare, lasciando al figlio, che ha mangiato solo metà della porzione consumata dal genitore, l'onere di saldare per intero il conto. E' chiaro che la prospettiva di un conflitto generazionale è qualcosa che un Paese civile non si può assolutamente permettere. Tuttavia dalle parti della sinistra massimalista si ostenta sicurezza ed i vari segretari di partito fanno a gare a bacchettare chi solo si permetta di prospettare un simile scenario.
L'ultima proposta sul tappeto per seppellire la buona riforma Maroni, tirata fuori dal cilindro massimalista con una operazione degna del miglior mago illusionista, è l'innalzamento dell'età pensionabile a 58 anni (ed eventuali ulteriori innalzamenti con incentivi), ad esclusione di alcune categorie di lavoratori che verrebbero infilate nella lista dei lavori usuranti, quelli che, per intenderci, godono, tra le altre cose, di alcuni benefici pensionistici. A questo punto, però, sarebbe opportuno capire di cosa si parla quando si citano i lavori usuranti. Secondo l'art. 1, comma 1, del decreto legislativo 11 agosto 1993, n. 374: «Sono considerati lavori particolarmente usuranti quelli per il cui svolgimento è richiesto un impegno psicofisico particolarmente intenso e continuativo, condizionato da fattori che non possono essere prevenuti con misure idonee». Le attività particolarmente usuranti di cui al comma 1 sono state individuate nello specifico nella tabella A allegata al citato decreto. Successivamente il D.M. 19 maggio 1999, recante «Criteri di individuazione delle mansioni usuranti», adottato dal Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con i Ministri del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, della sanità e per la funzione pubblica, ritornando sul punto, specificò ulteriormente, nell'ambito delle attività già individuate nella già citata tabella A, le tipologie che potevano essere considerate come lavoro particolarmente usurante. Il citato decreto del 19 maggio 1999 fu adottato alla luce dei risultati cui era pervenuta la commissione tecnico-scientifica, istituita in data 8 aprile 1998, con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, ed in seguito al parere espresso dalla stessa in merito a determinate mansioni in ragione delle caratteristiche di maggiore gravità dell'usura che esse presentano anche sotto il profilo dell'incidenza della stessa sulle aspettative di vita, dell'esposizione al rischio professionale di particolare intensità, delle peculiari caratteristiche dei rispettivi ambiti di attività con riferimento particolare alle componenti socio-economiche che le connotano. Insomma, la ratio dell'istituito era quella di controbilanciare la minore aspettativa di vita di alcune categorie di lavoratori, rispetto alla collettività, con il riconoscimento di alcuni benefici particolari in tema di pensioni. Si rispondeva ad una esigenza particolare con una norma che prevedesse benefici particolari.
Oggi invece, per garantire la stabilità del governo, degli equilibri all'interno del centrosinistra e i buoni rapporti tra governo ed organizzazioni sindacali, si vorrebbe allargare a dismisura la platea di coloro i quali potrebbero beneficiare dei privilegi pensionistici riconosciuti a chi svolge un lavoro particolarmente usurante. Tanto per fare qualche esempio, Rifondazione Comunista vorrebbe inserire 780mila operai turnisti mentre la Uil 460mila tra insegnanti e maestre. Il rischio è che la lista si allunghi a tal punto da far diventare generalizzata quella che era nata come una qualifica strettamente particolare e circoscritta a poche tipologie di lavoro (in termini numerici). Su questa scia allora ognuno potrebbe rivendicare il diritto di vedersi qualificare il proprio lavoro come usurante fino ad arrivare al paradosso, per non scontentare nessuno (stile Veltroni), che il lavoro in generale è particolarmente usurante. Insomma, sembra che si sia ritornati indietro ai bei tempi, si fa per dire, delle spese pazze e dei provvedimenti pseudo-sociali stile baby-pensioni. Peccato che il conto, particolarmente salato, lo dovranno pagare le nuove generazioni.

