sabato 31 maggio 2008

Contro il «ribellismo» servono un governo forte ed un parlamento unito



di Antonio Maglietta - 31 maggio 2008

Il fenomeno del ribellismo, cioè la tendenza a ribellarsi, sembra aver attanagliato il nostro paese in una morsa che potrebbe diventare letale se lo Stato non sarà in grado di reagire. Secondo l'enciclopedia Rizzoli-Larousse, con il termine «ribellarsi» si intende il «rivoltarsi contro chi ha il potere, contro le autorità. Opporsi con decisione a qualcuno che non si tollera. Ribellarsi alle ingiustizie». Sappiamo che negli ultimi anni sono nati come funghi i «comitati del No»: No Tav, No Ponte, No Dal Molin, ecc... Gruppi di persone unite dal «no» a qualcosa di specifico. Indipendentemente dal merito delle questioni, in generale questi movimenti si sono opposti con decisione a qualcosa che non tolleravano. Nel loro ordine d'idee quelle azioni erano dettate dalla volontà di ribellarsi, a torto o a ragione, a qualcosa che era percepita dagli stessi come un'ingiustizia. Stiamo parlando, quindi, di un sentimento provocato da questioni di carattere locale e lo schema della ribellione è stato in genere sempre lo stesso: decisione dello Stato percepita da alcune persone come un'ingiustizia, nascita di un comitato per riunire le persone che si opponevano a quella particolare ingiustizia e ribellione organizzata dal movimento neo-costituito come risposta alla decisione ingiusta delle istituzioni.

Presto, però, i vari comitati, nati per questioni locali, hanno incominciato ad erigere le loro bandiere «particolari» in ambienti estranei al loro luogo d'origine. Ecco allora comparire le bandiere dei «no» il primo maggio in Piazza San Giovanni a Roma, al concerto organizzato dai sindacati confederali, quelle dei No Ponte e No Dal Molin alle manifestazioni dei No Tav, e viceversa, ed ora, tutti insieme appassionatamente, sono pronti a calare verso il sud, nel quartiere di Chiaiano a Napoli, dove si è aperto un nuovo fronte specifico del «no», quello all'apertura della discarica. Nati come gruppi di persone che si opponevano a decisioni circoscritte delle istituzioni, uscendo dal luogo d'origine, e manifestando in situazioni estranee alle loro problematiche specifiche, questi comitati, volenti o nolenti, si sono trasformati nella spina dorsale di un movimento variegato che riunisce persone anche lontane tra loro dal punto di vista culturale ma, in ogni modo, unite oramai dal «no» alle istituzioni. Si va dal semplice cittadino che aderisce in qualche forma ad uno dei citati comitati fino all'abitante della zona interessata dal problema specifico, dai turisti delle manifestazioni del «no» ai no global e ai centri sociali, dagli ultras in astinenza da rissa da stadio a sbandati, teppisti e criminali di vario genere.

Si tratta di una miscela pericolosissima, un coagulo di persone e interessi uniti dal «no» allo Stato e alle sue decisioni. Non più, quindi, «no» circoscritti, ma «no» in generale a quasi tutto quello che viene percepito da loro come una decisione autoritaria dello Stato, che non terrebbe conto degli interessi del cittadino. Un «no» alle decisioni prese nell'interesse nazionale. In pratica i «movimenti del No», coagulandosi in un movimento variegato, hanno dato vita ad un diffuso ribellismo, comunque organizzato, che non si qualifica più come l'opporsi con decisione a qualcosa che non si tollera a livello locale ma un rivoltarsi, in generale, coscientemente o meno, contro l'autorità e cioè contro lo Stato.

Che cosa bisogna fare dinanzi al ribellismo diffuso? In primis il governo deve dare un segnale forte della sua presenza sul territorio; dare, poi, una risposta al problema specifico e decidere razionalmente nel più breve tempo possibile, senza esitazioni e tentennamenti. Infine tenere duro sulla decisione presa. Ad esempio, per quanto riguarda la questione dei rifiuti in Campania, ha fatto bene il governo Berlusconi a traslocare temporaneamente la sede delle riunioni del Consiglio dei ministri a Napoli. La scelta simbolica è stato anche un segnale chiaro e preciso: qui lo Stato c'è. Ha fatto altresì benissimo a mettere da subito le mani nel problema e ad aver preso in tempi rapidi una decisione razionale.

Ora però dovrà tener duro ma con il supporto di tutti, maggioranza e opposizione. In questo caso, vista la situazione, le decisioni del governo, per risolvere il problema dei rifiuti in Campania, non dovrà essere la scelta di chi ha vinto le elezioni ma la soluzione condivisa da tutto l'arco dei partiti rappresentati in parlamento. La volontà di tener duro e di appoggiare quel provvedimento, che dalla prossima settimana inizierà il suo iter parlamentare per la conversione in legge, dovrà essere necessariamente condivisa da maggioranza e opposizione. Non ci possiamo assolutamente permettere divisioni su questi temi. Se quel provvedimento sui rifiuti passerà velocemente e senza intoppi dalle aule parlamentari, in un clima di condivisione dei contenuti, allora ai protagonisti del ribellismo diffuso arriverà un messaggio molto chiaro: c'è un governo autorevole in grado di decidere in fretta e con raziocinio e che non si fa intimidire dai ricatti; c'è altresì un parlamento forte che sulle questioni essenziali di interesse nazionale non si divide e non offre alcuna sponda ai «comitati del No»; c'è quindi, infine, uno Stato che è in grado di dare risposte ai problemi della gente e che non arretra dinanzi a forme inaccettabili di protesta.

