sabato 29 settembre 2007

Venite, immigrati



di Antonio Maglietta - 29 settembre 2007

Mercoledì scorso, alla Commissione Affari costituzionali della Camera, è stato illustrato il contenuto della delega al governo per la modifica della disciplina dell'immigrazione e delle norme sulla condizione dello straniero. Ecco alcuni dei passi salienti della relazione: «Si prevede la figura dello sponsor con la possibilità di offrire ulteriori garanzie a coloro che entrano in Italia per la ricerca di lavoro. È semplificata la richiesta di visto di ingresso con l'obbligo di motivazione in caso di rifiuto. L'abolizione del contratto di soggiorno è un chiaro segnale della precisa volontà tesa a voltare finalmente pagina riguardo l'ormai superato binomio soggiorno-lavoro». E' chiara e palese la volontà di minare alla base il concetto stesso di immigrazione economica. Essa è, attualmente, l'unica possibile politica in materia di immigrazione; infatti, delineando un'inscindibile rapporto tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro, crea un canale controllato che permette di gestire realisticamente i flussi migratori, tenendo conto in maniera bilanciata dei vari interessi in campo, ivi compreso il rispetto dei diritti fondamentali nei riguardi degli immigrati.
E ancora: «È semplificata la procedura di rilascio e rinnovo del permesso di soggiorno per la quale si prevede anche il coinvolgimento degli Enti locali». Proprio da questi ultimi (attraverso il presidente dell'Anci, il diessino Domenici, e da quello dell'Upi, il diellino Melilli), in sede di Conferenza unificata, sono emerse forti preoccupazioni in relazione alle diverse competenze aggiuntive per le amministrazioni locali, a partire dal sostegno alle politiche abitative, all'integrazione scolastica e sociale, ai servizi di orientamento lavorativo, che necessiterebbero, a loro avviso, di un potenziamento e di un incremento di risorse. I Comuni sottolineano come, a fronte di nuove competenze, le risorse non siano state parimenti trasferite.
Continua la relazione: «Un altro aspetto rilevante della riforma è la modifica della durata dei documenti. Il primo permesso avrà una durata di un anno per chi ha un lavoro sino a sei mesi, due anni per tutti gli altri contratti a termine, tre anni per gli autonomi e i lavoratori a tempo indeterminato. Il rinnovo avrà validità doppia rispetto al permesso iniziale. Chi entra in Italia per meno di novanta giorni non dovrà più chiedere alcun permesso, basterà la sola dichiarazione di presenza. Viene riportata ad un anno, rispetto all'originario termine di sei mesi, la durata del permesso per chi perde il lavoro con la possibilità di rinnovo qualora lo straniero possa dimostrare di avere i mezzi per mantenersi». Insomma, coerentemente con la rottura del rapporto contratto di lavoro-permesso di soggiorno, si prevede una dilazione dei periodi di permanenza in Italia per gli immigrati senza impiego, con il rischio di creare una sorta di buco nero in cui non sarebbe chiaro a quale titolo, con quali motivi e con quali garanzie lo straniero rimarebbe sul nostro territorio.
Prosegue ancora la relazione: «Il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, già definita Carta di soggiorno, apre le porte all'elettorato attivo e passivo per le elezioni amministrative. Lo sforzo di allargare l'accoglienza non riguarda però solo i diritti civili, ma si estende anche ai diritti sociali: chi soggiorna regolarmente da almeno un anno avrà accesso alle misure assistenziali e alla pensione di invalidità. Molto importante è l'aver riconosciuto le stesse prerogative che hanno gli italiani di pari età ai giovani stranieri maggiorenni ancora a carico dei genitori, garantendo loro un permesso per motivi familiari senza esporli necessariamente alla ricerca di un lavoro finalizzato esclusivamente all'ottenimento di un titolo di soggiorno». La relazione parla solo di diritti. E doveri? Responsabilizzare l'immigrato con una serie di doveri ben precisi e codificati servirebbe a rendere meno difficoltosa l'integrazione nel tessuto sociale del Paese ospitante e, soprattutto, a scoraggiare alla fonte chi viene in Italia solo per delinquere pensando di avere una altissima probabilità di farla franca. Se al contrario, invece, si dà l'idea di un Paese che, al di là dei comportamenti criminali o rispettosi delle leggi, è sempre clemente, allora non si fa altro che incentivare l'immigrazione criminale, con il rischio di trasformare il nostro territorio nell'Eden della malavita.
Si legge poi nel testo in questione: «Nascerà un Fondo nazionale rimpatri teso al rientro assistito nei luoghi di origine per coloro che hanno subito un decreto di espulsione, ma anche per chi intenda ritornare nel proprio Paese e non è in possesso dei mezzi per farlo. Il Fondo si avvarrà della contribuzione degli stessi datori di lavoro, di enti o associazioni, di cittadini che garantiscono l'ingresso degli stranieri e degli stranieri medesimi. L'introduzione del Fondo nazionale rimpatri, unitamente ad una politica di incentivazione al rimpatrio spontaneo, dimostra una ragionata volontà di un approccio concertativo tra Stato, associazioni datoriali e sindacali e stranieri interessati».
A tal proposito, vale la pena riportare un passaggio del «Rapporto sulla criminalità in Italia. Analisi, Prevenzione, Contrasto», presentato, nel corso di una conferenza stampa, dal ministro dell'Interno, Giuliano Amato, il 20 giugno scorso: «In Italia operano da diversi anni anche aggregazioni criminali costituite da cittadini stranieri, le cosiddette "nuove mafie", che presentano caratteristiche proprie a seconda dell'etnia di cui sono espressione. Tali gruppi interagiscono non solo con le organizzazioni di riferimento nei Paesi d'origine, ma anche con i sodalizi criminali dei Paesi di transito e di destinazione dei traffici illeciti internazionali a cui si dedicano. A tal ultimo riguardo, ferma restando l'assoluta centralità del narcotraffico, annoverabile tra gli interessi più remunerativi e tra gli strumenti più efficaci di coesione tra i vari clan coinvolti, e non tralasciando la valenza del contrabbando, del commercio di armi e del conseguente riciclaggio di danaro "sporco", il volano finanziario delle organizzazioni criminali a base etnica appare costituito oggi dal traffico di immigrati clandestini e dalla connessa tratta di esseri umani a fini di sfruttamento sessuale e lavorativo».
E' lo stesso Viminale, quindi, che segnala come la tratta degli esseri umani sia una delle più grosse forme di finanziamento per la criminalità organizzata straniera ed individua nel riciclaggio del denaro «sporco» una tra le fonti privilegiate di reddito. Il rischio è che il suddetto Fondo, senza la previsione di adeguati strumenti di controllo (che comunque appesantirebbero fortemente le procedure di rimpatrio, facendo venir meno la ratio stessa della norma tesa a snellire l'iter de quo), si trasformi in uno strumento per il riciclaggio del denaro «sporco» da parte di organizzazioni criminali italiane e, soprattutto, straniere, visto che proprio queste ultime gestiscono già la tratta degli esseri umani verso il nostro Paese, e potrebbero vedere il Fondo come una ghiotta occasione per unire due business criminali in uno.
In conclusione, il progetto governativo che dovrebbe modificare la legge Bossi-Fini fa acqua da tutte le parti e, qualunque sia l'angolo di lettura critico, la bocciatura senza appello sembra oggettivamente inevitabile.

