martedì 28 aprile 2009

Immigrazione: serve un accordo con i paesi africani



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

lunedì 27 aprile 2009


Il caso della nave Pinar con 145 immigrati africani a bordo, fonte di un duro scontro diplomatico tra Italia e Malta sulla responsabilità dei soccorsi, ha riacceso i riflettori su un problema che non attira l'attenzione dei grandi media: l'Africa e la sua povertà e, come conseguenza di questa situazione, un continuo flusso di persone in movimento in cerca di fortuna verso l'Europa. La tragica scomparsa della 18enne di origini nigeriane, con in grembo il corpicino del suo bimbo mai nato, morta annegata durante la traversata del Canale di Sicilia, getta un tremendo senso di sconforto sull'analisi di un evento che deve spingere i vertici dell'Ue a mettersi subito intorno ad un tavolo per mettere in campo una serie di interventi in grado di intraprendere un percorso che porti alla graduale diminuzione del fenomeno dei viaggi della speranza dall'Africa verso i nostri paesi. Non a caso si parla di «percorso» perché la strada è lunga e tortuosa.

Innanzitutto le istituzioni comunitarie dovrebbero iniziare a mettere in piedi una duplice strategia:

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maggiori controlli, attraverso il rafforzamento dell'agenzia comunitaria Frontex, per migliorare soprattutto il coordinamento dei pattugliamenti nel Mediterraneo, più soldi ai paesi rivieraschi maggiormente esposti al fenomeno degli sbarchi (ma anche a quelli più sensibili al problema degli overstayers - gli stranieri entrati legalmente in un paese che vi restano oltre il tempo stabilito dalle leggi e che, quindi, prolungano la loro permanenza in maniera illegale), più soldi a chi opera maggiori soccorsi in mare aperto e si presta poi a fornire tutti i servizi necessari per l'assistenza delle persone soccorse;
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uno stretto accordo di cooperazione economica con l'Unione Africana che porti anche alla creazione di strutture miste (con uomini della Ue e della UA) per il controllo e la gestione dei piani di sviluppo in territorio africano, che dovranno essere rivolti con particolare riguardo verso i paesi di provenienza degli immigrati che arrivano in Europa.

Il primo punto potrebbe essere messo in pratica con una certa celerità perché dipende dall'accordo tra paesi del sud del Vecchio Continente da una parte e quelli del centro e del nord Europa dall'altro. L'erogazione dei finanziamenti sarebbe il frutto di questo accordo ma con tutta probabilità si dovrebbe aspettare il 2013 per una diversa ripartizione dei soldi visto che tutti e quattro i fondi del programma generale «Solidarietà e gestione dei flussi migratori» sono congelati fino a quella data [ Fondo Europeo per i rifugiati (2008-2013); Fondo per le frontiere esterne (2007-2013); Fondo europeo per l'integrazione dei cittadini dei paesi terzi (2007-2013); Fondo europeo per i rimpatri (2008-2013)].

Il più problematico è il secondo punto della strategia, perché se l'Unione Africana è una realtà affidabile con cui rapportarsi, lo stesso non può dirsi di alcune classi dirigenti locali di alcuni paesi, che nel migliore dei casi sono erose dal morbo della corruzione e nel peggiore non esistono o non sono assolutamente credibili a causa dei conflitti armati che affliggono il Continente nero. E' chiaro, quindi, che non possono più essere i singoli stati europei a sobbarcarsi gli oneri economici e diplomatici per cercare di migliorare la gestione di alcune problematiche relative ai flussi di immigrati che arrivano dall'Africa (come ad esempio ha dovuto fare l'Italia con la Libia), ma i vertici comunitari a nome e per conto di tutti i paesi dell'Unione Europea.

Queste strategie, tuttavia, soprattutto alla luce della drammatica situazione in cui versano alcuni paesi africani, non potranno che proiettarsi in un lungo percorso, che può essere quantificato in decine di anni, per avere riscontri visibili e duraturi. Il tutto e subito non esiste e prima si inizieranno a porre in essere le basi per la creazione di questi piani e meglio sarà per tutti. Il secondo vertice tra l'Unione Europea e l'Africa, svoltosi a Lisbona nel 2007, si concluse con l'adozione di un piano d'azione per il periodo 2008-2010 in cui i temi fondamentali furono soprattutto il commercio (EPA - Accordi di partenariato economico - che trovarono la forte opposizione dei paesi africani alla richiesta europea di liberalizzare il settore del commercio delle merci e dei servizi) e la sicurezza. Sarebbe utile che al prossimo vertice il primo punto in agenda fosse quello della cooperazione economica per lo sviluppo di alcune zone dell'Africa e la diminuzione dei flussi di immigrati verso l'Europa, insieme alla stabilizzazione di alcune zone del Continente nero.

