lunedì 26 maggio 2008

Mercato globale e qualità del lavoro



di Antonio Maglietta - 25 maggio 2008

«Il concetto di mercato del lavoro è utilizzato abitualmente per indicare i meccanismi che regolano l'incontro tra posti di lavoro vacanti e persone in cerca di occupazione e determinano i salari pagati dalle imprese ai lavoratori. È il contesto all'interno del quale avviene la compravendita della merce comunemente nota come forza lavoro, ovvero la capacità lavorativa» (fonte: Wikipedia). Quindi il numero delle persone in cerca di occupazione incide sulla determinazione del salario. In linea di principio, più sono le persone in cerca di lavoro, più aumenta la concorrenza tra i lavoratori e più aumenta il potere contrattuale delle imprese e di conseguenza diminuisce il salario pagato ai lavoratori. La diminuzione del salario aumenta la competitività delle imprese sul mercato perché abbatte i costi. Nel mercato globale, infatti, un'impresa può decidere di competere in due modi: o con l'efficienza e la qualità del lavoro, che si aumenta con la formazione professionale e una buona scolarizzazione, unita alla ricerca sui prodotti e sui mezzi di produzione, il che comporta comunque investimenti per l'imprenditore, oppure, nella fascia medio-bassa del mercato, con prodotti o servizi offerti ai prezzi più bassi possibili, frutto dei bassi salari pagati ai lavoratori. Generalmente, il primo modello competitivo è quello in auge nei paesi occidentali, mentre il secondo è quello classico dei paesi in via di sviluppo.

Secondo l'Eurispes «il recupero di competitività in atto del sistema produttivo italiano ha il suo tallone d'Achille nel ristagno della produttività, che è rimasta ferma al livello di dieci anni fa a fronte di incrementi del 15% in Germania e dell'11% in Francia. Non è quindi imputabile all'aumento del costo del lavoro per occupato, che nell'arco dell'ultimo decennio è mediamente diminuito del 2% in termini reali. Il divario in termini di produttività, unitamente alla maggiore inflazione, ha comportato per l'Italia un aumento del costo del lavoro per unità di prodotto superiore di 11 punti alla Francia e di quasi 30 alla Germania. La condizione più importante per tornare a crescere è l'aumento della qualità del fattore lavoro. Lo sviluppo del capitale umano quale risultante dell'istruzione, della formazione continua e dell'arricchimento professionale nel lavoro è una determinante fondamentale per la crescita del paese. Il livello medio di istruzione in Italia è invece sistematicamente inferiore a quello europeo e ancor di più a quello degli Stati Uniti, anche se negli ultimi anni il divario ha iniziato a restringersi. Ciononostante, un'ampia percentuale di occupati (16,5%), soprattutto giovani, appare sottoinquadrata». Insomma, sembra chiaro che, in generale, il sistema Italia, almeno fino ad ora, non si è certo contraddistinto per la ricerca di una sempre maggiore competitività sul mercato globale attraverso alti livelli di scolarizzazione e formazione professionale continua.

E allora, su quale modello competitivo abbiamo puntato, fatto salvo alcune eccellenze imprenditoriali che tutto il mondo ci invidia? Scorrendo il Rapporto Italia 2008 dell'Eurispes («Nel nostro paese oltre 20 milioni di lavoratori sono sottopagati e, coeteris paribus, i salari sono inferiori del 10% rispetto alla Germania, del 20% rispetto al Regno Unito e del 25% rispetto alla Francia») ci accorgiamo che il modello a cui ci si siamo affidati per essere competitivi sul mercato globale è quello dei paesi in via di sviluppo, dove la dinamica salariale è usata per abbattere i costi. Una forte ondata di immigrati, con basse qualifiche professionali, può incidere sul mercato del lavoro, facendo aumentare in maniera esponenziale l'offerta di manodopera a basso costo, dando maggior potere contrattuale alle imprese e di conseguenza portare ad un abbassamento delle retribuzioni salariali? La risposta non può che essere affermativa. A questo si aggiunge poi anche la piaga endemica del lavoro sommerso di italiani, stranieri regolari e clandestini, per un flusso di denaro pari a 300 miliardi di euro (fonte: Eurispes). Il solo lavoro sommerso degli immigrati clandestini, che secondo l'Eurispes sono 800.000, genera un flusso di denaro pari a 24 miliardi di euro l'anno.

Insomma, sembra che il nostro sistema-paese, salvo alcune eccellenze, per essere competitivo punti, quando va bene, sui bassi salari anziché sulla qualità del lavoro. Ma allora possiamo definirci un paese a tutti gli effetti occidentale o dobbiamo pensare che siamo la periferia non solo geografica dell'Eden industrializzato? Se continueremo come sistema-Paese ad usare le dinamiche salariali (o peggio il lavoro sommerso) per abbattere i costi ed essere competitivi non potremo che limitarci ad essere la frontiera poco sviluppata dell'Occidente industrializzato, in perenne chiaroscuro. Ma siamo in grado di rispondere alle sfide del mercato globale con gli strumenti propri dei maggiori paesi industrializzati? La risposta è sicuramente affermativa e lo dimostra l'intervento del governo sulle dinamiche salariali, con la possibilità di utilizzare flessibilmente i 3000 euro detassati tra premi e straordinari, e la stretta sui clandestini. Decisioni chiare e precise che dimostrano non solo che finalmente torna a farsi sentire la voce delle istituzioni, ma anche che lo scopo perseguito è quello di migliorare la qualità del lavoro sul fronte della produttività e non quello di puntare ad aumentare l'offerta di lavoro (con flussi incontrollati di manodopera straniera a basso costo e con basse qualifiche) per incidere negativamente sulle dinamiche salariali ed abbattere i costi.

Già questi primi passi sono importantissimi e speriamo che ne arrivino molti altri in tutti i campi che incidono sulla qualità del lavoro: scolarizzazione, formazione professionale continua, incentivi all'emersione del lavoro sommerso e controlli per verificare il rispetto delle norme (anche sulla salute dei lavoratori e non solo sulla regolarità del rapporto di lavoro).

Antonio Maglietta

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