Antonio Maglietta

giovedì 27 settembre 2007

L'impossibile melting pot italiano


di Antonio Maglietta - 27 settembre 2007

Un governo senza un briciolo di consenso nel Paese, con forti contrasti ideologici e di potere all'interno della stessa coalizione che lo sostiene, sta cercando di snaturare le radici del nostro popolo, aprendo le porte a tutti gli stranieri e, non contento, con la previsione di concedergli dopo soli 5 anni la possibilità di acquistare addirittura la cittadinanza. E' oramai noto che il progetto di legge governativo in materia di immigrazione mira a modificare la legge Bossi-Fini e a rompere lo stretto legame tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro (in pratica se la proposta diventerà legge, l'immigrato potrà soggiornare in Italia per un dato periodo, al di fuori dei casi c.d. turistici, pur non avendo un contratto di lavoro). Quello in materia di cittadinanza, invece, dimezza i tempi per l'acquisto della stessa da parte degli stranieri che vivono in Italia, portandoli, dagli attuali 10, a soli 5 anni. Perché? Il sospetto che lo faccia per assicurarsi un bel bottino di voti in vista delle future sfide elettorali è forte. Forse qualcuno a sinistra pensa che essere di manica larga con gli stranieri che vengono in Italia si tradurrà in voti, quando gli stessi avranno la possibilità di andare alle urne.
Ideologicamente l'operazione è già coperta, visto che la sinistra, non solo italiana, ha fatto della società multietnica e del melting pot uno dei suoi cavalli di battaglia. Vale la pena di ricordare che il termine melting pot significa letteralmente «pentola di fusione» ed è usato nel linguaggio comune, oltre che nella storiografia americana, per indicare quel processo di mescolanza tra razze e culture diverse che dovrebbe far nascere un homo novus che non deve rifarsi ai modelli esistenti, ma affermarsi come esponente di una società che da ogni tipo umano prende alcune caratteristiche per fonderle in qualcosa di nuovo.
L'idea moderna della mescolanza tra popoli diversi nasce con l'opera «Lettere da un agricoltore americano» di Michel Guillaume Jean de Crèvecoeur, nato in Francia e trasferitosi prima in Canada e poi a New York dove acquistò la cittadinanza americana: «da dove è venuta tutta questa gente? È una miscela di inglesi, di scozzesi, di irlandesi, di francesi, di olandesi, di tedeschi e svedesi... Che cos'è, allora, l'americano, questo nuovo uomo? Non è né un europeo né il discendente di un europeo; è una miscela sconosciuta di anime che non troverete in nessun altro Paese. Potrei dirvi che è un uomo con una famiglia in cui il nonno è un inglese e la moglie una olandese, il cui figlio ha sposato una donna francese e i loro quattro figli ora hanno quattro mogli di nazioni differenti. È un americano che, lasciati tutti i suoi pregiudizi e le vecchie tradizioni, riceve i nuovi dal nuovo modello di vita che ha abbracciato, obbedisce ad un nuovo governo (...). Una volta gli Americani erano sparsi dappertutto in Europa; qui sono incorporati in uno dei migliori sistemi di popolazione che sia mai comparso». ( - traduzione - tratto da Michel Guillaume Jean de Crèvecoeur, «Letters from american farmer», London, 1782).
Il termine invece trae origine dal titolo di un'opera teatrale «The Melting Pot» scritta da Israel Zangwill, ebreo inglese emigrato negli Stati Uniti (I. Zangwill, The Melting-Pot: A Drama in Four Acts, Macmillan, New York, 1909). Il protagonista dell'opera è un giovane immigrato ebreo di nome David, fermamente convinto che, giunto in America, l'immigrato debba rinunciare al suo passato. La sua famiglia è stata massacrata in un pogrom antisemita (pogrom è un termine storico di derivazione russa con cui si indicano, in generale, le azioni violente contro la proprietà e la vita di appartenenti a minoranze politiche, etniche o religiose in Russia) ed egli, che è un musicista, sta componendo una sinfonia che dovrà esprimere musicalmente l'idea di un'armoniosa convivenza tra immigrati provenienti da nazioni differenti e celebrare, in tal senso, la sua patria adottiva come esempio di luogo ideale per la convivenza tra diversi. Il giovane musicista ebreo s'innamora di Vera, anche lei giovane immigrata di origine russa ma di religione cattolica. La diversità religiosa non costituisce un ostacolo al loro amore fino a quando David non scopre che il padre di Vera è stato responsabile dello sterminio della sua famiglia. Saputa la notizia, dapprima tronca la storia d'amore, poi, invece, decide di ritornare sui suoi passi. L'opera termina con David e Vera che inneggiano alla mescolanza razziale mirando in lontananza la statua della libertà illuminata dal sole al tramonto.
Sullo sfondo del termine melting pot, in entrambi i casi, appare l'american dream e la società americana che, in quel contesto, aveva bisogno di ricevere una risposta ad un qualcosa di nuovo. Il nuovo era un «nuovo mondo» in cui i nativi, gli indiani d'America, erano stati sopraffatti e sconfitti con le armi, e i nuovi arrivati, tutti di nazioni differenti ma comunque europei e, quindi, sostanzialmente accomunati dal comune sentire religioso giudaico-cristiano, si trovavano di fronte alla necessità di creare una nuova struttura sociale per rispondere alle loro stesse esigenze di convivenza. Solo un modello di società «di nuovo conio», in grado di eliminare, almeno formalmente, le precedenti identità nazionali, poteva inglobare persone provenienti da nazioni differenti e costruire le basi per una convivenza pacifica e civile proiettata nel futuro. Insomma si creava un nuovo modello sociale partendo dall'anno zero della storia americana, così come potrebbe fare, metaforicamente, un gruppo di naufraghi su un'isola deserta.
L'Italia, ma il discorso potrebbe benissimo allargarsi a tutte le nazioni del Vecchio Continente, ha le caratteristiche storiche e culturali del «nuovo mondo»? E le caratteristiche dei «conviventi» (nel nostro caso: cittadini ed immigrati) sono le stesse di quelle degli «americani» descritti da Michel Guillaume Jean de Crèvecoeur e Israel Zangwill? Inutile dire che la risposta non può che essere negativa, e che il melting pot, nato per esigenze specifiche dell'american dream, non può certo essere un modello di società esportabile nel Vecchio Continente, ricco di innumerevoli sedimentazioni storiche, culturali e religiose. La diversità, quando non genera scontro, è una ricchezza da esaltare e spesso la sinistra, accecata dal totem dell'egualitarismo, lo dimentica volentieri, quando percorre vie utopistiche dettate dall'ideologia fine a se stessa e non dalla ragione e dalla realtà dei fatti. Purtroppo siamo alle solite. Ogni volta, i governanti di sinistra, invece che in Italia, pensano di vivere nell'isola-regno, abitata da una società ideale, descritta nel 1516 da Tommaso Moro nell'opera «De optimo reipublicae statu deque nova insula Utopia».