martedì 10 luglio 2007

Immigrazione: sicurezza e tolleranza


di Antonio Maglietta - 10 luglio 2007


Sappiamo che i forti flussi migratori, che registriamo oramai da qualche anno anche verso il nostro Paese, rappresentano la seconda tappa di un processo, la globalizzazione, che all'inizio ha interessato soprattutto il campo economico. Lunedì scorso, dalle colonne del quotidiano francese Le Figaro, il Segretario generale dell'Onu, nel giorno in cui a Bruxelles si è riunito il Forum mondiale sulle migrazioni e lo sviluppo (con la partecipazione di circa 800 delegati di oltre 140 paesi), ha lanciato un appello per fare delle migrazioni un fattore di sviluppo. Nell'occasione Ban Ki-moon ha bacchettato i governi nazionali rei, a suo avviso, di lentezza nell'adattamento al fenomeno, da lui stesso definito, l'età della mobilità; una lentezza che, secondo il segretario generale dell'Onu, ha portato ad una rapida espansione dell'immigrazione illegale, a tensioni sociali, a pratiche discriminatorie, a perdita di fiducia nei governi e al rafforzamento delle associazioni a delinquere. Secondo Ban Ki-moon «Non possiamo nascondere il fatto che le migrazioni possono anche avere conseguenze negative ma il forum mondiale sulle migrazioni offre l'occasione per far fronte a tali conseguenze a livello globale, per consentire sia ai paesi in via di sviluppo che a quelli industrializzati di trarre tutti i vantaggi portati dalle migrazioni. I mezzi per ottenerli sono quelli che determinano la nostra appartenenza comune all'umanità: tolleranza, accettazione sociale, istruzione e un'apertura reciproca alle differenze culturali».
Le Nazioni Unite stimano che siano 191 milioni i migranti nel mondo, cifra simile a quella registrata all'inizio del secolo precedente. E' importante sottolineare, però, che i flussi migratori oggi avvengano in un contesto ben diverso di quello registrato nel secolo precedente. La minaccia del terrorismo internazionale oramai interessa ogni angolo del pianeta e la salvaguardia della sicurezza nazionale è diventato il primo punto nell'agenda dei governi nazionali. Ad esempio in Australia ci saranno controlli più dettagliati su coloro che chiederanno un visto grazie a una nuova tecnologia messa a punto dall'Asio (i servizi di sicurezza australiani). Lo ha reso noto, sempre lunedì, il quotidiano australiano The Australian. I legami emersi tra alcuni residenti in Australia e i falliti attentati di Londra e Glasgow hanno sollecitato il governo del premier Howard a introdurre un nuovo sistema di controllo delle frontiere, che entrerà in funzione a settembre. Il varo del nuovo sistema, che renderà noti maggiori particolari sulle persone che faranno richiesta di un visto d'ingresso, era stato inizialmente previsto per ottobre, ma il governo ha preferito accelerare i tempi per renderlo operativo prima della conferenza dell'Apec (Asia-Pacific Economic Corporation) prevista a Sydney, alla quale parteciperanno, tra gli altri, il presidente degli Stati Uniti George W. Bush e il suo omologo russo Vladimir Putin. Il premier John Howard ha dichiarato che il nuovo sistema, costato più di 30 milioni di euro, permetterà all'Asio, e al Dipartimento dell'immigrazione australiano, di integrare database differenti e di estendere i controlli a spostamenti, dettagli finanziari e comportamentali dei richiedenti. «L'uso di un software altamente sofisticato ci darà l'opportunità di conoscere maggiori dettagli sulle persone che chiederanno di entrare in Australia - ha detto Howard - e ci consentirà anche di avere maggiori informazioni su chi si trova già nel Paese». Il leader dell'opposizione, Kevin Rudd, associandosi all'iniziativa, ha detto che il Labour sostiene «qualsiasi misura adottata per accrescere la sicurezza nazionale».
Nel Vecchio Continente invece, secondo quanto riportato lunedì dal quotidiano The Guardian, il segretario generale dell'Interpol, Ronald Noble, ha accusato il premier britannico, Gordon Brown, di non avere dato attuazione ai suoi propositi di una maggiore condivisione delle informazioni sui sospetti terroristi nel Regno Unito. «I cittadini britannici potrebbero rimanere sorpresi se sapessero che la lista annunciata dal primo ministro la scorsa settimana non è stata inviata all'Interpol», ha sottolineato il capo dell'Agenzia. Noble ha spiegato che l'Interpol è in possesso di «numeri di passaporti, impronte digitali e fotografie di oltre 11.000 sospetti terroristi».
Insomma, le notizie provenienti da ogni latitudine del globo terrestre indicano che gli stati nazionali, per far fronte alle minacce provenienti dal terrorismo internazionale, farebbero bene a predisporre un sistema di identificazione e controllo a maglie strette degli immigrati che entrano nel loro territorio. Ma è chiaro che questa non è la bacchetta magica che risolve il problema legato alla salvaguardia della sicurezza nazionale. L'iniziativa va inquadrata, invece, nell'ottica di uno strumento utile per abbassare il grado di vulnerabilità dell'apparato di sicurezza nazionale e, conseguentemente, diminuire le possibilità di attacco da parte dei terroristi.
La sfida che attende i governi nazionali nella regolamentazione del fenomeno dell'immigrazione, quindi, è quella di conciliare il più possibile la sicurezza nazionale, minacciata dal terrorismo internazionale ma anche, più in generale, dal crimine organizzato, con la tolleranza, l'accettazione sociale, l'istruzione e un'apertura reciproca alle differenze culturali. Una sfida difficile e piena di insidie che non può prescindere dalla salvaguardia dell'identità culturale delle realtà nazionali e dalle istanze dei cittadini che chiedono, a gran voce, maggiore sicurezza.

