giovedì 25 marzo 2010

Per una corretta lettura dei dati sul mercato del lavoro in Italia



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

mercoledì 24 marzo 2010

Secondo gli ultimi dati diffusi mercoledì dall'Istat, «nel quarto trimestre 2009 il numero di occupati risulta pari a 22.922.000 unità, segnalando un calo rispetto allo stesso trimestre dell'anno precedente pari all'1,8% (-428.000 unità). La perdita dell'occupazione - prosegue l'istituto di statistica - è sintesi di una riduzione molto accentuata della componente italiana (-530.000 unità), a fronte di una crescita, con ritmi inferiori al passato, di quella straniera». E ancora: «In termini destagionalizzati, l'occupazione totale registra una flessione pari allo 0,2% rispetto al trimestre precedente. Il tasso di occupazione è pari al 57,1%, con una diminuzione di 1,4 punti percentuali rispetto al quarto trimestre 2008 (58,5%), mentre il numero delle persone in cerca di occupazione ha raggiunto il valore di 2.145.000 unità (+369.000), con un aumento del 20,8% rispetto al quarto trimestre 2008». Insomma, il tasso di disoccupazione (8,6% nel quarto trimestre 2009 e 7,8% su base annuale) continua a crescere, ma in maniera molto più contenuta rispetto a prima e colpisce soprattutto i lavoratori autonomi (tasso di occupazione - 3% rispetto allo stesso periodo del 2008) ed il settore industriale (-4,1% industria e -5,5% industria in senso stretto, in riferimento al quarto trimestre 2008).

Secondo uno studio dell'Inps sui tempi di reimpiego dei percettori di sussidio di disoccupazione, il 55% dei disoccupati ha trovato un nuovo lavoro dipendente nel corso del 2009. «Se sottraiamo coloro che sono andati in pensione durante il periodo di disoccupazione e coloro che hanno aperto una partita Iva, la percentuale di rioccupazione sale oltre il 57%», ha spiegato il presidente dell'istituto di previdenza sociale, Antonio Mastrapasqua. «Lo avevamo anticipato la scorsa settimana, nel corso del convegno organizzato nell'anniversario dell'assassinio di Marco Biagi. Oggi abbiamo i dati completi - aggiunge il presidente dell'Inps - che ci fanno dire che in un anno di crisi, qual è stato il 2009, il mercato del lavoro ha dato segnali di vitalità, di dinamismo e di flessibilità forse inattesi».

Lo studio sui tempi di reimpiego è stato condotto per la prima volta dall'Inps e ha utilizzato un campione assai numeroso: 397.414 soggetti beneficiari di assegno di disoccupazione ordinaria non agricola a partire da gennaio 2009. Seguendo la storia lavorativa di questi soggetti, a fine anno 2009 risultavano reimpiegati 217.343 disoccupati (circa il 55%), cui si devono aggiungere oltre 7.500 lavoratori che nel frattempo hanno raggiunto i requisiti per la pensione e almeno altre 10 mila persone che hanno aperto una partita Iva. I tempi di reimpiego risultano più brevi (da 1 a 3 mesi) per un numero più consistente di beneficiari: 41.334 dopo un mese (febbraio 2009), 28.647 dopo due mesi (marzo 2009) e 40.998 dopo tre mesi (aprile 2009). In complesso, circa il 51% (il 28% del totale dei beneficiari) dei reimpieghi avviene nei primi tre mesi. Il totale dei soggetti reimpiegati (217.343) è costituito per il 57% da uomini (123.996) e per il 43% (93.347) da donne. Nell'analisi per età si mostra che la fascia anagrafica tra i 40 i 49 anni rappresenta quella dove si manifesta il maggiore dinamismo: la percentuale di reimpiego supera in questo caso il 58%. Si ferma al 56,1% per gli under 39 e scende al 46,8% per gli over 50.

Secondo il ministro del lavoro, Maurizio Sacconi, «nel generale quadro negativo del 2009 è pur doveroso segnalare la crescita degli occupati anziani sopra i 55 anni quale probabile conseguenza della riforma Maroni della previdenza. Il mercato del lavoro, nel 2009, ha comunque mantenuto un relativo dinamismo, perché in base ai dati Inps il 54% di coloro che hanno perso un lavoro lo hanno ritrovato nel corso dello stesso anno. La buona tutela degli adulti - ha detto ancora Sacconi - ha consentito di sostenere le famiglie e con esse la coesione sociale. Un minuto dopo la formazione delle giunte regionali riconvocheremo il tavolo Stato-Regioni-Parti Sociali, non solo per verificare le residue risorse per ammortizzatori sociali in base all'effettivo impiego delle casse autorizzate, ma soprattutto per attuare le nuove linee guida in materia di formazione per "competenze in situazione produttiva" dei lavoratori e per lanciare uno specifico piano per l'occupazione dei più giovani attraverso tirocini e contratti di apprendistato. Insieme, Stato, Regioni e Parti Sociali - ha aggiunto il ministro - possono infatti combattere l'inattività garantendo almeno vera formazione in contesti lavorativi autentici o riprodotti».