giovedì 20 settembre 2007

Un'inutile Commissione


di Antonio Maglietta - 20 settembre 2007


In questi giorni la Camera sta votando il progetto di legge presentato dal Ministro della Funzione Pubblica, Luigi Nicolais, recante il titolo «Modernizzazione, efficienza delle Amministrazioni pubbliche e riduzione degli oneri burocratici per i cittadini e per le imprese» (A.C. 2161/A). Il Ministro, oramai da diverso tempo, sta rilasciando numerose interviste sui giornali per glorificare le sue iniziative. Uno dei cavalli di battaglia per dimostrare la bontà delle sue proposte è la previsione dell'istituzione della «commissione indipendente per la valutazione delle Amministrazioni», inserita nel citato disegno di legge e precisamente all'articolo 10-bis. La nuova struttura, nelle intenzioni di Nicolais, dovrebbe essere lo strumento per combattere i casi di nullafacenza conclamata nel pubblico impiego. La presenza o meno di questo specifico articolo è stata abbastanza tormentata. Dapprima presentato in pompa magna dal Ministro Nicolais, il provvedimento aveva subito ricevuto il niet dei sindacati e della sinistra massimalista. L'affossamento aveva fatto rumore e molti, anche all'interno dello stesso centrosinistra, non l'avevano presa bene. Il testo, quindi, era stato mestamente ritirato ma, a causa del pressing di alcuni esponenti dell'area riformista del centrosinistra e dello stesso Ministro della Funzione Pubblica, è stato recentemente reinserito nel progetto di legge con qualche piccola modifica rispetto alla versione originale.
Ma quali sono i compiti di questa commissione e, soprattutto, quali sono le modifiche apportate rispetto alla precedente versione? Si legge testualmente all'articolo 10-bis del progetto di legge (A.C. 2161/A):
assicura attività di monitoraggio, valutazione e verifica, anche con l'ausilio dei servizi di controllo interno ovvero dei nuclei di valutazione, dei risultati conseguiti, in termini di qualità dei servizi dalle amministrazioni pubbliche, svolgendo le correlate attività di raccolta e di analisi dei dati;
promuove la conoscenza e la diffusione delle tecniche e delle migliori pratiche, anche sviluppate ed utilizzate in àmbito internazionale, nel campo della valutazione delle amministrazioni pubbliche; definisce i requisiti, anche di professionalità ed imparzialità, dei componenti i servizi di controllo e valutazione ai fini di favorirne l'indipendenza di giudizio;
provvede alla elaborazione di linee guida, modelli di valutazione del personale, compresi i dirigenti, studi di settore, indicatori e standard di qualità, in particolare per quanto concerne l'attività di supporto alle amministrazioni pubbliche per la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni erogate da amministrazioni, enti o aziende pubblici;
effettua, anche in relazione ai parametri del settore privato, attività di ricerca avvalendosi delle analisi e di dati statistici omogenei resi disponibili dagli enti e dagli istituti che svolgono rilevazioni, con riferimento ai livelli e agli andamenti del costo del lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche; formula pareri, da trasmettere ai soggetti della contrattazione collettiva, in ordine alle disposizioni contrattuali che prevedono forme di retribuzione legate ai risultati e alla loro applicazione;
pubblica i risultati dell'attività di monitoraggio e di valutazione e delle indagini effettuate sulla percezione degli utenti;
esamina, attraverso proprie indagini e attraverso segnalazioni e istanze di qualunque soggetto pubblico e privato, casi di scarsa efficacia e efficienza dell'azione delle amministrazioni pubbliche, e effettua specifiche segnalazioni e formula raccomandazioni, da rendere anche pubbliche, alle amministrazioni interessate anche richiedendone l'attivazione di interventi ispettivi;
redige e presenta una relazione annuale al Parlamento e al Presidente dei Consiglio dei Ministri sulla situazione dei livelli e della qualità dei servizi erogati dalle amministrazioni statali, regionali e locali, nonché sull'attività svolta; sollecita la pubblicazione, ad opera di ciascun organo di valutazione, di un rapporto annuale sulla qualità dei servizi resi dall'amministrazione, con riguardo alla quale svolge la sua attività.
Cosa è cambiato rispetto alla versione precedente? Le due versioni sono pressoché identiche, se non per un piccolo particolare non proprio indifferente. Nella vecchia versione, la commissione aveva anche la seguente funzione - rif. Art. 16-ter, comma 1, lettera d) - : «nelle ipotesi in cui rileva casi di inefficacia, inefficienza, mancato rispetto degli standard di qualità dell'attività delle amministrazioni pubbliche e dei livelli essenziali delle prestazioni, effettua specifiche segnalazioni al Ministro per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione, che adotta le iniziative di propria competenza, nonché, ove ravvisi un danno per la finanza pubblica, alle procure regionali della Corte dei conti e ai Collegi dei revisori dei conti. Ai fini della predetta rilevazione, la Commissione può anche richiedere ispezioni specifiche ovvero a campione da parte dei servizi ispettivi delle singole amministrazioni, nonché dell'ispettorato della funzione pubblica che può avvalersi, d'intesa con il Ministero dell'economia e delle finanze, del Corpo della Guardia di finanza; il predetto Corpo agisce nell'esercizio dei poteri di polizia economica e finanziaria previsti dall'articolo 2, comma 4, del decreto legislativo 19 marzo 2001, n. 68, e successive modificazioni.» Insomma, prima c'era una consequenzialità di atti che avrebbe portato direttamente il Ministro della Funzione Pubblica ad adire, nei casi di specie, le procure regionali della Corte dei conti e i Collegi dei revisori dei conti. Ora quel riferimento è scomparso e con esso tutto il dato sanzionatorio che, nell'attuale versione, viene sostituito con una semplice raccomandazione rivolta alle amministrazioni interessate.
Non sarebbe meglio, invece, ricostruire la catena gerarchia nel pubblico impiego e responsabilizzare i dirigenti? Tralasciando, quindi, i giudizi sulla bontà stessa dell'istituzione di una struttura del genere, alla fine della fiera, la commissione anti-nullafacenti, senza la previsione di un dato sanzionatorio veramente incisivo, nasce già depotenziata e, nonostante i proclami del centrosinistra, già si candida a diventare l'ennesima struttura inutile della pubblica amministrazione nostrana.