Antonio Maglietta

L’Italia tra i più grandi paesi di immigrazione in Europa

di Antonio Maglietta - 31 maggio 2008

I cittadini stranieri residenti in Italia sono 3,5 milioni (il 5,8 % del totale dei residenti mentre, secondo il XVII Rapporto sull’immigrazione - Dossier Statistico Migrantes-Caritas 2007 – l’incidenza sarebbe del 6,2 %), secondo le stime riferite al primo gennaio 2008. E' quanto emerge dal rapporto annuale (2007) sulla situazione del Paese realizzato dall'Istat e presentato mercoledì scorso a Montecitorio
Nel 2007 si è assistito a un "consistente incremento", sottolinea l'Istat, grazie ad un saldo migratorio con l'estero stimato in oltre 454.000 unità, il valore più alto finora registrato nel nostro Paese. I cittadini rumeni sono aumentati di quasi 300.000 unità nel 2007. Poco meno della metà degli stranieri residenti è assorbita da cinque differenti cittadinanze: Romania (circa 640.000), Albania (oltre 400.000), Marocco (circa 370.000), Cina (circa 160.000) e Ucraina (135.000).
I dati riferiti ai permessi di soggiorno segnalano che, nel periodo 2004-2007, l'incremento della presenza straniera regolare è dovuto prevalentemente ai flussi di ingresso per ricongiungimento familiare (+164.000 per le donne e +54.000 per gli uomini). I permessi di soggiorno concessi per motivi di famiglia sono cresciuti dal 14,2 % del 1992 al 31,6 %del 2007. Sono soprattutto le mogli di immigrati già regolarmente presenti, insieme ai loro figli adolescenti, a fare ingresso nel nostro Paese. I maggiori flussi provengono dall'Europa centro-orientale, in particolare dall'Albania, dai paesi dell'ex Jugoslavia e dalla Romania.
Accanto alle famiglie ricongiunte, aumentano i matrimoni, con almeno uno sposo straniero, celebrati in Italia: oltre 34.000 nel 2006, pari al 14 % del totale dei matrimoni.
Gli stranieri residenti sono prevalentemente giovani: 1/5 è minorenne e la metà di loro ha un’età compresa tra 18 e 39 anni. Risiedono prevalentemente nelle regioni del Nord e del Centro del Paese: il 36,3% nel Nord-ovest, il 27,3% nel Nord-est, il 24,8% nel Centro e l'11,65% nel Sud. Uno straniero su quattro è residente in Lombardia, mentre incidenze superiori al 10% sul totale dei residenti si registrano in Veneto, Emilia-Romagna e Lazio.
Sottolinea, inoltre, l’Istat: “Negli ultimi anni è in aumento il contributo degli stranieri alla criminalità, sia in ragione dell’incremento del numero complessivo di stranieri residenti nel Paese, sia in riferimento alla presenza degli irregolari. Gli stranieri denunciati nel 2006 sono stati oltre 100 mila. La quota degli stranieri sul totale dei denunciati varia però molto in base al tipo di reato commesso. Secondo i dati forniti dal Ministero dell’interno la quota di stranieri è minima nel caso delle rapine in banca o presso gli uffici postali (rispettivamente 3 e 6 per cento) e molto elevata nel caso dei borseggi (furto con destrezza), praticati in sette casi su dieci da uno straniero. Quanto ai reati violenti, un terzo è compiuto da stranieri: si va dal 39 per cento dei denunciati per violenze sessuali al 36 per cento degli omicidi consumati e al 27 per cento dei denunciati per lesioni dolose. Il tasso di devianza degli stranieri deve però essere messo in relazione al possesso o meno di un permesso di soggiorno valido. Infatti, sul totale dei denunciati nel 2006, la quota di stranieri in regola con il permesso di soggiorno è del 6 per cento, di poco superiore all’incidenza complessiva degli stranieri in regola sul totale della popolazione residente (4,1 per cento al 31 dicembre 2006). Pertanto, la propensione a delinquere degli stranieri regolari è di poco superiore a quella della popolazione italiana; del resto la quota di stranieri regolari denunciati sul totale degli stranieri regolari in Italia si ferma al 2 per cento circa. È soprattutto alla componente irregolare che va attribuita una quota significativa di reati denunciati. Nei reati presi in considerazione, le persone senza permesso di soggiorno sono sempre la maggioranza del totale degli stranieri denunciati, pur in presenza di forti differenze fra i reati”.
Questi ultimi dati, comunque, non fanno che confermare quanto era già emerso con chiarezza in precedenza da tutti gli altri studi condotti in materia.
Occorrono alcune brevi considerazioni. Il tasso di incidenza della popolazione stranera in Italia è tra i più alti in Europa (siamo sopra la media Ue che è del 5,6%) e il nostro Paese si colloca , insieme alla Spagna, subito dopo la Germania, tra i più grandi paesi di immigrazione dell’Unione Europea (dato già segnalato lo scorso anno nel XVII Rapporto sull’immigrazione - Dossier Statistico Migrantes-Caritas 2007). Vista la particolare posizione geografica dei due paesi, non è un caso che entrambi registrino questo primato. Alla luce di questo dato trova fondamento la risposta più lapalissiana al perché alcuni esponenti del governo spagnolo abbiano criticato la nostra politica in materia di immigrazione. Una legislazione italiana severa e razionale in materia cambierebbe le rotte dell’immigrazione in direzione della penisola iberica ed il governo spagnolo si troverebbe dinanzi al problema di dover gestire una situazione francamente difficile indurendo ancor di più leggi, controlli e atteggiamenti.
Altra considerazione da fare è che oramai l’Italia non è più un paese di passaggio per gli immigrati ma un luogo dove mettere radici. Non si spiega altrimenti il dato dell’incidenza degli stranieri sul totale dei residenti, che in Italia registra tassi superiori rispetto a paesi ben più abituati di noi all’immigrazione di massa, come ad esempio la Francia e la Gran Bretagna, e quello sull’aumento dei permessi di soggiorno per motivi di famiglia, divenuti oramai quasi un terzo di quelli rilasciati (la loro incidenza sul totale dei permessi rilasciati è più che raddoppiata nel corso degli ultimi 15 anni). In quest’ottica occorre definire in maniera precisa diritti e doveri dei soggiornanti di lungo periodo, e cioè quei soggetti che una direttiva europea (2003/109/CE del Consiglio del 25 novembre 2003, art. 4, comma 1) qualifica come cittadini di paesi terzi (extraeuropei) che hanno soggiornato legalmente e ininterrottamente per cinque anni sul territorio dello Stato. Senza dimenticare, inoltre, che in genere i soggiornanti di lungo periodo tendono all’acquisizione della cittadinanza anche se in Italia, dati alla mano, non sembra essere così. In base ai dati disponibili di fonte Ministero dell'Interno, sono 215.000 (su una potenziale platea di circa 700.000 aventi diritto alla richiesta) i cittadini stranieri che fino al 2006 hanno ottenuto la cittadinanza italiana. La maggior parte delle acquisizioni di cittadinanza italiana avviene per matrimonio, come confermato anche dall’ultimo dato dell’Istat che segnala che i matrimoni con almeno uno degli sposi straniero sono il 14% del totale di quelli celebrati in Italia. Le concessioni della cittadinanza italiana per naturalizzazione, invece, sono ancora poco frequenti, specialmente se confrontate con il bacino degli stranieri potenzialmente in possesso del requisito principale e cioè la residenza continuativa per 10 anni. Più di uno straniero su quattro (26,2%) è regolarmente presente in Italia da oltre un decennio e quindi potrebbe essere in possesso del requisito della residenza continuativa. Gli stranieri con regolare permesso di soggiorno che vivono da 5 anni nel nostro Paese rappresentano, invece, il 50,5% del totale degli stranieri residenti in Italia (Istat: La popolazione straniera residente in Italia, 2 ottobre 2007).
Nessun intento polemico ma non può non essere rilevato, infine, che nel 2007, con il governo di centrosinistra, c’è stato il più alto saldo migratorio con l'estero (+ 454.000 unità) che si sia mai registrato nel nostro Paese, più che doppio di quello osservato nel 2006 (oltre 220.000 unità) e nel 2005 (oltre 250.000 unità).