Questi dati ci dicono che il mercato italiano del lavoro sta reggendo bene alle sollecitazioni imposte dalla crisi economica mondiale. Se è vero che ogni posto di lavoro perso è contemporaneamente un dramma personale e una sconfitta per tutto il sistema, è anche vero che, come ha ben ricordato Sacconi, nel nostro paese il tasso di disoccupazione è più basso di quello medio europeo e che la risposta concreta all'emorragia dei posti di lavoro è stata l'attivazione degli ammortizzatori sociali vecchi e nuovi (introdotti dal governo Berlusconi) e degli incentivi al reimpiego; due strumenti che, dati alla mano, stanno raggiungendo gli obiettivi prefissati. Grande merito va anche alle tante nostre piccole e medie imprese che hanno stretto i denti, tirato la cinghia e deciso di andare avanti e non chiudere pur tra mille difficoltà.

mercoledì 24 marzo 2010

Arbitrato e licenziamenti. La sinistra solleva il solito polverone


di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

mercoledì 17 marzo 2010

Nei giorni scorsi si è alzato un inutile polverone nel dibattito pubblico su alcune disposizioni contenute nel disegno di legge 1167-B, approvato definitivamente dal Senato il 3 marzo. In particolare, le polemiche hanno investito gli articoli 30 (Clausole generali e certificazione del contratto di lavoro) e 31 (Conciliazione e arbitrato) del testo. In sostanza, parte dell'opposizione di sinistra e la Cgil, peraltro isolata dal resto del mondo sindacale confederale, hanno accusato il governo e la maggioranza parlamentare di voler aggirare l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori attraverso l'arbitrato, che, di fatto, diventerebbe obbligatorio e, secondo loro, permetterebbe di licenziare con un semplice rimborso economico, evitando in questo modo il reintegro dei lavoratori ingiustamente licenziati.

Tralasciando il tema dell'utilità o meno dell'articolo 18 ai fini della salvaguardia concreta e non solo sulla carta dei diritti dei lavoratori, su cui prima o poi si dovrà aprire un dibattito pubblico sereno e scevro da dogmi e pregiudizi, vanno preliminarmente dette alcune cose fondamentali per chiarire come stanno veramente le cose e sgombrare il campo da ogni dubbio.

L'11 marzo scorso le parti sociali, eccetto la Cgil, hanno siglato una dichiarazione comune sull'arbitrato per escludere che la clausola compromissoria all'atto dell'assunzione sia applicata alla risoluzione del rapporto di lavoro, cioè ai licenziamenti. Il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, ha affermato che «il governo rispetterà nei propri eventuali atti la posizione espressa dalle parti, secondo la quale la clausola compromissoria all'atto dell'assunzione non possa riguardare la risoluzione del rapporto di lavoro». Nella sostanza, il ministro ha assicurato che se entro un anno - periodo previsto per l'entrata in vigore delle nuove norme - non fosse trovato un altro accordo tra le parti, in ogni caso l'arbitrato sarà escluso tra le possibilità per il giudizio sui licenziamenti al momento dell'assunzione di un dipendente. Sacconi ha inoltre detto di «apprezzare e condividere» la dichiarazione comune delle parti sociali, sottolineando la fiducia espressa dalle stesse «nella convenienza dell'arbitrato tanto per le imprese quanto per i lavoratori».

Per quanto riguarda il merito della questione, chi oggi urla in maniera scomposta contro l'arbitrato dovrebbe spiegare con quale altro strumento intende tutelare il lavoratore, visto che abbiamo una giustizia che risponde, nel migliore dei casi (pochi a dire il vero), in almeno 3 o 4 anni, rispedendo peraltro in una posizione indebolita nelle dinamiche aziendali. E dovrebbe dire perché vuole ostinatamente bloccare uno strumento utile come l'arbitrato in materia di controversie di lavoro, visto che questa tematica abbraccia non solo i licenziamenti ma anche, ad esempio, la richiesta di riconoscimenti di qualifiche salariali o i trasferimenti.