giovedì 5 luglio 2007

Giù le mani dalla Bossi-Fini


di Antonio Maglietta – 7 luglio 2007

Il Consiglio dei Ministri del 28 giungo scorso ha approvato, su proposta del Ministro dell’interno, Giuliano Amato, e del Ministro della solidarietà sociale, Paolo Ferrero, un disegno di legge che conferisce al Governo la delega a modificare il testo unico sull’immigrazione. Il disegno di legge, approvato in via definitiva (il 24 aprile era stato approvato in via preliminare), ha ricevuto il parere della Conferenza unificata (Repertorio atti n. 47 del 14 giugno 2007) e verrà ora trasmesso al Parlamento.
La Conferenza delle Regioni e delle Province autonome ad eccezione delle Regioni Lombardia, Veneto, Molise e Sicilia (tutte governate dalla CdL), che hanno espresso parere negativo, ha valutato positivamente il testo del ddl Amato-Ferrero. Tuttavia il Governo in sede di Conferenza unificata, pur giocando tra mura tendenzialmente “amiche”, ha dovuto incassare qualche critica piuttosto pesante sul tema dei trasferimenti governativi alle Amministrazioni locali. Infatti il rappresentante dell’ANCI (Associazione Nazionale dei Comuni Italiani: Presidente Leonardo Domenici – sindaco di Firenze e noto esponente dei Ds), in un documento di osservazioni concordato con l’UPI (Unione delle Province Italiane: presidente Fabio Melilli – presidente della provincia di Rieti ed esponente della Margherita), ha evidenziato forti preoccupazioni, in relazione alle diverse competenze aggiuntive per le Amministrazioni locali, a partire dal sostegno alle politiche abitative, alla integrazione scolastica e sociale, ai servizi di orientamento lavorativo, che necessiterebbero, a loro avviso, di un potenziamento e di un incremento di risorse, ed ha sottolineato come, a fronte di nuove competenze per i Comuni, le risorse non sono state parimenti trasferite. Insomma, seppur in maniera velata, gli amici del governo hanno battuto cassa e le richieste di avere più soldi non le hanno certo mandate a dire.
Il ministro Ferrero ostenta comunque sicurezza ed alle critiche che da più parti si levano, rispetto ad un testo che definire pura demagogia è dir poco, reagisce a muso duro: "La destra continua ad attaccare la nuova legge sull'immigrazione, facendo ricorso ad ogni falsità e alla peggiore demagogia. Così si accusa il sistema dello sponsor che rappresenta, invece, un passo in avanti sul terreno della regolarizzazione del fenomeno migratorio". Tuttavia nessuno ancora sembra aver capito su cosa fondi tutta questa sicurezza. Sappiamo che uno dei punti più controversi riguarda proprio la demagogica novità difesa a spada tratta da Ferrero e cioè la possibilità, per l’immigrato che decide di venire in Italia per motivi di lavoro, di poter entrare nel nostro Paese senza avere un pregresso contratto di lavoro alle spalle e con la sola garanzia dello sponsor. Il punto cruciale è che la figura dello sponsor potrebbe essere ricoperta anche da associazioni professionali o imprenditoriali. Il rischio è che organizzazioni criminali, attraverso l’uso di semplici prestanome, usino il novello istituto della sponsorizzazione per dare una parvenza di legalità a quella che, tuttavia, continuerebbe ad essere una tratta di nuovi-schiavi e, soprattutto, per “pulire” il denaro sporco frutto della stessa tratta o di altre attività illecite. Infatti molte volte “i viaggi della speranza” prevedono un doppio trasporto: persone e armi, persone e droga oppure tutto insieme. Insomma è bene tenere presente che la tratta dei clandestini spesso si intreccia con il traffico di droga e con quello delle armi. Allora il problema di come porsi dinanzi al fenomeno dell’immigrazione clandestina andrebbe visto in un’ottica più ampia di quella a “compartimento stagno ideologico” del Ministro della solidarietà sociale. Contrastare il fenomeno dei clandestini significa combattere anche altri fenomeni illeciti ed è in questa “ampia visione” che dovrebbe legiferare il Legislatore.
Insomma non si può partire dall’assurdo assunto che, dato che l’immigrazione clandestina è un fenomeno inarrestabile, allora occorre trovare delle forme di legalizzazione della stessa attraverso l’introduzione nel nostro ordinamento di istituti privi di controlli rigidi nella fase dell’ingresso dello straniero sul territorio nazionale. In questo caso siamo anche oltre al “porte aperte per tutti” ed alla legalizzazione della tratta dei clandestini. Forse non è chiaro, o almeno non lo è per Ferrero e per tutti gli esponenti ed i sostenitori in Parlamento del governo Prodi, che si sta configurando un rischio enorme. Lo Stato italiano rischia, seppur involontariamente, di fornire strumenti perfettamente leciti alle organizzazioni criminali per “riciclare denaro sporco” frutto di chissà quale attività illecita. Ferrero se lo pone o no questo problema? E il neo messia Walter Veltroni…?