Antonio Maglietta

martedì 18 settembre 2007

Novità in Europa in materia di espulsione dei clandestini


di Antonio Maglietta - 18 settembre 2007


Il ministro francese per l'immigrazione e l'identità nazionale, Brice Hortefeux, ha convocato mercoledì scorso una ventina di prefetti che non hanno raggiunto i loro obiettivi in materia di espulsioni di immigrati clandestini. Il ministro Hortefeux ha riconosciuto che sarà difficile traguardare la cifra di 25.000 espulsioni annunciata dal presidente Nicolas Sarkozy: «Siamo attualmente come tendenza al di sotto della media», ha detto, chiedendo alla polizia di «raddoppiare gli sforzi per fermare stranieri in situazione irregolare». La situazione si è complicata, secondo il ministro, dopo l'ingresso della Romania e della Bulgaria nell'Unione Europea, poiché le espulsioni dei clandestini provenienti da questi due Paesi, in gran parte Rom, rappresentavano il 30% circa della cifra indicata da Sarkozy. Secondo le autorità francesi, sono fra i 200.000 e i 400.000 i clandestini presenti nel Paese. Il ministro Hortefeux presenterà la settimana prossima al Parlamento una nuova legge, che dovrebbe rendere più difficili le condizioni del ricongiungimento familiare, prima fonte dell'immigrazione in Francia.
Nel frattempo, la commissione Libertà civili, Giustizia e Affari interni del Parlamento europeo (denominata LIBE) ha approvato, modificandola in modo significativo, la proposta della Commissione UE per regolare a livello europeo la detenzione amministrativa e i rimpatri degli immigrati clandestini. In particolare, gli eurodeputati hanno stabilito un limite massimo di 18 mesi per le detenzioni amministrative nei centri di permanenza temporanea e la possibilità di applicare un bando a livello UE per gli immigrati che sono già stati rimpatriati nei Paesi d'origine. L'obiettivo della proposta è quello di garantire un «sistema equo e trasparente», a livello europeo, sui ritorni volontari, sugli ordini di rimpatrio, sull'uso di misure coercitive, sempre sulla base di una valutazione caso per caso, sulla custodia temporanea e sul divieto di re-ingresso in Europa. I deputati europei hanno stabilito di dare la priorità al principio del ritorno volontario e di fissare in 3 mesi il periodo per la custodia temporanea. Periodo che può arrivare ad un massimo di 18 mesi (mentre la Commissione UE ne aveva proposti 6), nel caso in cui manchi la cooperazione da parte della persona o se questa rappresenta una minaccia alla pubblica sicurezza. I parlamentari hanno anche stabilito che, nel periodo di custodia temporanea, siano garantite l'assistenza medica, l'unità del nucleo famigliare e l'educazione per i bambini.
Critiche al provvedimento sono venute da Giusto Catania (Rifondazione), secondo il quale il testo è «una catastrofe, una barbarie giuridica che di fatto modifica la funzione della detenzione amministrativa, che non avrà più l'obiettivo del riconoscimento del migrante irregolare, ma quella di una vera e propria punizione». Antonio Tajani e Alfredo Antoniozzi (Forza Italia) hanno invece espresso soddisfazione, dichiarando di avere «sventato il tentativo dei socialisti di rivedere l'attuale politica di immigrazione in favore di una cessione delle competenze all'UE anche in materia di gestione delle quote degli immigrati».
Intanto il vicepresidente della Commissione UE, Franco Frattini, sottolinea che il fenomeno delle migrazioni registra un forte squilibrio sfavorevole all'Europa per quanto riguarda i lavoratori qualificati: solo il 5% di questi ultimi, infatti, viene nell'UE, mentre il 55% va negli Usa. Al contrario, l'85% dei lavoratori non qualificati emigra in Europa e solo il 5% negli Stati Uniti. Per invertire questa tendenza, Frattini propone di armonizzare le politiche di immigrazione legale degli Stati membri, facilitando l'arrivo di forza-lavoro con diversi livelli di qualificazione, per colmare le lacune esistenti nei diversi Paesi. Tra l'altro, il commissario presenterà prossimamente una direttiva sulla mobilità dei lavoratori immigrati altamente qualificati e proporrà di istituire una «Eu Blue labour card» che permetterà a chi ha risieduto due anni legalmente in uno Stato membro di trasferirsi in un altro Paese dell'UE senza alcun aggravio in termini burocratici.
Antonio Maglietta