martedì 27 maggio 2008

Pubblica Amministrazione: agire in una doppia direzione


di Antonio Maglietta - 27 maggio 2008

Fino a poco tempo fa, noi poveri cittadini eravamo abituati agli annunci roboanti dei ministri che si risolvevano miseramente in un nulla di fatto. Per carità, quasi sempre si trattava comunque di buoni propositi che poi però si scontravano con una serie di difficoltà reali. Lo schema era sempre lo stesso: il Ministro, all'inizio del mandato, elencava una serie di interventi per la modernizzazione del settore di competenza, seguiva un periodo di stasi dove le dichiarazioni sul «cosa fare» restavano sempre all'ordine del giorno mentre venivano a mancare clamorosamente quelle sul «cosa abbiamo fatto». Alla fine, però, ci si ritrovava sempre con un pugno di mosche in mano sul versante del «cosa abbiamo fatto» e, come contraltare, invece, con una clamorosa inflazione nelle dichiarazioni sul «cosa avremmo potuto fare ma non abbiamo fatto perché». Un vero e proprio fiume di parole che invadeva i media e le case degli italiani ma che alla fine dei conti non portavano ad alcuna azione concreta. Parole al vento.

Con l'avvento del nuovo governo il cambio di passo è stato evidente; poche chiacchiere e largo, invece, ai fatti e agli atti con raziocinio: prima la gestione e la risoluzione delle emergenze come i rifiuti, la sicurezza ed il lavoro e poi il resto. Nel resto, ma non per questo non indicata come una priorità per la modernizzazione del paese, ci sono gli interventi nell'ambito del pubblico impiego.

Finalmente, grazie al Ministro Renato Brunetta (http://www.innovazionepa.gov.it/ministro/ministrobrunetta/biografia.htm), qualcosa incomincia a muoversi. E' stato infatti un segnale importante la pubblicazione, sul sito del Ministero per la Pubblica Amministrazione e l'Innovazione della retribuzione dei dirigenti della PA e dei tassi di assenza registrati nei Dipartimenti e nelle strutture collegate al Ministero. Un'operazione trasparenza che denota la volontà di creare uno spirito nuovo nelle relazioni tra Pa e cittadini partendo proprio sulla ricostruzione di quel rapporto che sembra essersi incrinato a causa di alcune criticità rilevate nell'ambito delle dinamiche relative all'attività della Pubblica Amministrazione.

Secondo il Dossier Cittadinanzattiva sul rapporto tra cittadini e P.A (presentato il 13 maggio scorso a Roma al convegno del Forum PA «Semplificazione e qualità della pubblica amministrazione: fatti, distanze e proposte», l'elemento caratterizzante della P.A. in Italia è la mancata risposta alle richieste di informazioni: che si tratti di ricevere un rimborso dal fisco, contestare una multa o chiedere un permesso di soggiorno poco cambia, il cittadino ha difficoltà a reperire le informazioni necessarie. Per ricevere, magari, cartelle pazze o informazioni che non richiede, come dimostra la vicenda delle dichiarazioni dei redditi online di questi giorni, esempio emblematico dello stato confusionale in cui versa la Pubblica Amministrazione italiana. Il risultato? Peggiorano nettamente i rapporti tra cittadini e P.A., sia a livello di amministrazione centrale che locale: nel 2007, su 100 lamentele in tema di servizi di pubblica utilità, il 21% riguardano la P.A. a fronte del 12% registrato nel 2006 e del 17% registrato nel 2005. A determinare questa inversione del trend, con un incremento di lamentele del 9% rispetto ad un anno fa, le frequenti violazioni del diritto all'informazione (riscontrate nel 31% dei casi) alla tutela (28%) e a servizi di qualità (20%). Seguono, violazioni del diritto alla trasparenza e alla sicurezza (6% ciascuno).

Bisogna, quindi, agire in una doppia direzione, fermo restando che sarà un lavoro duro e che non esistono bacchette magiche: ricostruire in maniera virtuosa gli ingranaggi dell'apparato statale, con un meccanismo meritocratico (anche salariale) in cui siano chiare e ben definite responsabilità e competenze e cercare di creare un clima di fiducia nell'opinione pubblica nei confronti della macchina statale e dei suoi dipendenti, con operazioni di trasparenza (come ad esempio potrebbe essere banalmente rispondere alle richieste informazioni) ed un lavoro efficiente nei confronti delle esigenze di cittadini ed imprese.