venerdì 24 aprile 2009

Il «caso Pinar»


di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

mercoledì 22 aprile 2009


La nave turca Pinar aveva soccorso un folto gruppo di immigrati in difficoltà nel Mediterraneo centrale, a poco più di 40 miglia al largo di Lampedusa, ed avrebbe dovuto sbarcarli a Malta, che dovrebbe - il condizionale è d'obbligo in questa vicenda - essere responsabile per i soccorsi in quello spazio marittimo. Come ben sappiamo, le cose sono andate diversamente, con il «no» di Malta allo sbarco, la breve situazione di stallo e la conclusione della vicenda con il via libera della Farnesina per l'approdo in Italia e con il relativo indurimento dei rapporti diplomatici tra il nostro paese e La Valletta.

Il «caso Pinar» non è una questione di poco conto, da far passare in scioltezza come se nulla fosse accaduto, perché Malta, oltre ad essere responsabile di quella porzione del Mediterraneo, riceve anche soldi dall'Ue nell'ambito delle politiche di gestione dei flussi di immigrati verso il Vecchio Continente. Il Fondo per le frontiere esterne, uno dei quattro strumenti finanziari del programma generale «Solidarietà e gestione dei flussi migratori», ha introdotto un meccanismo di solidarietà finanziaria a favore degli Stati membri che sostengono, nell'interesse della Comunità Europea, un onere finanziario pesante e duraturo che è conseguenza dell'attuazione di norme comuni in materia di controllo e sorveglianza delle frontiere esterne. Non stiamo certo parlando di briciole, perché il budget del Fondo, per il periodo 2007-2013, è pari a 1.820 milioni di euro. Circa 1.543 milioni sono distribuiti fra gli Stati membri sulla base di criteri che rispecchiano l'onere sostenuto da ciascuno Stato per il controllo delle frontiere esterne e la politica dei visti; 109 milioni di euro sono gestiti direttamente dalla Commissione e destinati ad azioni comunitarie; 60 milioni di euro per azioni specifiche ai valichi di frontiera strategici in base alle analisi dei rischi dell'Agenzia di pattugliamento delle coste (Frontex). All'Italia sono stati destinati 211 milioni di euro per il periodo 2007-2013, mentre a Malta 112 milioni. L'Italia è il secondo paese beneficiario del fondo in termini di maggiori entrate (il primo è la Spagna) anche se sarebbe davvero auspicabile fare pressione sulla Commissione Ue per aumentare il flusso di denaro nell'ambito del prossimo programma pluriennale, visto che la nostra è la nazione più esposta nel Vecchio Continente.

Il commissario Ue per la Giustizia, Libertà e Sicurezza, Jacques Barrot, ha organizzato un incontro con il ministro dell'Interno Roberto Maroni e il collega maltese Carmelo Mifsud Bonnici per capire meglio i termini del «caso Pinar» e per evitare il ripetersi di tali situazioni in futuro. Nel frattempo, Barrot ha ricevuto un dossier dal nostro paese, in cui si chiedono all'Ue tre interventi: definire anche a livello europeo regole per stabilire «chi è responsabile dove» per quanto riguarda gli interventi di salvataggio in acque Sar (Search and rescue) extraterritoriali, che comunque è una materia già regolata dal diritto internazionale; reimpostare le operazioni Frontex per il pattugliamento dei confini esterni dell'Ue e avere dagli altri partner europei maggiore solidarietà, sia essa in termini economici o di «gestione» dei profughi; modificare il sistema di ripartizione per paesi del Fondo Ue per le frontiere esterne, che oggi è basato sulla dimensione delle acque Sar controllate da ogni singolo paese ma che, più auspicabilmente, dovrebbe invece essere rapportato agli interventi di salvataggio realmente effettuati.

Ha fatto bene il nostro governo a muoversi in questa direzione, perché qui c'è un errore di fondo da parte dei vertici comunitari nella gestione dei flussi migratori verso l'Europa. Innanzitutto occorre far capire che aiutare ancora di più il nostro paese in termini economici non vuol certo dire finanziare impropriamente l'Italia, ma semmai diminuire l'impatto di alcune problematiche legate all'immigrazione che interessano tutti gli altri paesi europei, soprattutto quelli del nord, che sono spesso la meta finale di chi passa per i nostri territori. Altra questione riguarda Frontex, l'Agenzia che dovrebbe coordinare i pattugliamenti misti nel Mediterraneo, che dovrebbe essere al più presto migliorata e potenziata con maggiore decisione, perché i controlli in mare sono utili e fungono da deterrente solo se se vengono fatti seriamente. Resta inevasa anche la problematica relativa alla cooperazione economica con i paesi di provenienza degli immigrati, che non può essere certo lasciata ai singoli Stati o alla gestione delle sole Ong, ma dovrebbe essere presa in mano dall'Ue.