lunedì 17 settembre 2007

Sulla sicurezza solo parole


di Antonio Maglietta - 15 settembre 2007


Nei giorni scorsi il vice-premier Francesco Rutelli ha rilanciato l'ipotesi dell'istituzione di una banca dati del Dna, ricordando che esiste già in quasi tutti i principali Paesi europei e che questo «ha consentito agli investigatori di identificare con molto più facilità e rapidità i colpevoli dei crimini». Il leader della Margherita ha citato in particolare il caso inglese, sottolineando come da quando in Gran Bretagna è stata creata la banca del Dna l'identificazione dei criminali è «praticamente raddoppiata, passando dal 30 al 58%». A Rutelli fanno eco i sottosegretari alla Giustizia, Daniela Melchiorre, che plaude all'iniziativa, e Luigi Li Gotti, che ricorda come il progetto di creare una banca del Dna per i criminali in realtà sia già contemplato in un disegno di legge messo a punto lo scorso anno, attualmente fermo per ragioni finanziarie. Le risorse necessarie ammontano a circa 10 milioni di euro come spesa iniziale, e 6 per ogni anno (per dovere di cronaca occorre aggiungere che l'idea non è certo recente, ed anche nella scorsa legislatura ci sono state iniziative parlamentari in tal senso da parte del centrodestra). Purtroppo, come già accennato, manca la copertura finanziaria ed il progetto di cui parla il sottosegretario Li Gotti, come egli stesso ha ammesso, è fermo in Parlamento. Tutto condivisibile, tutto giusto. Peccato che siamo alla politica del «vorrei, ma non posso».
Mercoledì il ministro dell'Interno, Giuliano Amato, ha annunciato in pompa magna che il suo dicastero ha predisposto un piano per mandare più uomini e mezzi delle forze dell'ordine sul territorio. La richiesta del ministero dell'Interno per la prossima Finanziaria - secondo quanto si apprende - è quella di una conferma dei livelli di assestamento di bilancio del 2007, cioè di poco oltre 25 miliardi. Anche in questo caso è tutto condivisibile, tutto giusto. Peccato però che lo stesso Amato abbia avallato e votato la legge Finanziaria 2007, che ha tagliato di un miliardo di euro i fondi per la sicurezza e che così fa restare ferme la metà delle autovetture delle forze di polizia. Se quella del sottosegretario Li Gotti è la politica del «vorrei, ma non posso», questa è invece quella degli annunci fini a ses stessi.
Al coro non poteva certo mancare il sindaco di Roma, Walter Veltroni, che, intervenendo ad una manifestazione a Padova, ha affermato in maniera serafica: «Io penso che tutto il comparto della sicurezza non possa essere tagliato. La sicurezza è ormai una condizione della competitività del Paese, non si può tagliare lì. Certo, si possono razionalizzare meglio le risorse, ma non si possono mettere le auto della polizia nelle condizioni di non avere la benzina per girare». Di nouvo tutto condivisibile, tutto giusto. Peccato che proprio a Roma, così come documentato con un filmato da Francesco Giro, coordinatore regionale di Forza Italia nel Lazio, il degrado e l'insicurezza sembrino farla da padrone e la questione «cocaina», rilevata in quantità alquanto significativa nell'aria della Capitale, sembri essere diventata una vera emergenza. Peccato ancora che proprio l'amministrazione capitolina abbia fatto spallucce dinanzi all'invito, proveniente da esponenti del partito azzurro di Roma, di predisporre un piano per una serie di iniziative volte a garantire maggiore sicurezza, soprattutto in alcuni quartieri famosi per la movida notturna. Inoltre, sarebbe stato giusto ricordare a Veltroni che i tagli al comparto sicurezza non sono un'ipotesi di scuola ma, purtroppo, come ricordato in precedenza, ci sono già stati e pergiunta ad opera del governo della sua stessa parte politica.
Insomma, in tutto questo tourbillon di dichiarazioni, resta il dato fondamentale: probabilmente, nella prossima Finanziaria, non ci saranno delle buone nuove sul tema della sicurezza e, per coprire le loro magagne, gli esponenti del centrosinistra si serviranno di nuovi, formidabili annunci proiettati sul futuro. Peccato per i cittadini italiani che il presente sia nero e, con il centrosinistra ancora al governo, il futuro non si prospetti certamente migliore.