martedì 3 luglio 2007

Lavori socialmente utili: i «fantasmi» della Pubblica Amministrazione


di Antonio Maglietta - 3 luglio 2007


Il governo di Romano Prodi, con la Finanziaria 2007, ha cercato di conquistare facili consensi attraverso le cosiddette «stabilizzazioni nel pubblico impiego», che avrebbero avuto l'effetto miracoloso di determinare la scomparsa del precariato nella Pubblica Amministrazione, o almeno così è stata venduta mediaticamente l'operazione. Le norme del «miracolo sociale», già alla prima uscita, sono state tacciate come incostituzionali dall'opposizione parlamentare ma, incurante di tutto e di tutti e delle numerose critiche ricevute, il centrosinistra al governo ha deciso di andare diritto per la sua strada.
Addirittura, non contenti, con un disegno di legge varato dal Consiglio dei Ministri del 24 aprile scorso, su proposta del ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale, è stata prevista una modifica alla legge Finanziaria 2007 con la previsione di una maxisanatoria di lavoratori socialmente utili in Calabria. Sanatoria che, stando ai calcoli dello stesso provvedimento, costerebbe 60 milioni di euro per l'anno 2007: onere inopinatamente finanziato da tagli alla spesa destinati alla protezione civile.
Il provvedimento in questione, una vera regalia politica fatta ad uno dei padri nobili del nascente Partito Democratico, il Presidente della Regione Calabria, Agazio Loiero, prevede una modifica (integrativa) all'art. 1, comma 1156, lettera f), della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (legge Finanziaria per l'anno 2007). Si tratta della norma che concede la possibilità per i comuni con meno di 5.000 abitanti, che hanno vuoti in organico, di procedere ad assunzioni di soggetti collocati in attività socialmente utili nel limite massimo complessivo di 2.450 unità. Insomma, è la norma che permette la stabilizzazione degli lsu. Ed è proprio in merito a questi ultimi che vale la pena soffermarsi. Una recentissima sentenza del Consiglio di Stato (SEZ. VI - sentenza 27 giugno 2007 n. 3664 - Pres. Trotta, Est. Cafini - Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca (Avv. Stato Tortora) c. Cutrino ed altri (n.c.) - annulla T.A.R. Puglia - Lecce Sez. II, sent. 19 maggio 2001, n. 2276) ha sancito che (confermando l'orientamento espresso da ultimo anche la sentenza n. 1253/2007): « (...) gli interessati non hanno avuto alcun rapporto di lavoro con lo Stato o con enti locali, ma hanno partecipato soltanto a progetti, predisposti dagli stessi enti locali (nella specie: provincia di Lecce) relativi all'impiego di L .S. U nella scuola e, come tali, inidonei a far instaurare, per espressa disposizione di legge, rapporti di impiego con gli enti locali, anche perché retribuiti dall'INPS attraverso il Fondo Nazionale per l'Occupazione e l'Impiego gestito dal Ministero del Lavoro, né utili a potere incidere sul bilancio o sulla pianta organica degli enti utilizzatori. Pertanto appare evidente nella specie la mancanza in capo ai ricorrenti originari di un requisito essenziale per potere partecipare al concorso di cui trattasi, sicché deve ritenersi correttamente disposta l'impugnata esclusione sul presupposto dell'assenza di un rapporto di pubblico impiego (...). (...) la Sezione ha avuto già occasione di affermare - con giurisprudenza ormai consolidata dalle quale il Collegio non intende discostarsi - che le caratteristiche dei