Per quanto concerne il metodo della vicenda, non può non far pensare a una strategia mirata il fatto che, nei due anni in cui si è svolto l'iter parlamentare del provvedimento in questione, coloro che oggi gridano alla lesa maestà dell'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori non hanno mai aperto bocca, salvo svegliarsi alla vigilia di un importante passaggio elettorale. Le motivazioni per cui qualcuno da sinistra ha sollevato un inutile polverone sul tema, chiare anche al più distratto osservatore dei fatti di questo paese, sono solo ed esclusivamente di natura politica e di visibilità sindacale. Qualcuno, noncurante dell'interesse collettivo, che dovrebbe essere quello di semplificare le norme in materia di lavoro non comprimendo i diritti dei lavoratori, ha pensato bene di fare lo strillone per cercare di raccattare un po' di consensi in vista delle elezioni regionali. Qualcun altro, invece, che per statuto dovrebbe fare gli interessi dei lavoratori, ha voluto fare un po' di polemica politica spicciola e, per non farsi mancare proprio niente, ha colto la palla al balzo per distinguersi, per l'ennesima volta, dalla linea moderata e concreta seguita dalla stragrande maggioranza dei sindacati, decidendo che per un po' di pubblicità in più vale la pena mettersi sempre di traverso, a prescindere dalla bontà o meno dei provvedimenti.

Immigrazione ed espulsioni: la sentenza n.5856 della Cassazione


di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
venerdì 12 marzo 2010

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5856 depositata lo scorso 11 marzo, ha stabilito che è consentita ai clandestini la permanenza in Italia per un periodo determinato solo in nome di «gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore se determinati da una situazione d'emergenza». Queste situazioni d'emergenza, però, non sono quelle che hanno una «tendenziale stabilità» come la frequenza della scuola da parte dei minori e il normale processo educativo formativo, che sono situazioni di «essenziale normalità». Se così non fosse, dice la Cassazione, le norme che consentono la permanenza per motivi d'emergenza anche a chi è clandestino finirebbero con il «legittimare l'inserimento di famiglie di stranieri strumentalizzando l'infanzia».

E' proprio quest'ultimo punto il dato fondamentale da cui partire. Non si può assolutamente usare l'infanzia come scudo di protezione per aggirare le leggi che regolano l'ingresso e la permanenza degli stranieri nel nostro paese. Inoltre è inutile gridare allo scandalo contro la decisione, perché la Suprema Corte valuta caso per caso e senza generalizzare e, nella specie, sembra che non ci sia un'unità famigliare da tutelare e che il diritto del minore non sia pregiudicato dall'allontanamento del padre. Prima di parlare a vanvera certi commentatori politici dovrebbero avere il buon gusto di analizzare attentamente le questioni di specie, leggersi per bene tutti gli atti su cui rilasciano dichiarazioni e fare almeno la cortesia di avere un minimo di preparazione culturale sul tema.

La sentenza, inoltre, ha rilevato il limite invalicabile: quello per cui l'espulsione non può comunque avvenire alla presenza di «gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico del minore se determinati da una situazione d'emergenza». Proprio per questo non si comprende perché qualcuno da sinistra parli di errore grave da parte della Cassazione o, addirittura, di razzismo.

E' alquanto inutile anche parlare di menomazione del diritto allo studio dei bambini stranieri - perché nel caso di specie l'allontanamento del genitore non va a inficiare l'esercizio di tale diritto - o di riduzione del tema dell'immigrazione a mero problema di ordine pubblico, perché la stessa Suprema Corte, in un'ipotetica scala dei diritti da difendere, ha messo al primo posto il sano e corretto sviluppo del minore e, in posizione subordinata, com'è giusto che sia, il rispetto della normativa nazionale in materia d'immigrazione.

L'errore grave sarebbe alimentare negli adulti l'idea di poter sfruttare i bambini per aggirare la normativa italiana. Il vero razzismo, inoltre, è quello degli ipocriti che prima discettano dai loro comodi salotti sull'apertura indiscriminata delle frontiere o sull'ammorbidimento delle norme in materia di espulsione, e poi scaricano i costi sociali di quest'operazione su chi vive nelle periferie delle città metropolitane o all'interno delle cittadelle-ghetto che sorgono all'interno delle cinture urbane (Chinatown et similia).