Antonio Maglietta

lunedì 26 maggio 2008

Mercato globale e qualità del lavoro



di Antonio Maglietta - 25 maggio 2008

«Il concetto di mercato del lavoro è utilizzato abitualmente per indicare i meccanismi che regolano l'incontro tra posti di lavoro vacanti e persone in cerca di occupazione e determinano i salari pagati dalle imprese ai lavoratori. È il contesto all'interno del quale avviene la compravendita della merce comunemente nota come forza lavoro, ovvero la capacità lavorativa» (fonte: Wikipedia). Quindi il numero delle persone in cerca di occupazione incide sulla determinazione del salario. In linea di principio, più sono le persone in cerca di lavoro, più aumenta la concorrenza tra i lavoratori e più aumenta il potere contrattuale delle imprese e di conseguenza diminuisce il salario pagato ai lavoratori. La diminuzione del salario aumenta la competitività delle imprese sul mercato perché abbatte i costi. Nel mercato globale, infatti, un'impresa può decidere di competere in due modi: o con l'efficienza e la qualità del lavoro, che si aumenta con la formazione professionale e una buona scolarizzazione, unita alla ricerca sui prodotti e sui mezzi di produzione, il che comporta comunque investimenti per l'imprenditore, oppure, nella fascia medio-bassa del mercato, con prodotti o servizi offerti ai prezzi più bassi possibili, frutto dei bassi salari pagati ai lavoratori. Generalmente, il primo modello competitivo è quello in auge nei paesi occidentali, mentre il secondo è quello classico dei paesi in via di sviluppo.

Secondo l'Eurispes «il recupero di competitività in atto del sistema produttivo italiano ha il suo tallone d'Achille nel ristagno della produttività, che è rimasta ferma al livello di dieci anni fa a fronte di incrementi del 15% in Germania e dell'11% in Francia. Non è quindi imputabile all'aumento del costo del lavoro per occupato, che nell'arco dell'ultimo decennio è mediamente diminuito del 2% in termini reali. Il divario in termini di produttività, unitamente alla maggiore inflazione, ha comportato per l'Italia un aumento del costo del lavoro per unità di prodotto superiore di 11 punti alla Francia e di quasi 30 alla Germania. La condizione più importante per tornare a crescere è l'aumento della qualità del fattore lavoro. Lo sviluppo del capitale umano quale risultante dell'istruzione, della formazione continua e dell'arricchimento professionale nel lavoro è una determinante fondamentale per la crescita del paese. Il livello medio di istruzione in Italia è invece sistematicamente inferiore a quello europeo e ancor di più a quello degli Stati Uniti, anche se negli ultimi anni il divario ha iniziato a restringersi. Ciononostante, un'ampia percentuale di occupati (16,5%), soprattutto giovani, appare sottoinquadrata». Insomma, sembra chiaro che, in generale, il sistema Italia, almeno fino ad ora, non si è certo contraddistinto per la ricerca di una sempre maggiore competitività sul mercato globale attraverso alti livelli di scolarizzazione e formazione professionale continua.

E allora, su quale modello competitivo abbiamo puntato, fatto salvo alcune eccellenze imprenditoriali che tutto il mondo ci invidia? Scorrendo il Rapporto Italia 2008 dell'Eurispes («Nel nostro paese oltre 20 milioni di lavoratori sono sottopagati e, coeteris paribus, i salari sono inferiori del 10% rispetto alla Germania, del 20% rispetto al Regno Unito e del 25% rispetto alla Francia») ci accorgiamo che il modello a cui ci si siamo affidati per essere competitivi sul mercato globale è quello dei paesi in via di sviluppo, dove la dinamica salariale è usata per abbattere i costi. Una forte ondata di immigrati, con basse qualifiche professionali, può incidere sul mercato del lavoro, facendo aumentare in maniera esponenziale l'offerta di manodopera a basso costo, dando maggior potere contrattuale alle imprese e di conseguenza portare ad un abbassamento delle retribuzioni salariali? La risposta non può che essere affermativa. A questo si aggiunge poi anche la piaga endemica del lavoro sommerso di italiani, stranieri regolari e clandestini, per un flusso di denaro pari a 300 miliardi di euro (fonte: Eurispes). Il solo lavoro sommerso degli immigrati clandestini, che secondo l'Eurispes sono 800.000, genera un flusso di denaro pari a 24 miliardi di euro l'anno.

Insomma, sembra che il nostro sistema-paese, salvo alcune eccellenze, per essere competitivo punti, quando va bene, sui bassi salari anziché sulla qualità del lavoro. Ma allora possiamo definirci un paese a tutti gli effetti occidentale o dobbiamo pensare che siamo la periferia non solo geografica dell'Eden industrializzato? Se continueremo come sistema-Paese ad usare le dinamiche salariali (o peggio il lavoro sommerso) per abbattere i costi ed essere competitivi non potremo che limitarci ad essere la frontiera poco sviluppata dell'Occidente industrializzato, in perenne chiaroscuro. Ma siamo in grado di rispondere alle sfide del mercato globale con gli strumenti propri dei maggiori paesi industrializzati? La risposta è sicuramente affermativa e lo dimostra l'intervento del governo sulle dinamiche salariali, con la possibilità di utilizzare flessibilmente i 3000 euro detassati tra premi e straordinari, e la stretta sui clandestini. Decisioni chiare e precise che dimostrano non solo che finalmente torna a farsi sentire la voce delle istituzioni, ma anche che lo scopo perseguito è quello di migliorare la qualità del lavoro sul fronte della produttività e non quello di puntare ad aumentare l'offerta di lavoro (con flussi incontrollati di manodopera straniera a basso costo e con basse qualifiche) per incidere negativamente sulle dinamiche salariali ed abbattere i costi.

Già questi primi passi sono importantissimi e speriamo che ne arrivino molti altri in tutti i campi che incidono sulla qualità del lavoro: scolarizzazione, formazione professionale continua, incentivi all'emersione del lavoro sommerso e controlli per verificare il rispetto delle norme (anche sulla salute dei lavoratori e non solo sulla regolarità del rapporto di lavoro).