Insomma, i problemi sul piatto sono tanti e prima si fa chiarezza su certe questioni e meglio riusciremo ad affrontare alcune situazioni, come quella della nave Pinar, che diventano emergenze di carattere umanitario perché non c'è una buona gestione comunitaria dei flussi di immigrati verso l'Europa, con l'aggiunta che qualcuno, sfruttando questa manacnza, cerca di fare il furbo.

domenica 19 aprile 2009

Per le europee meno chiacchiere e più impegni concreti


di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

venerdì 17 aprile 2009

Antonio Di Pietro, replicando giovedì su Ecoradio alle critiche che Dario Franceschini ha fatto sulla sua candidatura di bandiera alle elezioni europee, ha affermato che «non bisogna aver fatto politica per fare politica. Bisogna avere le mani pulite. Io come leader di un partito devo portare questa squadra in Europa. Lo fa Berlusconi, lo fa Bossi, lo fanno gli altri leader e sarebbe assurdo di fronte ad una maggioranza prepotente che da questa parte nessuno abbia la voglia e il coraggio di sfidarli. Prendo atto che Franceschini non lo voglia, non lo debba e non lo possa fare ma fuggire è un atto di vigliaccheria politica». Nella coalizione di centrosinistra manca poco alla fase del «volo degli stracci» tra Partito Democratico e Italia dei Valori. I primi sono sulla difensiva e si stanno avvicinando con preoccupazione alle prossime consultazioni elettorali (europee ed amministrative), dove sarà possibile, in base ai risultati, capire quale sarà il futuro del partito e cioè se continuerà l'esperienza politica del Pd oppure se le strade degli ex diessini e degli ex popolari si divideranno definitivamente.

E' oramai evidente che nessuno dei leaders del Pd, ognuno supportato da ragioni differenti, ha voglia di mettere la faccia sul risultato del partito di Franceschini alle prossime consultazioni elettorali. Infatti se non lo fa colui che guida il partito perché dovrebbero farlo gli altri? Anche uno degli uomini più in vista dell'era Veltroni, Goffredo Bettini, il vero regista dell'ascesa alla carica di segretario del Pd dell'ex sindaco di Roma (ora anche ex segretario del partito), ha deciso di fare un passo indietro e, con una lettera pubblicata giovedì sul quotidiano Il Messaggero, ha spiegato le ragioni della sua scelta, criticando anche la composizione delle liste («lasciano in me più di una perplessità per un assetto che risente di quel regime correntizio che ho cercato di combattere con tutte le mie forze»).

Dalle parti di Di Pietro, invece, la situazione è differente. L'obiettivo è quello di superare ampiamente il risultato delle ultime elezioni politiche ( 4,371 % alla Camera e 4,315 % al Senato). Ogni punticino in più sarà certamente fatto pesare dal leader dell'Italia dei Valori nel rapporto turbolento che comunque lo lega ancora al Pd, soprattutto se il partito di Franceschini dovesse uscire dalle urne con più di qualche punto percentuale in meno rispetto alle consultazioni politiche (33,174 % alla Camera e 33,695 % al Senato).

L'unica cosa di cui non si parla però, tra una battuta sulla vigliaccheria politica e un'altra sulla candidabilità o meno dei leaders dei partiti, è su cosa e per cosa si batteranno i nostri eurodeputati una volta eletti e, soprattutto, se saranno presenti ed attivi in Parlamento e nelle commissioni. Sarebbe interessante sapere se si attiveranno per migliorare l'attività di alcune agenzie semi-sconosciute ai più ma che svolgono compiti che ci interessano direttamente come ad esempio Frontex, l'Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell'Unione europea, molto importante nel quadro delle politiche di contrasto all'immigrazione clandestina. Secondo lo stesso capo della citata agenzia, il finlandese Illka Laitinen, «più pattugliamenti della Ue nel Mediterraneo hanno fallito l'obiettivo di ridurre l'afflusso di immigrati verso l'Italia, Malta e la Grecia» (Sunday Times di Malta, 21 settembre 2008 ). Ecco che a tal proposito, ad esempio, i candidati alle europee ci dovrebbero dire se sono favorevoli al rafforzamento di Frontex e all'aumento dei pattugliamenti nel Mediterraneo, al fine di contribuire al miglioramento della lotta all'immigrazione clandestina e alla tratta degli esseri umani e non certo per creare improbabili ed inutili frontiere-muraglia buone solo per essere scavalcate. Oppure se, come le sinistre hanno fatto fino ad ora in Europa, si attiveranno per arrivare ad un ridimensionamento se non addirittura alla chiusura di questa agenzia.