L'integrazione degli stranieri, se non vogliamo ripetere gli errori di tutti i modelli fin qui conosciuti e tutti miseramente falliti, non può certo passare attraverso gli schemi semplicistici di chi vuole estremizzare il fenomeno dell'immigrazione aprendo le porte a tutti senza cacciare nessuno o, al contrario, sigillando le frontiere e cacciando tutti. E' bene, invece, mettere dei paletti chiari e precisi nella gestione del fenomeno, partendo dal presupposto che in primis viene il rispetto della dignità umana e poi tutto il resto. Inoltre, far rispettare le regole in materia d'ingresso e permanenza sul territorio nazionale, con razionalità e senza inutili rigidità o pericolosi lassismi, spesso è la strada più giusta da intraprendere per salvaguardare proprio la dignità umana dei diretti interessati. Si tratta di persone che vanno via dai loro paesi natii in cerca di una vita migliore e per questo né loro né i loro cari possono essere presi in giro dalle chiacchiere da salotto di chi sfrutta la loro condizione di migranti economici (nella stragrande maggioranza dei casi) solo per una stupida questione ideologica o per un aberrante tornaconto economico.

giovedì 11 marzo 2010

La civiltà di un paese si misura anche sulla condizione delle carceri



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

mercoledì 10 marzo 2010

«Dei circa 67mila detenuti oggi presenti nelle 206 carceri italiane, 1 su 3 è straniero, 1 su 4 è tossicodipendente e considerevole è anche la percentuale di detenuti con malattie mentali. Tutto questo va ad aggravare le già pesanti condizioni lavorative delle donne e gli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria, oggi sotto organico di ben 5mila unità». L'ha affermato il sindacato di Polizia Penitenziaria Sappe, rilevando che «il dato importante da considerare è che i detenuti affetti da tossicodipendenza o malattie mentali, come ogni altro malato limitato nella propria libertà, sconta una doppia pena: quella imposta dalle sbarre del carcere e quella di dover affrontare la dipendenza dalle droghe o il disagio psichico in una condizione di disagio, spesso senza cure adeguate e senza il sostegno della famiglia o di una persona amica».

Durante il suo intervento al convegno organizzato nei giorni scorsi dal Sappe, dal titolo «Immigrazione e tossicodipendenza. Carcere, ambiente e territorio», il segretario del sindacato, Donato Capece, ha detto che di fronte a questi numeri il piano carceri è una prima importante risposta, ma bisogna fare di più: non si può non riflettere anche sui modelli di custodia. In primis, secondo Capece, bisognerebbe rafforzare i compiti investigativi della polizia penitenziaria e affrontare le carenze di organico del personale. Su questa linea anche il sottosegretario alla Giustizia, Giacomo Caliendo, secondo il quale il governo deve fare uno sforzo ulteriore rispetto ai duemila rinforzi che «rischiano di essere insufficienti».

Il sottosegretario ha affermato che la presenza di immigrati negli istituti penitenziari italiani è prevalente nel Nord-Italia, dove si arriva anche al 70%, e che i problemi da affrontare sono molteplici e tutti preceduti dalla necessità di creare un ponte di comprensione linguistica, senza la quale è difficile anche rapportarsi a quelle che sono le richieste più elementari. Anche «di fronte alla piaga della tossicodipendenza, così tristemente presente anche nella nostra popolazione di immigrati, la Polizia Penitenziaria - ha aggiunto il sottosegretario - è stata capace di creare una rete di raccordo con gli operatori interni ed esterni al carcere, tale da consentirne una efficace e concreta partecipazione al recupero». Secondo il capo del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, inoltre, la polizia penitenziaria non deve svolgere solo il ruolo del custode del cancello ma anche l'importante compito di cogliere i segnali di disagio dei detenuti.

Il governo ha risposto al sovraffollamento degli istituti penitenziari italiani varando un piano approvato a metà gennaio in Consiglio dei Ministri. Non è stata scelta la strada dell'indulto, come venne fatto invece nel 2006 dal Parlamento durante la Legislatura in cui governava il centrosinistra, che svuota un po' le carceri per poco tempo, non risolve alcun problema ma, anzi, aggrava la situazione relativa all'ordine pubblico.

Alla base del piano varato dal ministro Alfano c'è la dichiarazione dello stato di emergenza in cui versa attualmente il sistema penitenziario italiano, che durerà fino al 31 dicembre di quest'anno. Quindi gli interventi di edilizia penitenziaria, con la costruzione, entro l'anno, di 47 nuovi padiglioni utilizzando il modello adottato per il dopo-terremoto a L'Aquila. A partire dal 2011, poi, saranno realizzate, sotto la supervisione del capo del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria e Commissario straordinario per l'emergenza, Franco Ionta, le altre strutture previste dal Piano. Complessivamente, tali interventi porteranno alla creazione di 21.709 nuovi posti negli istituti penitenziari e al raggiungimento di una capienza totale di 80mila unità. Per realizzare tutto ciò, saranno utilizzati 500milioni di euro già stanziati in Finanziaria e altri 100milioni di euro provenienti dal bilancio della Giustizia. Sul piano normativo, saranno introdotte novità al sistema sanzionatorio, per prevedere, da un lato, la possibilità della detenzione domiciliare per chi deve scontare solo un anno di pena residua e, dall'altro, la messa alla prova delle persone imputabili per reati fino a tre anni, che potranno così svolgere lavori di pubblica utilità con conseguente sospensione del processo. Il Piano del Guardasigilli, infine, prevede l'assunzione di 2000 nuovi agenti di Polizia Penitenziaria.