Antonio Maglietta

venerdì 23 maggio 2008

Immigrazione: perché la Spagna si interessa ai nostri problemi?



di Antonio Maglietta - 22 maggio 2008

«Essere straniero in Italia sarà molto, molto meno facile che essere italiano». Lo scrive Miguel Mora, il corrispondente dall'Italia del quotidiano spagnolo El Pais, commentando il pacchetto sicurezza: «Il governo - scrive - ha presentato il suo promesso giro di vite, una compagine di misure durissime. Si potrebbe dire che la maggioranza dei provvedimenti, più che per garantire la sicurezza, siano stati disegnati per espellere immediatamente dall' Italia i rumeni e i rom». Duro l'attacco che il giornalista riserva al ministro dell'Interno Roberto Maroni: «Vende il "prodotto" in maniera caotica, senza perdersi in dettagli, mescolando misure giuridiche, politiche, riguardanti le forze dell' ordine. Però quello che si nasconde dietro la presentazione è una normativa sull'immigrazione davvero inedita per la sua durezza» laddove «gli slogan xenofobi che hanno alimentato la campagna elettorale della Lega Nord e del Pdl sono stati scritti nero su bianco. E adesso sono "legge": "Gli italiani vogliono sicurezza", "fuori gli accampamenti rom», "caccia i rumeni, vengono a rubare"». «La normativa - si legge - stabilisce molti doveri e nessun diritto per gli immigrati. Né una parola sugli attacchi razzisti agli accampamenti rom».

L'attacco del quotidiano spagnolo arriva dopo le gaffe di alcuni autorevoli componenti del governo di Zapatero che, in modo del tutto gratuito e senza alcun motivo, avevano attaccato le nuove norme previste dal pacchetto sicurezza dell'esecutivo italiano. Bene hanno fatto a rispondere, in maniera pacata ma decisa, i ministri Maroni e Frattini, tanto che lo stesso ministro degli esteri spagnolo ha chiamato nei giorni scorsi il collega della Farnesina per manifestargli tutto il suo «rammarico» per gli attacchi «individuali» sferrati contro Roma da alcuni membri del suo governo.

Gli attacchi sulla presunta durezza oltre i limiti del consentito, poi, sembrano davvero paradossali perché arrivano da esponenti di un governo non certo tenero con i clandestini. Ricordiamo, infatti, che solo tre anni fa, a Ceuta, la piccola enclave spagnola in Marocco, circa cinquecento clandestini cercarono di passare la frontiera per entrare nel territorio spagnolo, ma quattro morirono e 45 rimasero feriti nella calca che si era creata per superare gli sbarramenti che separano i due Paesi: non certo aiuole o prati di fiori ma vere e proprie fortificazioni con barriere e filo spinato. Il tutto condito da un giallo sui presunti spari delle guardie spagnole sui clandestini. Per non parlare, poi, della prolusione di aprile di Zapatero davanti al Parlamento spagnolo, dove il primo ministro parlò di «promuovere formule nuove che incentivino gli immigrati, che potranno perdere il loro lavoro nei prossimi mesi, a tornare al loro paese per sviluppare definitivamente lì la loro vita» o del passaggio, sempre nel corso della sua esposizione programmatica, in cui affermava perentoriamente lo stretto legame tra immigrazione regolare e lavoro: «En mi idea de España la inmigración regulada y ordenada es una oportunidad. Por eso, desde 2004 definimos como elemento clave en la política migratoria la relación laboral, el trabajo. Es el trabajo lo que posibilita la integración del inmigrante, lo que le permite convertirse en un componente más de una colectividad provista de derechos y de obligaciones».

Secondo alcuni commentatori, gli attacchi al governo italiano rientrano in una strategia dell'esecutivo di centrosinistra spagnolo per coprirsi sul versante sinistro dello schieramento, dopo le scelte neoliberiste in economia e molto dure sul fronte della regolamentazione degli ingressi degli stranieri. E' una ipotesi plausibile ma forse non è la principale. Con tutta probabilità gli spagnoli hanno paura che le rotte dell'immigrazione di massa cambino in direzione delle loro coste. L'Italia non più ventre dell'immigrazione clandestina porterebbe a disegnare nuove direttrici nel Mediterraneo e se queste dovessero interessare la Spagna, il governo di Madrid sarebbe costretto ad essere ancora più duro nei confronti dei clandestini, sia nel respingimento alle frontiere che nel controllo del territorio all'interno.

Antonio Maglietta

mercoledì 21 maggio 2008

Le nuove generazioni di immigrati



di Antonio Maglietta - 21 maggio 2008

Secondo Stefano Molina e Maurizio Ambrosiani, autori del libro Seconde generazioni. Un'introduzione al futuro dell'immigrazione in Italia (2004), i bambini e i ragazzi nati qui da stranieri o arrivati quando erano molto piccoli sono circa 400.000, con la previsione di arrivare ad un milione nell'arco di 10 anni. Le seconde generazioni nate dall'immigrazione sono in Italia prevalentemente composte da giovani e giovanissimi. Una fascia di età libera da sedimentazioni culturali e, quindi, almeno in linea teorica, priva di quei preconcetti che rendono ancora più duro l'adattamento ad una realtà diversa da quella a cui si era abituati. Il passaggio all'età adulta, unita alla scolarizzazione, accrescerà la loro rilevanza sul piano sociale, culturale, economico e, quindi, gioco-forza anche su quello politico. Sono necessariamente destinati a divenire parte integrante dei processi di crescita e sviluppo della nazione. Sono i figli delle ondate migratorie che hanno interessato il nostro Paese, soprattutto dall'inizio degli anni '90, e che oggi si trovano ad affrontare una quotidianità bicefala, dove nelle case si vive secondo gli usi dei luoghi di provenienza dei padri e fuori all'italiana. Vecchie e nuove appartenenze che si incontrano e scontrano e dove spesso a farla da padrone è l'incertezza e l'inquietudine, nel tentativo cosciente o meno di cercare una propria dimensione identitaria all'interno di questi mondi che spesso sono molto distanti tra loro.