Antonio Maglietta

venerdì 14 settembre 2007

Immigrazione clandestina e criminalità


di Antonio Maglietta - 13 settembre 2007


Le cronache quotidiane registrano da tempo un crescendo di episodi che gli esperti definiscono di «micro-criminalità». Il senso di legalità all'interno delle nostre città, dalle più piccole alle più grandi, sembra soccombere sotto i colpi della questua molesta; davanti alla fila di macchine che costeggiano i marciapiedi pieni di lucciole; dinanzi all'impotenza di chi è costretto a vivere da recluso nella propria abitazione o ad essere molestato nella propria quiete a causa di spacciatori, tossicodipendenti ed ubriachi che spadroneggiano di fronte ai portoni delle case, soprattutto nelle ore notturne; dinanzi alle aggressioni di sbandati che picchiano a sangue anche per racimolare pochi euro dai vari malcapitati. Nessuno può negare che i cittadini italiani si sentano oramai assediati e chiedano per questo più sicurezza allo Stato.
Se prima si parlava di «emergenze», ora invece, con un pizzico di rassegnazione, si parla di «quotidianità». La raccapricciante regolarità giornaliera con cui vengono commessi i cosiddetti «piccoli reati» sembra quasi aver assopito la capacità di reazione dello Stato centrale. Le forze di polizia fanno quello che possono e spesso non sono neanche supportate dalle leggi, tanto garantiste con i Caino quanto incapaci di tutelare la sicurezza e la tranquillità degli Abele. Gli amministratori locali, in primis i sindaci, stanno cercando di frenare la deriva illegale con i pochi mezzi a loro disposizione. E' un segno dei tempi: nell'Italia retta da Romano Prodi ognuno si arrangia come può. Non è casuale che siano stati proprio i sindaci i primi a sollevare la questione «sicurezza» e a muoversi di conseguenza. Infatti, proprio questa figura istituzionale è l'articolazione dello Stato più vicina ai cittadini, e sono loro - i sindaci - le prime sentinelle degli umori e delle aspettative della gente. Non è un caso che il sindaco di Milano abbia promosso una campagna per la regolamentazione del commercio nella chinatown milanese, che il primo cittadino di Firenze abbia emanato un'ordinanza contro i lavavetri, e che, in molte zone del Paese, si stiano moltiplicando gli interventi dei sindaci per contrastare quella che, da semplice fenomeno di micro-criminalità, sembra essere degenerata in illegalità diffusa. Spesso a soffrire di più sono quegli onesti cittadini che affollano le periferie delle nostre città. Si tira a campare pur se lo stipendio non permette di arrivare a fine mese e la convivenza «forzata» con spacciatori, tossicodipendenti, sbandati e criminali di vario genere non permette di vivere tranquilli neanche tra le quattro mura di casa (spesso neppure di proprietà). Per loro c'è la doppia beffa: senza soldi e senza sicurezza.
Che cosa dicono i dati ufficiali sui cosiddetti «piccoli reati»? Si legge nel Rapporto sulla criminalità in Italia presentato dal ministro dell'Interno, Giuliano Amato, il 20 giugno scorso: «Negli ultimi vent'anni è cresciuto sensibilmente il contributo fornito dagli stranieri di alcune nazionalità alla diffusione di alcuni reati, in particolare i reati contro la proprietà - ovvero i furti e le rapine - i reati violenti, i reati connessi ai mercati illeciti della droga e della prostituzione. Tale contributo appare sproporzionato per eccesso rispetto alla quota di stranieri residenti nel nostro Paese, anche se si tiene conto della presenza di stranieri non documentata». E ancora: «Il trend degli stranieri denunciati per reati inerenti agli stupefacenti, anche in conseguenza dei crescenti flussi migratori clandestini verso l'Italia, è stato tendenzialmente in crescita, con l'effetto di determinare, con il passare degli anni, un consolidamento territoriale da parte di organizzazioni criminali straniere implicate nel narcotraffico, spesso in collaborazione con le organizzazioni italiane. Al riguardo, i dati sul numero di persone coinvolte distinte tra italiani e stranieri evidenziano che mentre nel decennio 1987-1996 le percentuali degli italiani erano nettamente superiori (82,7%) a quelle degli stranieri (17,3%), nel decennio 1997-2006, pur rimanendo il medesimo rapporto, la percentuale di italiani è diminuita (70,8%) ed è aumentata quella degli stranieri (29,2%)».
«L'incidenza degli stranieri - si legge ancora - tra i denunciati, però, varia molto a seconda dei reati. Si va da incidenze basse, come il 3% per le rapine in banca o il 6% per quelle negli uffici postali, al poco meno del 70% che caratterizza i borseggi, ovvero quelli che la classificazione riportata definisce "furti con destrezza". Tra questi due estremi, gli stranieri costituiscono il 51% dei denunciati per rapina in abitazione o furto in abitazione, il 45% dei denunciati per rapina in pubblica via, il 19% per le estorsioni e il 29% per le truffe e le frodi informatiche. Intorno ad un terzo dei denunciati troviamo gran parte dei reati violenti. La quota di stranieri qui va dal 39% dei denunciati per violenze sessuali al 36% per gli omicidi consumati e al 31% per quelli tentati, al 27% dei denunciati per il reato di lesioni dolose. Simili sono poi le percentuali di stranieri sul totale degli arrestati per alcuni reati predatori strumentali, come i furti di autovetture (38%) e gli scippi (29%). E' importante sottolineare che la netta maggioranza di questi reati viene commessa da stranieri irregolari, mentre quelli regolari hanno una delittuosità non molto dissimile dalla popolazione italiana».
Prosegue il Rapporto: «La maggior parte degli irregolari in Italia è costituita da stranieri entrati regolarmente e rimasti sul territorio oltre la scadenza prevista dal visto, ovvero dai cosiddetti "overstayers": nel 2006 gli overstayers sono stati il 64% del totale degli irregolari, contro il 23% di coloro che hanno varcato fraudolentemente le frontiere e il 13% dei clandestini sbarcati sulle coste... Consideriamo ora le singole nazionalità di chi commette reati. (...)In 11 dei 13 reati presi in considerazione le prime tre nazionalità sono ricorrenti: Romania, Marocco e Albania. E in molti casi queste prime tre nazionalità contribuiscono a oltre la metà dei denunciati per quel tipo di reato: siamo al 52% dei furti di autovetture, al 50% dei furti in abitazione, al 51% dei furti con destrezza. C'è quindi un'elevata concentrazione».
Infine, alcune considerazioni territoriali: «È noto che, dal punto di vista dei reati, il nostro Paese è da tempo marcato dalla differenza tra Italia centro-settentrionale da un lato e sud ed isole dall'altro. Questa differenza vale anche per i reati commessi dagli immigrati. Con la sola eccezione del contrabbando, infatti, nelle regioni centro-settentrionali la quota di stranieri sul totale dei denunciati è stata da sempre di gran lunga superiore a quella registrata nelle regioni del Mezzogiorno. E, soprattutto, è cresciuta più velocemente».
Insomma, sembra chiara la stretta relazione di causa-effetto tra immigrazione clandestina e micro-criminalità; sarebbe quindi opportuno un ulteriore giro di vite in materia di immigrazione, magari mirata a ridurre il buco nero del visto d'ingresso che, oggi, sembra essere la porta privilegiata per la clandestinità. Il governo ha fatto sapere che, entro tre settimane, sarà pronto un pacchetto sicurezza ad hoc per contrastare la deriva illegale. Le iniziative annunciate sono tante, ma nessuna riguarda il contrasto del fenomeno dell'immigrazione clandestina. Anzi, le dichiarazioni rilasciate alla stampa dal ministro della Solidarietà Sociale, Paolo Ferrero, fanno intendere che la volontà dell'esecutivo sia quella di voler modificare la legge Bossi-Fini, rompendo lo stretto legame permesso di soggiorno-contratto di lavoro ed introducendo una serie di sponsor che dovranno fare da garanti per l'immigrato, senza contratto di lavoro, che decide di venire a vivere nel nostro Paese. Nessuna parola invece sul visto d'ingresso. In compenso, nel centrosinistra è già montata una nuova polemica interna, tra massimalisti e riformisti, sull'opportunità di varare un pacchetto sicurezza che preveda sanzioni per lavavetri, mendicanti e lucciole. Si preferisce perdere tempo in dispute ideologiche anziché rispondere alle richieste dei cittadini. E' la loro «cultura del fare»: fare polemiche inutili.