lavori socialmente utili non ne consentono la qualificazione come rapporto di impiego; e ciò per la considerazione che il rapporto dei lavoratori socialmente utili trae origine da motivi assistenziali (rientrando nel quadro dei c.d. ammortizzatori sociali); e riguarda un impegno lavorativo certamente precario; non comporta la cancellazione dalle liste di collocamento; presenta caratteri del tutto peculiari quali l'occupazione per non più di ottanta ore mensili, il compenso orario uguale per tutti (sostitutivo della indennità di disoccupazione) versato dallo Stato e non dal datore di lavoro, la limitazione delle assicurazioni obbligatorie solo a quelle contro gli infortuni e le malattie professionali. (in tal senso Cons. St. VI, 10.3. 2003, n. 1301-1307; 18.3.2003, n. 1424; 17.9. 2003, n. 5278; 31.8.2004 n. 5726)».
In estrema sintesi, alla luce della citata sentenza, un lsu non potrebbe qualificarsi come impiegato pubblico non avendo avuto alcun rapporto di lavoro né con lo Stato né con enti locali.Insomma, è possibile parlare di stabilizzazione con la Finanziaria 2007 se giuridicamente non è mai esistito un rapporto di lavoro? La stabilizzazione prevede, come elemento essenziale, un rapporto di lavoro pregresso ma, in questo caso, è proprio quello che manca. Quindi gli lsu possono essere considerati i fantasmi della Pubblica Amministrazione italiana. Insomma un vero e proprio guazzabuglio giuridico.
Domanda: è la politica del lavoro socialmente utile quella che il centrosinistra vuole attuare in sostituzione della legge Biagi? Una politica che, a partire dal 1997 ed incentivata da ultimo con la Finanziaria 2007, ha prodotto solo un immane spreco di denaro pubblico in cambio di posti di lavoro che addirittura una consolidata giurisprudenza qualifica come precari. Posti di lavoro che, tra le altre cose, non configurano, paradossalmente, neanche un rapporto di lavoro con lo Stato o con gli enti locali. Siamo dinanzi ad una vera e propria farsa con l'aggravante della perseveranza.
Il centrosinistra parla tanto di lotta al precariato ma, stando ai fatti, le forme di lavoro precario sono state avallate (e continuano ad esserle) proprio da loro e quello degli lsu è il caso più eloquente. La legge Biagi, invece, ha avuto il grande merito di mettere delle regole chiare laddove prima c'era solo il far west giuridico. Insomma, la vera lotta al precariato l'ha fatta, con i fatti, il governo Berlusconi. Il governo Prodi, invece, ha dispensato solo guazzabugli giuridici (vedi creazione lsu nel 1997) e, nel migliore dei casi, pure e semplici illusioni (vedi norme Finanziaria 2007 sulle c.d. stabilizzazioni nel pubblico impiego).
Antonio Maglietta

lunedì 2 luglio 2007

Veltroni delude su lavoro e pensioni


di Antonio Maglietta - 28 giugno 2007

E' la lotta alla precarietà la grande frontiera attuale che il Partito democratico ha davanti a sé. Lo ha affermato Walter Veltroni, secondo il quale «è la precarietà, soprattutto la precarietà dei giovani quella che noi dobbiamo combattere. In un tempo fantastico della loro vita - ha detto tra gli applausi dei sostenitori che riecheggiavano nel Lingotto di Torino - a loro viene detto solo di aspettare, aspettare di avere un lavoro serio, un mutuo per la casa. Ma la vita non può essere saltuaria, non può essere part-time. Un imprenditore - ha proseguito - può assumere così all'inizio, ma poi spetta alla comunità rendere certo l'incerto».