Nel libro Prove di seconde generazioni. Giovani di origine immigrata tra scuole e spazi urbani (2006), l'autore Queirolo Palmas pone l'accento sull'autonomia espressa dai giovani immigrati, rispetto ai percorsi seguiti dai padri, nella scuola, nella strada, nello stile, nell'estetica del vestiario, nel linguaggio e, quindi, in generale nel modello di integrazione. In Pecore nere. Racconti (2005), a cura di Flavia Capitani e Emanuele Coen, si narrano otto storie di vita vissuta di figlie di immigrati, nate o cresciute in Italia, dove le protagoniste raccontano della loro identità divisa tra vecchie e nuove appartenenze. I loro percorsi integrativi, per diverse ragioni, non potranno che essere diversi rispetto a quelli seguiti dai genitori. Infatti per chi viene già adulto nel nostro Paese i problemi sono di natura essenzialmente pratica e relativi a questioni legate al lavoro, alla vita domestica, all'uso dei servizi sociali e degli spazi urbani (vedi Sciortino G., Colombo A., Stranieri in Italia. Un'immigrazione normale, 2003).

Per i giovani immigrati i problemi sono altri e riguardano più specificatamente la loro identità. I dubbi sono innanzitutto sul «chi sono» e non essenzialmente sul «come vivere la quotidianità». C'è dunque bisogno di altri schemi interpretativi dell'immigrazione che non ripropongano vecchi strumenti di integrazione e vetuste formule di accettazione del diverso ma percorsi e strumenti innovativi. In Appartenenze multiple. L'esperienza dell'immigrazione nelle nuove generazioni (2006), Valtolina e Marazzi sottolineano come l'affacciarsi nella società delle seconde generazioni di immigrati segna un duplice momento cruciale per una nazione: quello di capire quali possono essere le giuste modalità per gestire in maniera equilibrata i rapporti interetnici e se gli strumenti a disposizione per l'integrazione degli stranieri sono quelli idonei a risolvere eventuali problemi. In quest'ottica diventa fondamentale capire il ruolo della scuola e degli enti locali, che sono indubbiamente i luoghi istituzionali attraverso i quali deve necessariamente passare qualsiasi azione in materia di integrazione dei giovani stranieri. Un interessante libro di qualche anno fa, Come un pesce fuor d'acqua. Il disagio nascosto dei bambini e dei ragazzi immigrati (2002), segnalava l'importanza dell'educatore, sia dal punto di vista didattico che umano, nel capire i sentimenti e i segnali delle sofferenze piccole e grandi dei giovani stranieri, ognuno con il proprio disorientamento, con le proprie scoperte, illusioni, speranze, timori e sogni.

Ma il luogo fisico dello sviluppo di una propria identità culturale non può essere solo la scuola, spesso appesantita da tante responsabilità che rendono inefficace qualsiasi sua azione. Anche le strade e i quartieri delle nostre città sono molto importanti perché le cittadelle identitarie, che sorgono all'interno delle metropoli, dove spesso vivono concentrate la maggior parte delle persone della stessa nazionalità (la più famosa è la chinatown), rischiano di essere un ostacolo all'integrazione dei giovani stranieri, come dimostra il fallimento delle politiche sull'immigrazione dei maggiori paesi occidentali in cui questo fenomeno ha assunto rilevanza. A riguardo diventa fondamentale l'azione degli enti locali sul fronte del rispetto delle regole in modo da dare comunque il segnale che quelle strade e quei palazzi non sono l'ambasciata del paese di origine ma territorio nazionale del paese ospitante.

Secondo l'Enciclopedia Treccani, con la parola integrazione si intende in senso generico il fatto di integrare, di rendere intero, pieno, perfetto ciò che è incompleto o insufficiente a un determinato scopo, aggiungendo quanto è necessario o supplendo al difetto con mezzi opportuni. Ecco allora che il nostro compito è innanzitutto quello di capire quale è lo scopo delle nostre azioni in materia e se i mezzi a disposizione sono idonei a raggiungerlo. Allora qui il la questione non è quella di ridurre i tempi per l'acquisizione della cittadinanza o di introdurre lo ius soli nel nostro ordineamento (diritto di diventare cittadini per il solo fatto di essere nati in Italia), perché un giovane si sente cittadino del paese in cui vive solo se la permanenza su quel territorio è stanziale e continuativa e non per il solo fatto di esserci nato per poi magari vivere per il resto della propria vita in un altro paese. Il dato da introdurre nel tema è quello, invece, di dare centralità alla scuola e agli enti locali nella gestione dei processi integrativi. Le nuove generazioni di immigrati possono essere una risorsa per la crescita del paese solo se tutti insieme, istituzioni, noi giovani cittadini italiani e loro giovani futuri cittadini italiani, sapremo cogliere questa opportunità.