giovedì 4 marzo 2010

Occupazione e ammortizzatori sociali. Il sistema tiene



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

mercoledì 03 marzo 2010

Secondo i dati diffusi nei giorni scorsi dall'Istat, in Italia il numero di occupati a gennaio 2010 è pari a 22 milioni 904 mila unità (dati destagionalizzati), sostanzialmente invariato rispetto a dicembre e inferiore dell'1,3% (-307 mila unità) rispetto a gennaio 2009. Il tasso di occupazione è pari al 57% (-0,1% rispetto a dicembre 2009 e -1% se confrontato con gennaio 2009). Il numero delle persone in cerca di occupazione risulta pari a 2 milioni 144 mila unità, in crescita dello 0,2% (+5 mila unità) rispetto al mese precedente e del 18,5% (+334 mila unità) rispetto a gennaio 2009. Il tasso di disoccupazione è pari all'8,6% (con una variazione congiunturale sostanzialmente nulla ma in crescita di 1,3 punti percentuali rispetto a gennaio 2009). Il tasso di disoccupazione giovanile è pari al 26,8%, con una crescita di 0,3 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 2,6 con riferimento a gennaio 2009.

In estrema sintesi, si potrebbe dire che il tasso di disoccupazione continua a crescere, trainato soprattutto dalla componente giovanile della forza lavoro, ma non in maniera drammatica come alcuni vorrebbero far credere. Ovviamente anche la perdita di un solo posto di lavoro è un evento che genera sofferenza, ma è altrettanto vero che il compito di un esecutivo è di garantire la tenuta del sistema occupazionale, per combattere l'emorragia di posti di lavoro, e quella degli ammortizzatori sociali, per non lasciare indietro nessuno. Dati alla mano, il governo ha fatto la sua parte. La conferma ci arriva dai numeri e dalle cose fatte: nel 2009 il tiraggio per la cassa integrazione ordinaria è stato del 61% rispetto al 70% dello stesso periodo del 2008, mentre per la straordinaria il consumo si è fermato al 68% delle ore autorizzate contro l'86% dello stesso periodo dell'anno precedente; la creazione della cassa integrazione in deroga ha dato una copertura sociale ad alcune attività lavorative che prima non avevano alcuna forma di garanzia; l'attivazione della task force da parte del ministero dello Sviluppo Economico, per affrontare gli effetti della crisi, ha gestito nel 2009 più di 150 tavoli che hanno coinvolto oltre 300 mila lavoratori; gli interventi a favore delle piccole e medie imprese, che sono l'ossatura non solo del nostro sistema economico, ma anche quella del lavoro privato in Italia, hanno permesso a queste realtà di poter rispondere in maniera efficace alle sfide dettate dalla crisi economica mondiale attraverso la scelta di puntare sulla qualità, l'innovazione e l'internazionalizzazione.

La crisi si fa sentire ed il nostro paese, nonostante i vari avvoltoi anti-italiani sempre pronti con la sfera di cristallo in mano a prevedere un futuro a tinte fosche, sta reggendo bene e meglio di altri partner europei tanto osannati fino a qualche tempo fa. Nella Spagna del tanto lodato Zapatero, considerata ancora un anno fa l'Eden da molti analisti economici, ad esempio, i disoccupati sono arrivati ad essere più di 4 milioni (il tasso è al 19%) con aumento di quasi 650 mila persone rispetto allo stesso periodo dello scorso anno (+18,6%). E altrove la situazione non è migliore. Nel Vecchio Continente, infatti, la percentuale di persone in cerca di lavoro è rimasta ferma a gennaio sia nell'area euro (al 9,9%) che nell'Ue a 27 (9,5%). Guardando ai singoli paesi, secondo l'Eurostat, la disoccupazione si è attestata al 7,5% in Germania (invariata rispetto a dicembre), al 10,1 in Francia (+0,1% sul mese precedente) e al 9,7% negli Stati Uniti.
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