martedì 19 luglio 2011

Combattere il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
martedì 19 luglio 2011

La crisi c'è e nessuno dice il contrario. L'importante è valutare bene qual è il suo andamento e non perdersi nell'oblio del «tutto va male» perché una giusta analisi della situazione è importante non solo per studiare gli effetti delle turbolenze dei mercati sull'economia reale, ma è anche la base necessaria per prendere le contromisure idonee per uscire dalle sabbie mobili.

Secondo il rapporto «Economia, lavoro e fiscalità nel terziario di mercato», realizzato dall'Ufficio Studi Confcommercio, dopo il picco raggiunto nel 2010 dai lavoratori in Cassa integrazione e dagli scoraggiati, nel primo semestre del 2011 si sono manifestati i primi timidi segnali di un'inversione di tendenza con un ridimensionamento delle ore di Cig autorizzate per tutti i tipi d'intervento, anche se i livelli sono ancora nettamente superiori a quelli registrati nell'analogo periodo del 2009 sia per la Cig straordinaria sia per quella in deroga; dal punto di vista territoriale, si conferma il dualismo Nord-Sud sul versante delle dinamiche occupazionali (con il primo più reattivo e il secondo stazionario); si accentuano le criticità sul versante della disoccupazione giovanile, che supera il 29%; i contratti flessibili - a tempo determinato e stagionali - soprattutto nei servizi di mercato, hanno reagito più prontamente al riassorbimento di occupazione dopo la crisi (con un incremento di oltre 60 mila occupati nel I semestre 2010 rispetto al I semestre 2009) rispetto a quelli a tempo indeterminato (-214 mila occupati nello stesso periodo); in generale, nonostante l'area dei servizi di mercato si confermi come quella che contribuisce maggiormente ad attutire i cali occupazionali nelle fasi negative del ciclo economico, con i tassi medi di incremento registrati nei primi cinque mesi del 2011 e in assenza di misure di stimolo alla crescita economica, le perdite occupazionali patite durante la recessione saranno assorbite soltanto nel 2017.

Il problema principale resta sempre quello: garantire alla popolazione un livello occupazionale tale, e un giusto guadagno, per rispondere al meglio alle esigenze della vita quotidiana. Tutte le analisi ci dicono che nei prossimi anni la domanda di lavoro si rivolgerà maggiormente verso le professioni qualificate.

Secondo il bollettino trimestrale del Sistema informativo Excelsior di Unioncamere sono state complessivamente programmate dalle imprese 162.600 assunzioni tra luglio e settembre: 29.200 assunzioni di figure dirigenziali, scientifiche e tecniche (il 18% del totale); le figure impiegatizie e terziarie di livello intermedio saranno poco più di 76.000 (46,8%), le figure operaie e non qualificate quasi 57.300 (35,2%). Se limitiamo il campo solo a quest'ultime, i numeri si restringono fino ad arrivare a 23.860 assunzioni. In pratica nell'ambito delle nuove assunzioni i profili professionali non qualificati saranno solo 1 su 7. Nonostante il periodo di crisi, in cui l'offerta di lavoro dovrebbe essere ampia, per il 17,2% delle figure da assumere (con un picco del 20% per quelle non stagionali) le imprese segnalano difficoltà di reperimento. E il tasso di difficoltà diventa maggiore quando si tratta di professioni qualificate: professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione 25,7%; operai specializzati 24%; professioni tecniche 19,8%; conduttori di impianti e operai semiqualificati addetti a macchinari fissi e mobili 17,7%; professioni qualificate nelle attività commerciali e nei servizi 16,9%; impiegati 14,5%. Per i profili non qualificati, invece, la percentuale di difficoltà si attesta a un modesto 8,4%.

Il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro resta dunque un problema complesso su cui intervenire in diversi ambiti: istruzione, passaggio scuola-lavoro, formazione. Sappiamo che sono stati già fatti dei passi importanti con la riforma Gelmini e l'accordo Governo-Regioni dello scorso anno sulla formazione professionale. Ora è arrivata anche la tanto attesa riforma dell'apprendistato, e cioè dello strumento che meglio di tutti è in grado di rispondere alle esigenze del mercato del lavoro e di contrastare il fenomeno del disallineamento.

Avere posti liberi e giovani a spasso è un lusso che, con tutta evidenza, non ci possiamo più permettere. Tanto più che quasi 64 mila nuove assunzioni (il 39,3% del totale) sono esplicitamente orientate verso giovani al di sotto dei 30 anni e a questi se ne aggiungeranno sicuramente altre 59 mila senza indicazione di una preferenza di età.