Antonio Maglietta

lunedì 19 maggio 2008

Il Governo ha tutto il diritto-dovere di essere duro in materia di immigrazione

di Antonio Maglietta – 19 maggio 2008

Il 7 maggio scorso (sentenza 148/2008) la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dell'art. 4, comma 3, e dell'art. 5, comma 5, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), nel testo risultante a seguito delle modifiche di cui alla legge 30 luglio 2002, n. 189 (legge c.d. Bossi-Fini), sollevata, in riferimento agli articoli 2, 3, 24 e 97 della Costituzione, dal Tar della Lombardia, nel corso di un giudizio avente ad oggetto l'annullamento di un provvedimento del Questore di Milano, notificato il 5 maggio 2006, con il quale era stato rifiutato il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro di un cittadino marocchino con precedenti penali.
Il ricorrente aveva presentato domanda per il rinnovo del permesso di soggiorno e il Questore di Milano, con il provvedimento impugnato, l'aveva respinta perché a carico dell'istante risultava una condanna (a mesi otto di reclusione ed euro 2000 di multa) irrogata, con sentenza del 21 marzo 2004, a seguito di patteggiamento e con sospensione condizionale della pena, per il reato in materia di stupefacenti di cui all'art. 73, comma 5, del D.P.R. n. 309 del 1990.
Con il ricorso l'interessato ha sostenuto l'illegittimità del suddetto provvedimento, contestando l'automatismo applicato dall'amministrazione nel ritenere sussistente la pericolosità sociale senza una puntuale motivazione al riguardo, svolta sulla base di una adeguata istruttoria riguardante la complessiva personalità del soggetto.
La Corte Costituzionale, nella sentenza ha sostenuto che:
Si premette che la principale norma concernente la condizione giuridica dello straniero – attualmente, extracomunitario – è quella dell'art. 10, comma secondo, Cost., la quale stabilisce che essa «è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali».
Da tale disposizione si può desumere, da un lato, che, per quanto concerne l'ingresso e la circolazione nel territorio nazionale (art. 16 Cost.), la situazione dello straniero non è uguale a quella dei cittadini, dall'altro, che il legislatore, nelle sue scelte, incontra anzitutto i limiti derivanti dalle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute ed eventualmente dei trattati internazionali applicabili ai singoli casi.
Occorre, inoltre, rilevare che lo straniero è anche titolare di tutti i diritti fondamentali che la Costituzione riconosce spettanti alla persona (si vedano, per tutte, le sentenze n. 203 del 1997, n. 252 del 2001, n. 432 del 2005 e n. 324 del 2006).
In particolare, per quanto qui interessa, ciò comporta il rispetto, da parte del legislatore, del canone della ragionevolezza, espressione del principio di eguaglianza, che, in linea generale, informa il godimento di tutte le posizioni soggettive.
Peraltro, come questa Corte ha più volte affermato, «la regolamentazione dell'ingresso e del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale è collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici, quali, ad esempio, la sicurezza e la sanità pubblica, l'ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in tema di immigrazione e tale ponderazione spetta in via primaria al legislatore ordinario, il quale possiede in materia un'ampia discrezionalità, limitata, sotto il profilo della conformità a Costituzione, soltanto dal vincolo che le sue scelte non risultino manifestamente irragionevoli» (si vedano, per tutte, la sentenza n. 206 del 2006 e, da ultimo, l'ordinanza n. 361 del 2007).
In pratica la Corte ha evidenziato che le norme sull’immigrazione rispondono ad una serie di interessi, tra cui la politica nazionale in tema di immigrazione, la cui ponderazione spetta al Legislatore ordinario e che, fatto salvo il rispetto dei trattati internazionali e delle disposizioni costituzionali sui diritti fondamentali della persona, è possibile mettere tutti paletti che si ritengono ragionevolmente opportuni per meglio regolare la materia. La sentenza è molto importante perché è bene ricordare che, alla luce delle polemiche sollevate dall’opposizione (anche extraparlamentare) sulla presunta durezza del pacchetto sicurezza, che sarà presentato a breve dal governo Berlusconi, e sulla non opportunità di presentare un testo “forte” in materia, quel provvedimento avrà le sue radici nel programma elettorale che, in virtù del risultato dato dalle urne, oggi rappresenta l’espressione della politica nazionale in materia. Il governo, quindi, non ha solo il potere ma ha anche tutto il diritto-dovere di presentare un pacchetto di norme coerenti con i contenuti del suo programma elettorale visto che è la stessa Corte Costituzionale ad annoverare la politica nazionale in tema di immigrazione tra i vari interessi pubblici da ponderare e, quindi, da tenere ben presenti al momento del varo delle disposizioni.

venerdì 16 maggio 2008

In arrivo nuove regole sull’immigrazione

di Antonio Maglietta – 16 maggio 2008

Entrerà in vigore dal 19 maggio prossimo il nuovo regolamento comunitario (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Comunità europea il 29 aprile scorso) che innova il modello di permesso di soggiorno per i cittadini extracomunitari in vigore in tutti i Paesi membri, con il quale è consentita la libera circolazione in ambito Ue.
In sostanza i futuri permessi diventano 'biometrici', ovvero dovranno riportare i rilievi dei tratti caratteristici del viso, non camuffabili, e impronte del titolare, anche dei minori sopra i sei anni di età, il tutto grazie ad un microchip che dovrà contenere le impronte di due dita e una 'fotografia' del volto dell'intestatario, con l'obiettivo di ridurre i rischi di contraffazione del documento e quindi contrastare l'immigrazione clandestina e il soggiorno irregolare.
La normativa, che aggiorna quella in vigore che aveva introdotto il permesso di soggiorno elettronico, dovrebbe consentire una più efficace condivisione di informazioni sui visti tra i Paesi Ue nell'ambito del sistema Schengen e ricalca, in materia di rilievi biometrici, le caratteristiche del modello di passaporto in adozione da parte delle nazioni dell'Unione.
Il nuovo permesso di soggiorno dovrà essere distinto dal documento di identità, ed il suo modello è 'elastico', nel senso che se la Ue indica il minimo degli elementi biometrici che dovrà contenere non ne indica però il massimo e, quindi, i governi nazionali avranno la possibilità di inserire anche altri dati aggiuntivi nel microchip.
Fra gli effetti collaterali del nuovo regolamento il probabile allungamento dei tempi di concessione materiale del documento. Quanto al capitolo privacy, il nuovo regolamento consente agli Stati di immagazzinare ed utilizzare i dati del permesso di soggiorno anche per servizi telematici come l'accesso on-line a prestazioni della pubblica amministrazione, purché trasferiti in un diverso microchip.
In Italia, invece, il pacchetto sicurezza, già annunciato dal nuovo ministro dell'interno Roberto Maroni, dovrebbe introdurre il reato di immigrazione clandestina, nonché prevedere il blocco del trattato di Shengen contro rom e rumeni. E ancora rigidi pattugliamenti per contrastare gli sbarchi, permanenza nei Cpt fino a 18 mesi, invece degli attuali 60 giorni, smantellamento definitivo dei campi rom abusivi, inasprimento sulle richieste di asilo e sui ricongiungimenti familiari, permessi di soggiorno solo a chi garantisce un reddito di sussistenza. Tra le novità contenute nel testo, che l'esecutivo dovrebbe approvare durante il prossimo Consiglio dei ministri, anche quella di trasformare i Cpt in centri di detenzione temporanea, per evitare di far scoppiare le carceri. Gli stranieri, arrivati senza permesso, dovrebbero essere rinchiusi nelle strutture finora utilizzate per la prima accoglienza, in attesa del processo che dovrà essere celebrato con rito direttissimo e dell’espulsione con accompagnamento alla frontiera.
E’ evidente che, se il pacchetto sarà strutturato in questo modo, il governo avrà già raggiunto il primissimo obiettivo prefissato: quello di dare seguito alle promesse elettorali in materia di sicurezza ed immigrazione. Una netta differenza con il precedente esecutivo, molto prolisso a parlare ma per nulla propenso ad agire. Altra questione fondamentale è quella del segnale da dare sia ai cittadini italiani che agli stranieri. Basta con “l’Italia ventre molle dell'immigrazione clandestina” (Cassazione penale, sez. I, sentenza 08.02.2008 n. 6398) ed eden per i criminali comunitari e non. E’ importante far capire che il nostro Paese è accogliente con chi rispetta le regole ma inflessibile con i delinquenti. Questo è un segnale che deve necessariamente trovare delle sponde negli immigrati onesti che lavorano e sono penalizzati dai connazionali criminali, perché a causa dei loro comportamenti si ritrovano indistintamente nel calderone delle accuse sull’aumento dei crimini nel nostro Paese insieme ai delinquenti. Questa è una questione fondamentale perché è bene capire che tutte le problematiche connesse all’immigrazione si affrontano sia sul lato della sicurezza che su quello dell’inclusione sociale.