Ma questo è solo uno dei tanti temi su cui si potrebbe aprire un interessante dibattito in vista delle consultazioni europee. Peccato, invece, che la discussione sia focalizzata sulle presunte vigliaccherie politiche e sull'opportunità o meno delle candidature dei leaders.

giovedì 2 aprile 2009

Il Piano Casa del Governo Berlusconi


di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

mercoledì 01 aprile 2009

Come recita il comunicato stampa diffuso al termine del Consiglio dei Ministri di mercoledì scorso l'intesa raggiunta a Palazzo Chigi prevede che le «Regioni approvino nel termine di tre mesi proprie leggi per disciplinare interventi volti a migliorare la qualità architettonica ed il risparmio energetico, entro il limite del venti per cento della volumetria esistente, di edifici residenziali uni-bifamiliari o comunque di cubatura non superiore a 1000 metri; le leggi regionali disciplineranno altresì interventi straordinari di demolizione e ricostruzione, con ampliamento per edifici a destinazione residenziale entro il limite del trentacinque per cento della volumetria esistente, al fine di migliorarne qualità architettonica ed efficienza energetica, nonché di utilizzare energie rinnovabili. Saranno esclusi da questi interventi tutti gli edifici abusivi ed i centri storici, nonché altre aree che le Regioni riterranno opportuno rendere inalterabili.

Il ruolo dello Stato si esplicherà con il varo di un prossimo decreto-legge che al fine di velocizzare e semplificare le procedure rimuoverà, ove possibile ed opportuno (nonché d'intesa con le Regioni), i vincoli superabili. Il Governo avvierà in sinergia con Regioni ed autonomie locali uno studio per un ulteriore intervento di politica abitativa teso a soddisfare il fabbisogno di soggetti disagiati che abbiano difficoltà ad accedere al libero mercato degli immobili in affitto. Particolare attenzione, infine, sarà dedicata alla tutela della sicurezza del lavoro nei cantieri».

E' chiaro che siamo dinanzi ad un atto importantissimo che avrà ricadute positive sul piano del rilancio dell'economia nazionale e del mercato occupazionale. Per quanto riguarda il primo punto, il ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, ha giustamente ricordato che «secondo un'indagine di Banca d'Italia del 2007, il patrimonio immobiliare e finanziario complessivo degli italiani ammonta a oltre 8 mila miliardi di euro, mentre l'85% delle famiglie abita in una casa in proprietà». Per il ministro «ci sono dunque tutte le condizioni per mobilitare grandi risorse e contribuire all'uscita dalla crisi. Basterebbe che solo il 10% delle famiglie utilizzasse le opportunità offerte dal Piano Casa per mettere in moto investimenti per 50-60 miliardi».

Secondo la Cgia di Mestre, l'impatto occupazionale dovuto all'applicazione del piano potrebbe creare, chiaramente in più anni, almeno 745.000 nuovi posti di lavoro. E' stato stimato, infatti, che l'applicazione su tutto il territorio nazionale del provvedimento in materia di ristrutturazione ed ampliamenti dell'edilizia residenziale privata dovrebbe dar origine ad un giro di affari, spalmato in più anni, di 79 miliardi di euro. Partendo da questo assunto si è analizzata la serie storica della produttività per addetto del settore casa e di tutta la filiera registrata negli ultimi anni arrivando a calcolare, alla luce del nuovo impatto economico, nuovi addetti per 745.000 unità. Sempre secondo l'associazione degli artigiani, ipotizzando che tutte le Regioni adottino il piano edilizio, il 30,3% del giro di affari verrà dal Sud (23,9 mld di euro), il 27% proverrà dal Nordovest (21,3 mld), il 21,8% dal Centro (17,2 mld) ed il 20,9% dal Nordest (16,5 mld).