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venerdì 15 luglio 2011

Giovani e lavoro: l'analisi del Cnel



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
venerdì 15 luglio 2011

I dati che ci fornisce il Cnel sulla disoccupazione giovanile ci offrono un giudizio sostanzialmente pessimista, che prende in considerazione i numeri nudi e crudi senza tenere in debito conto alcuni aspetti più profondi che riguardano il rapporto tra i giovani italiani ed il mercato del lavoro.

Secondo il Rapporto del Cnel, infatti, sul «Mercato del lavoro 2010-2011» aumentano i giovani che non lavorano e né studiano: sono circa il 28,8% solo nella fascia tra i 25-30 anni. In crescita anche gli «scoraggiati» . «L'economia italiana - riporta lo studio - è troppo debole per imprimere una svolta alla domanda di lavoro: a fronte di una crescita fra lo 0,5 e l'1% del Pil, le unità di lavoro nel 2011 registreranno ancora una flessione e il tasso di disoccupazione potrebbe salire ancora per qualche trimestre». L'uscita dalla crisi «è molto lenta e l'attuale quadro economico dell'Italia non garantisce il recupero dei posti di lavoro persi» e il rischio disoccupazione riguarda soprattutto i giovani.

Si aggrava il fenomeno dei neet (not in education or training nor in employment), cioè chi risulta fuori dal mercato del lavoro e non è impegnato in un processo di formazione. I dati mostrano che «se prima della crisi il tasso di neet si aggirava attorno al 16% tra i più giovani (16-24 anni) e al 24% tra i giovani adulti (25-30 anni), tali percentuali sono rapidamente aumentate, salendo rispettivamente al 18,6 e al 28,8% nel terzo trimestre del 2010». Il Cnel spiega che «la crisi aggrava le probabilità dei giovani di restare nella condizione di neet, così come aumenta in modo preoccupante lo "scoraggiamento" di chi addirittura rinuncia a cercare lavoro».
La recessione ha inoltre inciso sul passaggio dai contratti a termine a quelli a tempo indeterminato: «prima della crisi - secondo lo studio - quasi il 31% dei giovani con contratto temporaneo passava l'anno successivo ad un lavoro permanente, contro poco più del 22% attuale». Riguardo alla formazione si osserva che sebbene i laureati siano più facilitati se il titolo coincide con la domanda di lavoro, resta ampio e crescente il fenomeno dell'overeducation, dato anche che le minori opportunità professionali aumentano la disponibilità dei laureati ad accettare lavori che richiedono livelli d'istruzione più bassi.

In sostanza il Cnel ci dice che la crisi economica mondiale ha inciso negativamente nella partecipazione dei giovani e mercato del lavoro determinando: un alto tasso di disoccupazione, l'aumento dei neet, la diminuzione della percentuale di chi passa dai contratti a termine a quelli a tempo indeterminato.

E' utile, però, procedere con ordine e parlare del problema relativo all'alto tasso di disoccupazione dei giovani. La crisi in Italia ha colpito soprattutto le nuove generazioni che, storicamente, sono tra i soggetti più deboli nel mercato del lavoro insieme alle donne. Come mai? Le turbolenze nel mercato del lavoro dell'ultimo decennio hanno investito prima di tutto chi aveva un contratto a termine. Se un'azienda va male e non riesce più a essere competitiva sul mercato, la prima cosa che fa è non rinnovare quel tipo di contratto che, come si sa, è proprio quello con cui vengono assunti la maggior parte dei giovani. Durante la crisi il tasso di disoccupazione giovanile è aumentato sensibilmente, passando dal circa 20% del 2007 al poco più del 29% di oggi.

Secondo Luca Ricolfi la situazione sarebbe ben diversa: nel momento peggiore della crisi (ossia nel 2009), su 100 giovani di età compresa tra i 15 e 24 anni i disoccupati erano meno di 8, il 7,4 per cento per la precisione. Come mai questa vistosa discrepanza tra il 29% delle statistiche ufficiali e il 7,4% di Ricolfi? Egli spiega che «il tasso di disoccupazione delle statistiche ufficiali non è quello del senso comune, ma viene commentato come se lo fosse. Se ti dico che il tasso di disoccupazione giovanile è al 30 per cento, tu pensi che su 100 giovani 30 siano disoccupati. Invece significa che su 100 «giovani attivi» 30 non trovano lavoro. Chi sono i giovani attivi secondo le statistiche? Sono quelli che già lavorano più quelli che cercano attivamente un lavoro.
Ma in Italia i giovani che scelgono di lavorare sono pochissimi, appena il 29,1 per cento, contro il 40,4 in Francia, il 45,1 in Spagna, il 52 in Germania, il 59,8 per cento nel Regno Unito, per rimanere ai paesi con cui di solito ci compariamo. Ecco perché il nostro tasso di disoccupazione è così alto: perché viene calcolato sulla minoranza che ha scelto di lavorare. E gli altri che fanno? Secondo le statistiche ufficiali, su 70 giovani che hanno scelto di stare fuori del mercato del lavoro circa 50 studiano e 20 non fanno nulla: non lavorano, non cercano lavoro, non stanno imparando un mestiere, non studiano. Sono i cosiddetti giovani neet, acronimo inglese di «Not in education, employment or training». In questo, effettivamente, siamo primi: in Europa non c'è un solo paese in cui la percentuale di neet sia alta come da noi.