E toccando il tema spinoso della riforma del sistema pensionistico: «Serve un nuovo patto generazionale» dal momento che la vita degli italiani si è allungata e dunque occorre garantire che il sistema pensionistico regga. «Lo stato sociale fu pensato per far fronte alle esigenze degli italiani riguardo alla malattia e alla vecchiaia». Quindi Veltroni ha ricordato il discorso del governatore della Banca d'Italia riguardo all'allungamento della vita degli italiani: «E' una buona notizia ma sarà una disgrazia se saremo conservatori pretendendo di far fronte ai problemi con delle vecchie ricette», quindi ha osservato che è necessario «un rinnovato rapporto tra le generazioni che anche oggi deve ispirarsi alla solidarietà ma modificare gli strumenti per attuarla, su questo siamo in ritardo».

Il sindaco di Roma aveva promesso di voler smettere i panni oramai stretti del «buonista» per indossare quelli più consoni di un vero leader decisionista. Insomma, dopo il lancio dello slogan pseudo-buonista I care ci aspettavamo qualcosa di più coraggioso, una sorta di my way chiaro, duro e di parte ma comunque innovativo rispetto ai vecchi schemi, oramai logori, delle «sinistre regressiste» (copyright di Giampaolo Pansa) o di quelle pseudo-riformiste. Ed invece no. La platea politica, dal lato del centrosinistra, si deve accontentare di un più semplice ed opportunistico «un colpo al cerchio ed uno alla botte».

Infatti Walter Veltroni, nella suo personale d-day politico, sul tema del lavoro ha cercato di accontentare la sinistra radicale riproponendo il vecchio schema, oramai superato, secondo cui la flessibilità e il precariato sarebbero sostanzialmente la stessa cosa; dal lato delle pensioni ha rispolverato, invece, la vecchia soluzione buonista del «patto generazionale» riuscendo, da vero equilibrista, a trovare una inutile e qualunquista sintesi tra i moniti di tutte le organizzazioni nazionali ed internazionali, che invitano a mantenere lo «scalone Maroni», ed i dicktat dei sindacati nostrani che chiedono l'esatto contrario.

Il «lavoro» e le «pensioni» sono un terreno politicamente minato. Sono probabilmente i temi più caldi tra quelli storici (in generale lo è il tema del welfare) perché una qualsiasi riforma in quei campi incide direttamente sul quotidiano delle persone e, quando si tocca la quotidianità, la percezione del cambiamento da parte della gente comune è immediata e la reazione talvolta irrazionale. Inoltre stiamo parlando dei due temi «giovani» per eccellenza, ossia di quelle questioni che farebbero risvegliare anche il giovane più svogliato e politicamente distratto. Insomma, si tratta di temi in cui un vero leader decisionista non può tracheggiare o navigare a vista, lanciare il sasso e vedere l'effetto che fa. Veltroni lo ha fatto. Non è stato capace di dare una linea convincente ed innovativa. Un leader che si ispira alla politica statunitense, immolata all'osservanza del dogma del pragmatismo ma anche ad una forte logica decisionista, aveva il dovere di essere più coraggioso.

Le scelte possibili erano due: 1.(modello socialdemocratico europeo) spostare a sinistra la linea politica del nascente Pd, teorizzando un attacco alla flessibilità nel mercato del lavoro e la centralità assoluta del contratto a tempo indeterminato (compreso il primo impiego e le tipologie più dinamiche come, ad esempio, quelle riscontrabili nel settore del turismo o nel lavoro cosiddetto stagionale) e, dal lato delle pensioni, accettare le proposte dei sindacati. 2. (Modello Partito Democratico statunitense) Accettare «la flessibilità» come strumento utile per aumentare il tasso di occupazione, soprattutto tra i giovani, e lanciare una sfida innovativa al centrodestra sul tema dei nuovi ammortizzatori sociali e sulla riforma dello statuto dei lavoratori. Sul lato delle pensioni, invece, tranciare di netto il cordone ombelicale con i sindacati confederali. Niente di tutto questo. Veltroni ha scelto la via mediana e l'attendismo. Una vera delusione.

Antonio Maglietta
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