lunedì 5 maggio 2008

Immigrazione. I ricongiungimenti familiari


di Antonio Maglietta - 3 maggio 2008

Circa la metà del milione di migranti dell'est Europa giunti nel Regno Unito a partire dal 2004 è già tornata a casa. E' quanto emerge dagli studi condotti da uno dei più autorevoli think tank britannici, l'Institute for Public Policy Research, sull'impatto nel Regno Unito dell'allargamento a est dell'Unione Europea del 2004 e del 2007. Nel maggio 2004 furono otto i paesi ad aderire all'Ue: Polonia, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Slovacchia e Slovenia; nel 2007 fu quindi la volta di Romania e Bulgaria. Lo studio afferma che sono circa un milione i migranti giunti nel Regno Unito, dal 2004 a oggi, alla ricerca di un lavoro, ma circa la metà di loro è già rientrata nel proprio paese e molti altri faranno ritorno in patria nei prossimi mesi. L'istituto britannico prevede inoltre un rallentamento del flusso di nuovi arrivi. «Quattro polacchi su 10 ritengono che migliori prospettive di lavoro in Polonia incoraggeranno i polacchi che vivono nel Regno Unito a fare ritorno in Polonia per sempre», si legge nel rapporto, riportato martedì scorso anche dalla Bbc.

Nell'ultimo trimestre del 2007 erano 665.000 le persone provenienti dai 10 paesi dell'allargamento registrate nel Regno Unito. «Stimiamo che circa 30.000 migranti in meno sono giunti nella seconda metà del 2007 rispetto allo stesso periodo del 2006», si legge nello studio. Il governo britannico sottostimò il numero dei migranti che sarebbero giunti nel paese dopo l'allargamento a est - scrive la Bbc - prevedendo l'arrivo di 5.000-13.000 persone a partire dal 2004. Nel 2006 fu lo stesso sottosegretario all'Interno, Tony McNulty, ad ammettere che il governo era «all'oscuro» sul numero degli arrivi, mentre erano state 293.000 le richieste di permesso di lavoro presentate nei precedenti 18 mesi. Dalla ricerca è emersa, inoltre, una maggiore mobilità dei migranti dell'est Europa rispetto alle precedenti ondate migratorie giunte nel Regno Unito. Il fenomeno ha infatti investito zone tradizionalmente non toccate dall'immigrazione, come la Scozia e il sud-ovest dell'Inghilterra, a indicare che i migranti sono andati laddove c'erano possibilità di lavoro.

E' interessante confrontare questi dati con quelli presentati martedì scorso dal ministro dell'Interno Giuliano Amato e dal sottosegretario Marcella Lucidi, nell'ambito del «primo rapporto del ministero dell'Interno sull'immigrazione in Italia». Nel 2005, gli immigrati con regolare permesso di soggiorno erano 2.245.548 (62,9% per motivi di lavoro e 27,8% per motivi di famiglia); nel 2006, 2.286.024 (62,1% per lavoro e 29,8% per motivi di famiglia); nel 2007, 2.414.972 (60,6% per lavoro e 31,6% per motivi di famiglia). Risulta evidente, innanzitutto, che in Italia aumentano gli immigrati con permesso di soggiorno rilasciato per motivi di famiglia e diminuiscono quelli che entrano grazie ad un contratto di lavoro e che nel primo decreto flussi gestito dal centrosinistra ci sono stati circa 130.000 nuovi ingressi regolari. Quindi, se in Gran Bretagna gli stranieri tendono a rientrare nei loro paesi di origine e, quando entrano, lo fanno per motivi di lavoro, nel nostro paese l'immigrazione è stanziale e quasi uno straniero su tre è in Italia grazie al ricongiungimento familiare. Si legge nel rapporto: «Dal 1992 al 2007 gli stranieri presenti in Italia per motivi di famiglia fanno registrare una crescita costante. Negli ultimi quindici anni, infatti, il peso relativo di tale componente sul totale delle presenze con permesso di soggiorno è più che raddoppiato (dal 14,2% al 31,6%), a testimonianza dell'importanza assunta da tali ingressi sul totale dell'immigrazione».

Se poi guardiamo alle percentuali di incidenza della popolazione straniera sul totale di quella residente, in Gran Bretagna, per molti classico modello di società multiculturale, siamo al 5,2% contro il 5% del nostro Paese. In Italia la popolazione straniera risulta quasi quadruplicata rispetto alla situazione registrata quindici anni prima (649.000 permessi al 1° gennaio 1992), che già considerava gli effetti della sanatoria del 1990 in seguito alla quale sono stati concessi oltre 218 mila permessi. Insomma, c'è stato un boom dei flussi migratori verso il nostro paese determinato anche dal forte aumento dei ricongiungimenti familiari richiesti dagli immigrati già residenti da almeno un anno, il cui tasso di incidenza nei motivi della presenza straniera nel nostro paese è più che raddoppiato nel corso degli ultimi 15 anni. Risulta evidente che la dinamica dei flussi migratori che interessa il nostro paese è in netta controtendenza rispetto a quello che avviene in Gran Bretagna e che occorre una revisione ragionata dei meccanismi di concessione del permesso di soggiorno per motivi di famiglia (ad esempio introduzione di elementi essenziali come il reddito minimo di sussistenza e il test del Dna).

Antonio Maglietta
Google