mercoledì 25 luglio 2007

Gli statali in paradiso


di Antonio Maglietta - 24 luglio 2007

L'articolo 46, comma 3, del decreto legislativo n. 165 del 2001 prevede che l'Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni (ARAN) trasmetta ogni tre mesi al parlamento, al governo ed ai comitati di settore un rapporto sull'andamento delle retribuzioni di fatto dei pubblici dipendenti. Nonostante la specifica previsione di legge, il parlamento non ha ricevuto l'ultimo rapporto del 2006 ed il primo del 2007. Nel frattempo il governo Prodi, calandosi le braghe senza un minimo di resistenza di fronte alle richieste dei sindacati confederali, ha previsto cospicui aumenti nell'ambito delle retribuzioni del settore pubblico, senza la benché minima contropartita. L'occasione poteva essere propizia per cercare di inserire un credibile meccanismo, all'interno delle dinamiche contrattuali, che fosse in grado di legare le retribuzioni alla produttività. A tutt'oggi il rapporto trimestrale non è stato formalmente trasmesso alle Camere, mentre risulta sia stato irritualmente pubblicato, a partire dalla fine del mese di giugno, sul sito internet dell'Agenzia.
Il rapporto, inoltre, non fornisce i dati sull'andamento delle retribuzioni di fatto relative al 2006, nonostante l'Istat, sin dagli inizi di giugno, abbia pubblicato le proprie rilevazioni statistiche in proposito. Bisogna ricordare che l'andamento delle retribuzioni di fatto, che incorporano anche gli aumenti riconosciuti dalle singole Amministrazioni in sede decentrata, rappresenta l'elemento di maggiore criticità del settore pubblico. Inoltre appare grave la divaricazione fra i tassi di aumento retributivo del settore pubblico e quelli del settore privato. La criticità della situazione è stata anche evidenziata di recente dalla Banca Centrale Europea, il cui bollettino economico del giungo 2007 segnala come negli ultimi sette anni l'Italia presenti tassi di aumento della retribuzione pro-capite del settore pubblico (+36%) più che doppi rispetto ai tassi di incremento delle retribuzioni pro-capite del settore privato (+14,8%) e del tutto fuori linea rispetto alla media dei Paesi dell'area della moneta unica europea.
Ora una analisi comparata pubblico-privato basata sui dati relativi ai tassi di assenteismo (secondo il professor Pietro Ichino nel privato sarebbero pari al 4/6% mentre nel pubblico 12/14%) e sui tassi di aumento della retribuzione pro-capite (+14,8% nel privato a dispetto di un ben più cospicuo +36% nel pubblico) sarebbe veramente impietosa e, per alcuni versi, anche ingenerosa nei confronti delle tante eccellenti figure professionali presenti nel pubblico impiego. Tuttavia l'analisi è utile per fare qualche considerazione sull'andamento delle tutele riservate ai lavoratori ed in tal senso è palese che i lavoratori del settore privato godano di minore attenzione rispetto a quelli pubblici. Il nodo centrale è che gli impiegati pubblici, al pari dei pensionati, sono diventati il baluardo del sindacalismo nostrano. Infatti, oramai già da diverso tempo, gli statali sono l'unica categoria «attiva» che associa due aspetti fondamentali del potere contrattuale: la cospicua quantità di tessere sindacali prodotte (cosa che fidelizza il rapporto categoria-sindacato) ed i grandi numeri (gli impiegati pubblici, secondo l'ultimo conto annuale della Ragioneria Generale dello Stato, sono circa 3,5 milioni). E' ovvio che, in un tale quadro, i sindacati confederali tendano a riservare una maggiore attenzione a questa categoria. Le differenze in termini di produttività, tasso di assenteismo, tasso di aumento della retribuzione pro-capite, tra settore pubblico e settore privato, non possono essere ricondotte in toto alla presunta maggiore o minore tutela sindacale, ma è chiaro che l'azione del sindacato incide, e non poco, sui vari indicatori del mondo del lavoro.
Forzando il concetto, si potrebbe arrivare a sostenere che i settori meno sindacalizzati (quelli privati) sono anche quelli maggiormente produttivi. Ma addossare tutta la colpa ai sindacati sarebbe sbagliato. Infatti il loro potere, come dimostrano le ultime vicende in tema di pubblico impiego e pensioni, è indirettamente proporzionale a quello del governo. Più il governo si dimostra incapace di dare una linea politica decisa, più aumenta la capacità di pressione dei sindacati. E' la debolezza politica del governo Prodi il vero problema. Manca una idea guida che ispiri i provvedimenti dell'esecutivo. Ecco quindi che, nel deserto delle idee politiche del centrosinistra, il governo ha pensato bene di attingere da quelle ben più floride dei sindacati. Ecco la risposta ai tanti perché sulle sanatorie nel pubblico impiego, sull'abolizione dello scalone della riforma Maroni e sull'allungamento della lista dei lavori usuranti. Sulla scia del sindacato, il governo Prodi ha individuato la nuova classe sociale di riferimento, quella che nell'immaginario collettivo subentra alle classe operaia (sempre meno numerosa e poco appetibile elettoralmente): gli impiegati pubblici. Gli esclusi sono i giovani e i lavoratori produttivi (anche i tanti presenti nel pubblico impiego).

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