La chiusura dell'accordo con le Regioni pone dunque fine alle sterili critiche dell'opposizione, che oramai non sa più cosa dire dinanzi alle iniziative del governo che sta rispondendo concretamente agli impegni presi in campagna elettorale e alle difficili sfide dettate dalla crisi economica mondiale. Con un solo atto, infatti, sono stati raggiunti tre obiettivi: dare una risposta ad alcuni problemi relativi all'edilizia residenziale, coniugando sviluppo e sostenibilità ambientale degli interventi; alimentare con il nuovo giro di affari lo sviluppo economico del paese; stimolare il mercato del lavoro ed incrementare la produzione di nuovi posti. Insomma da un lato (governo e maggioranza che lo sostiene) si continua a porre in essere fatti concreti per lo sviluppo del paese mentre dall'altro (centrosinistra) si risponde solo con inutili polemiche e nessuna contro-proposta concreta.

mercoledì 1 aprile 2009

Il pacchetto precari nel decreto sugli incentivi alle imprese



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

martedì 31 marzo 2009

In questi giorni è in discussione alla Camera il disegno di legge di conversione in legge del decreto-legge n. 5 del 2009 recante «Misure di sostegno dei settori industriali in crisi». Nel corso del passaggio del testo presso le Commissioni riunite VI (finanze) e X (attività produttive) di Montecitorio è stato introdotto l'art. 7-ter che reca una serie di misure urgenti in materia di occupazione.

I primi 3 commi intervengono su alcune procedure riguardanti la concessione degli strumenti di tutela del reddito, allo scopo di semplificare e razionalizzare le stesse e agevolare i soggetti beneficiari. In particolare si autorizza l'Inps al pagamento diretto contestualmente all'autorizzazione del trattamento di CIGS; si stabilisce un termine di 20 giorni dall'inizio della sospensione o riduzione dell'orario di lavoro per la richiesta di pagamento diretto da parte delle imprese all'Inps, in caso di CIG straordinaria e di CIG in deroga, per le sospensioni successive al 1° aprile 2009; si autorizza l'Inps ad anticipare i trattamenti di integrazione salariale in deroga (quindi per coloro che non ne usufruivano prima e cioè lavoratori atipici e precari) con richiesta di pagamento diretto sulla base della domanda corredata dagli accordi conclusi dalle parti sociali e dell'elenco dei beneficiari.

I commi da 4 a 10 recano modifiche alla disciplina degli ammortizzatori sociali in deroga con la previsione, tra le altre cose, dell'erogazione, da parte dell'Inps, di un incentivo per i datori di lavoro, le cui aziende non siano interessate da trattamenti di CIGS (quindi non con personale in esubero), che assumano lavoratori destinatari, per il 2009-2010, di ammortizzatori sociali in deroga, che siano stati licenziati o sospesi da specifiche imprese. E' previsto anche che possono essere disposte proroghe delle concessioni degli ammortizzatori sociali in deroga con durata non superiore a 12 mesi, nel limite degli stanziamenti previsti.

Si interviene, inoltre, sull'istituto sperimentale di tutela del reddito per i lavoratori a progetto in possesso di specifici requisiti (limitatamente al triennio 2009-2011, nei limiti di specifiche risorse e nei soli casi di fine lavoro), introdotto dal comma 2 dell'articolo 19 del D.L. 185/2008, che riconosce una somma liquidata in un'unica soluzione pari al 20% del reddito percepito l'anno precedente (in precedenza era il 10%).

Insomma il governo, in attesa della auspicabile riforma degli ammortizzatori sociali, è intervenuto una seconda volta per allargare le maglie delle coperture sociali a favore di chi ne era rimasto sempre fuori e cioè la galassia dei lavoratori atipici ed i precari. Cosa aveva fatto invece il governo di centrosinistra a favore di questi giovani lavoratori? Nulla a favore. Anzi gli aveva messo le mani in tasca all'epoca della traduzione in legge del famoso protocollo sul welfare, aumentandogli l'aliquota contributiva, per finanziare con quei soldi il superamento del cosiddetto scalone Maroni delle pensioni. In pratica hanno agevolato la comoda e ben remunerata uscita dal lavoro di qualche 55enne con contratto a tempo indeterminato (quindi fortemente tutelato) con i soldi dei giovani lavoratori atipici (la stragrande maggioranza dei casi al di sotto dei 35 anni).

L'esecutivo di centrodestra ha quindi iniziato a porre fine ad una ingiustizia palese che esiste da oramai troppo tempo nel mondo del lavoro, dove ci sono giovani lavoratori con poche coperture sociali, in caso di perdita del posto di lavoro, ed altri che hanno tutte le garanzie possibili ed immaginabili. L'idea è quella di iniziare ad allargare le garanzie a tutela del reddito a chi prima non ne aveva, ovviamente sempre nel limite delle risorse disponibili. Il centrosinistra, invece, a parole si riempie la bocca di slogan a tutela delle medesime categorie ma nei fatti, ed è quello che conta, quando è stato al governo ha solo allargato i privilegi di chi già ne aveva tanti e per pagarli ha messo le mani in tasca proprio a coloro che dice di voler difendere (atipici e precari).
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