Antonio Maglietta

lunedì 10 settembre 2007

Autunno caldo: welfare e sicurezza


di Antonio Maglietta - 6 settembre 2007


L'agenda politica nel nostro Paese è oggi dettata da due punti: il welfare e la sicurezza. In entrambi i casi il governo ha deciso di spostare l'emanazione delle leggi in materia in autunno, che mai come questa volta sarà davvero caldo. I temi sono scottanti per antonomasia ma il centrosinistra sta facendo di tutto per complicarsi ulteriormente la vita e, purtroppo, per renderla difficile anche ai cittadini italiani.
Sul welfare sappiamo che a luglio è stato firmato un protocollo tra governo e sindacati basato soprattutto sull'introduzione di una serie di scalini, in sostituzione dello scalone previsto dalla riforma Maroni, e su una maggiore rigidità in materia di contratti di lavoro a termine. La sinistra radicale si è dichiarata insoddisfatta e ha minacciato fuoco e fiamme in Parlamento e una grande manifestazione in programma il 20 ottobre. Sembra addirittura che stia cadendo il tabù dell'appoggio esterno di Rifondazione Comunista al governo se un autorevole esponente del partito di Fausto Bertinotti e Franco Giordano, seppur sempre critico con le scelte della dirigenza, come il senatore Fosco Giannini, dalle pagine del quotidiano Liberazione di mercoledì scorso, ha lanciato pubblicamente questa proposta. La summa del Giannini-pensiero è tutte in queste parole: «Se i padroni sono dittatori nelle fabbriche e nella società non c'è verso di spuntargli le unghie in Parlamento». Dal suo punto di vista il ragionamento non fa una grinza. Rifondazione Comunista, espressione della vera sinistra, non è un partito di lotta e di governo, è solo un partito di lotta. Ergo: cosa ci stiamo a fare ancora al governo? Quello di Giannini non è un pensiero qualsiasi. E' quello di un senatore e, visto il chiaro di luna di Palazzo Madama, è da prendere con le molle.
E che dire, se non stendere un velo pietoso, sul balletto del vado-non vado alla manifestazione del 20 ottobre, contro il protocollo sul welfare, di ministri, sottosegretari ed esponenti di spicco del centrosinistra? Tuttavia il vero problema non è nei numeri al Senato ma nella coesione politica. Si potranno trovare mille accordi al ribasso ma resta il fatto che c'è una distanza abissale tra i massimalisti da una parte, che chiedono, senza se e senza ma, di cancellare la legge Biagi sul lavoro e la riforma Maroni sulle pensioni, e i riformisti dall'altra, che parlano solamente di modifiche mirate.
Le cose non vanno meglio sulla questione sicurezza. Una ordinanza contro i lavavetri del sindaco diessino di Firenze, nonché presidente dell'Anci (Associazione nazionale dei comuni italiani), Leonardo Domenici, ha scatenato nuove polemiche all'interno del centrosinistra tra i massimalisti, che ritengono inaccettabile a prescindere sanzionare gli «ultimi della società», e i riformisti, che plaudono all'iniziativa di Domenici all'insegna del sano realismo. L'ultimo Consiglio dei Ministri, sotto la spinta dell'opinione pubblica e dei media, ha deciso di varare un provvedimento ad hoc contro la micro-criminalita entro tre settimane. Tutti d'accordo nel centrosinistra? Ma per carità. Già mercoledì scorso, dopo un solo giorno di distanza dall'annuncio in pompa magna, ecco la dichiarazione controcorrente di Manuela Palermi, capogruppo dei Verdi-Pdncci al Senato: «A questo punto è necessario che sul provvedimento sicurezza ci sia un'intesa più ampia. Se continuano ad insistere per usare il pugno duro contro chi, pur di sopravvivere, è costretto a lavare i vetri, siamo veramente alla frutta». A questo punto, quindi, non è dato neanche sapere se il famoso pacchetto-sicurezza del Governo sarà quello annunciato. Se poi è vero, come dice Manuela Palermi, che siamo alla frutta, la colpa è solo del centrosinistra al governo che, è bene ricordarlo, è ancora in sella anche grazie al suo voto in Senato (senza dimenticare anche quello di Fosco Giannini).
Insomma, gli esponenti della sinistra radicale, così duri e polemici sulla stampa con tutte le scelte del governo, una volta chiamati a votare al Senato i provvedimenti, sembrano smarrire magicamente tutta la vis polemica e continuano a rinnovare sistematicamente la loro fiducia a Romano Prodi. Forse è proprio questo il vero nodo che dovrà essere sciolto in autunno.


Antonio Maglietta

mercoledì 5 settembre 2007

Pubblica Amministrazione: stop alle stabilizzazioni dei precari e nuovo blocco delle assunzioni?


di Antonio Maglietta - 4 settembre 2007


Nei giorni scorsi il ministro dell'Economia, Tommaso Padoa Schioppa, ha rilanciato la proposta, da rendere operativa già dalla prossima Finanziaria, di tagliare sensibilmente la spesa della Pubblica Amministrazione nostrana. Tanto per far capire che si sta facendo sul serio, sembra che sia stato predisposto anche una sorta di Libro verde i cui verrebbero messi a fuoco, nel dettaglio, i tagli da effettuare. La Stampa ed Il Messaggero di lunedì scorso hanno avanzato l'ipotesi che sotto la scure di TPS potrebbero cadere l'organico del comparto scuola, la stabilizzazione dei precari (provvedimento prevista meno di un anno fa dalla Finanziaria 2007) e, addirittura, sarebbe stato messo in agenda anche un nuovo blocco delle assunzioni. La sinistra radicale ed il sindacato non sembrano averla presa bene, ma oramai sono diversi mesi che il titolare del Ministero dell'Economia si trova sotto il loro fuoco incrociato. La vera novità è che ora l'uscita del ministro ha turbato gli animi anche dei cosiddetti moderati. Infatti nei giorni scorsi due ministri non propriamente «barricaderi», come Mastella (Udeur) e Nicolais (Ds), hanno risposto picche all'invito rigorista proveniente da Padoa Schioppa. Emblematico il caso del Ministero per le Riforme e le Innovazioni nella Pubblica Amministrazione. In una intervista rilasciata lunedì scorso al Messaggero, Nicolais ha candidamente ammesso di non aver mai visto il citato Libro verde del Ministro dell'Economia sulle spese della Pubblica Amministrazione e, anzi, ha esortato il collega ad inviarlo a Palazzo Vidoni per prenderne nota.
Insomma, se le indiscrezioni dei giornali saranno confermate, il governo Prodi sarebbe pronto a rimangiarsi (o comunque a congelare), ad un solo anno di distanza, l'intero impianto dell'ultima Finanziaria sul pubblico impiego, così pubblicizzato e strombazzato dalla sinistra radicale come la soluzione ai problemi dei giovani precari della Pubblica Amministrazione. Peraltro, la mossa anti-stabilizzazione, se sarà confermata, non sarà comunque un fulmine a ciel sereno. Infatti la direttiva del Ministro Nicolais del 30 aprile scorso, sulle norme della Finanziaria 2007 in materia di stabilizzazioni dei precari, non contemplava l'art. 1, comma 417 e cioè la norma del «tana libera tutti», quella che prevede la trasformazione a tempo indeterminato di tutti i contratti della Pubblica Amministrazione con un dato temporale diverso da questo. Senza contare che, fino ad ora, i precari stabilizzati sono stati poco meno di 10mila a fronte delle 350mila stabilizzazioni promesse. Insomma, dopo la fine della propaganda, i numeri e la realtà dei fatti stanno venendo al pettine. Ma ancora peggio dei precari andrebbe ai circa 70mila vincitori di un concorso pubblico non ancora assunti. Dopo la beffa della Finanziaria 2007 che, per gli anni 2008 e 2009, prevede che per ogni 10 cessazioni ci saranno solo 2 assunzioni da concorso (a fronte di 4 stabilizzazioni di precari), invece della fine del tunnel potrebbe esserci un nuovo ed inaspettato blocco delle assunzioni (quello in vigore scadrà alla data del 31 dicembre prossimo), con la firma dell'agognato contratto a tempo indeterminato nuovamente spostata a data da destinarsi ed il consueto appuntamento, tra maggio ed ottobre (quest'anno ancora non si sa), con la speranza di rientrare nella lista delle cosiddette assunzioni in deroga al blocco.
Insomma, se aggiungiamo anche la grana della traduzione in legge del protocollo sul welfare del luglio scorso, ci sarebbe abbastanza materiale per pronosticare una crisi politica all'interno della maggioranza, nel bel mezzo dell'autunno e dei lavori parlamentari per il varo della prossima Legge finanziaria. Fino ad ora il governo Prodi è rimasto in sella, nonostante le evidenti e laceranti contraddizioni politiche all'interno del centrosinistra, perché, invece del buon senso, è prevalso l'attaccamento alle poltrone del potere. Attendiamo l'autunno per vedere se la farsa continuerà.
Antonio Maglietta

sabato 1 settembre 2007

Sospensione per gli assenteisti: la svolta lassista


di Antonio Maglietta - 1 settembre 2007


Il Consiglio dei ministri del 30 agosto scorso ha autorizzato il Ministro per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione, Luigi Nicolais, ad esprimere il parere favorevole del Governo sull'ipotesi di contratto collettivo nazionale di lavoro del personale del comparto Ministeri (quadriennio normativo 2006-2009, biennio economico 2006-2007). E' bene ricordare che, nel luglio scorso, l'atto in questione è entrato nel mirino di vari parlamentari, di maggioranza e opposizione, capeggiati da Simone Baldelli (Forza Italia) e Lanfranco Turci (Rosa nel Pugno), perché, a loro avviso, era stata prevista una sanzione disciplinare più leggera, rispetto al passato, contro gli assenteisti. Infatti, se con il precedente CCNL, sottoscritto sotto il governo Berlusconi, si poteva irrogare, almeno in teoria, una sanzione dura come il licenziamento, ora, invece, sarebbe possibile solo la sospensione dal servizio dagli 11 giorni ai 6 mesi. I parlamentari avevano anche promosso una lettera aperta al Governo affinché ponesse un veto su quel punto contestato. La reazione non si era fatta attendere, e sia il Ministro Nicolais, che il presidente dell'Aran, Massimo Masella Ducci Teri, avevano risposto, a mezzo stampa, che la nuova sanzione disciplinare, più soft rispetto al passato, si era resa necessaria perché il licenziamento dei dipendenti pubblici assenteisti (nel caso della falsificazione o manomissione dei cartellini marcatempo) era diventato praticamente impossibile a causa di alcune sentenze della Corte di Cassazione.
In generale la materia delle sanzioni disciplinari nel pubblico impiego è demandata dalla legge alla contrattazione collettiva. Infatti, l'art. 55, comma 3, del Decreto Legislativo 30 marzo 2001, n. 165 dispone che: «Salvo quanto previsto dagli articoli 21 e 53, comma 1, e ferma restando la definizione dei doveri del dipendente ad opera dei codici di comportamento di cui all'articolo 54, la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni è definita dai contratti collettivi». E' tutta in queste poche righe la differenza sostanziale tra lavoro pubblico e privato sul tema delle sanzioni disciplinari (l'altra differenza è di tipo procedurale e per il pubblico la materia è regolata dall'art. 7 dello Statuto dei Lavoratori). Infatti, nel settore privato, a differenza del pubblico, le disposizioni di cui agli artt. 2119 del Codice Civile (Recesso per giusta causa - «Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l'indennità indicata nel secondo comma dell'articolo precedente. Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell'imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell'azienda». Approfondimento: cosa è la giusta causa? La giusta causa è un inadempimento del lavoratore talmente grave da non consentire, anche in via provvisoria, la prosecuzione del rapporto di lavoro. Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha specificato che la giusta causa si sostanzia in un inadempimento talmente grave che qualsiasi altra sanzione diversa dal licenziamento risulti insufficiente a tutelare l'interesse del datore di lavoro (Cass. 24/7/03, n. 11516), al quale non può pertanto essere imposto l'utilizzo del lavoratore in un'altra posizione - Cass. 19/1/1989, n. 244 -.) e 3 della legge n. 604/66 (Norme sui licenziamenti individuali - «Il licenziamento per giustificato motivo con preavviso é determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa») mantengano la loro piena operatività quali dirette fonti del potere datoriale di procedere al licenziamento per motivi disciplinari.
Insomma, è più facile licenziare un dipendente del settore privato (peraltro esposto alla concorrenza nel mercato) che uno del pubblico. Bisogna anche sottolineare, inoltre, che affidare le sanzioni disciplinari alla contrattazione collettiva significa anche gettare la materia nelle braccia della concertazione sindacale; se poi aggiungiamo che il settore pubblico è il luogo più sindacalizzato del mondo del lavoro per eccellenza (e dove quindi il sindacato è più forte, dal punto di vista del potere contrattuale), diventa legittimo pensare che una svolta rigorista potrebbe rimanere ancora a lungo nel cassetto dei sogni.
Non sarebbe meglio abrogare la norma di privilegio del settore pubblico (l'art. 55, comma 3, del Decreto Legislativo 30 marzo 2001, n. 165) ed affidare la materia alla decretazione ministeriale e quindi direttamente al potere esecutivo, così da far terminare le continue litanie governative all'insegna del «vorrei ma non posso»? Ci guadagnerebbero tutti, compresi i tanti impiegati pubblici che lavorano sodo, i cittadini contribuenti e le imprese.
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