Parliamo del problema dei neet. Questo fenomeno mette in discussione sia il funzionamento dei sistemi scolastici superiori sia le politiche del lavoro rivolte alle nuove generazioni, e non si tratta certamente di una specificità tutta italiana. Anche paesi come ad esempio la Gran Bretagna, in cui c'è sia un alto tasso di scolarità che di occupazione, hanno rilevato l'insorgenza del problema da almeno 20 anni. Bisogna distinguere: nella fascia 16-24 anni questo problema investe più marcatamente il mondo della scuola secondaria e dell'università e si sostanzia con la scelta di abbandonare prima del termine il proprio percorso di studio senza però scegliere al contempo la via del lavoro; nella fascia 25-30 anni, invece, l'attenzione va rivolta sulla difficoltà di accesso nel mercato del lavoro e lo scarso appeal del nostro sistema di formazione.

Come se ne esce? Innanzitutto cercando di migliorare la scuola secondaria superiore e l'università. Non a caso il governo Berlusconi è intervenuto riformando il sistema dell'istruzione. Indipendentemente dai giudizi che si possono avere nel merito, va dato atto che è stato un passo fondamentale e necessario per rispondere in parte proprio al problema dei neet.

Poi c'è la questione riguardante i canali di accesso al mercato del lavoro e il problema della formazione. Come si è mosso il governo? Con il miglioramento dei percorsi di formazione professionale, con la riforma dell'apprendistato e con una serie di altri interventi che riguardano anche il contrasto alla disoccupazione (fenomeno che riguarda chi cerca attivamente lavoro ma non lo trova), come ad esempio la Cabina di Regia per l'attuazione del Piano di azione per l'occupabilità dei giovani, il Fondo Mecenati, e la disposizione presente nella manovra economica che prevede che i giovani che decideranno di costituire una nuova attività imprenditoriale pagheranno un'imposta ridotta al 5% per i primi 5 anni di attività. Poi ci sarebbe da fare un discorso anche sulla liberalizzazione delle professioni, poiché è evidente a tutti che l'attuale sistema non funziona e che non bastano pochi correttivi per aumentare le possibilità dei giovani di crescere nel settore ma servirebbe, invece, un intervento più netto e deciso che porti all'abolizione degli ordini professionali.

Per quanto riguarda, invece, il passaggio dai contratti a termine a quelli a tempo indeterminato è interessante guardare le statistiche redatte da Almalaurea. Secondo gli ultimi dati disponibili (XIII edizione - Condizione occupazionale dei laureati) nell'intervallo 2004 - 2009, la quota di laureati nella popolazione di età 30-34 è cresciuta dal 16 al 19%. Un livello molto lontano da quello, pari al 40%, che la Commissione Europea ha individuato come obiettivo strategico da raggiungere entro il 2020. Sempre secondo la stessa indagine, circa la metà dei laureati (48,7% lavora, 27,5% non lavora e non cerca e 23,7% non lavora ma cerca) lavora ad un anno dal conseguimento del titolo. I ragazzi che hanno un lavoro stabile sono il 36% (26,9% tempo indeterminato e 9,1% autonomo) mentre gli atipici sono il 46% (21,6% tempo determinato, 19,9% collaborazione/consulenza, 6,5% altro contratto atipico) e i senza contratto il 10,2%. A tre anni dalla laurea, invece, le cose cambiano in meglio: il 69, 5% lavora, il 18% non lavora e non cerca e il 12,4% non lavora ma cerca. Ha un lavoro stabile il 60,2% degli intervistati (45,8% ha un contratto a tempo indeterminato, il 14,4 autonomo) mentre gli atipici sono il 30,4% (14% tempo determinato, 14,1% collaborazione/consulenza, 2,3% altro contratto atipico). Ancora meglio a 5 anni dal conseguimento del titolo di studio. L'80,2% lavora: il 68,6% ha un lavoro stabile (46,5% indeterminato e 22,1% autonomo), il 27,4% uno atipico (15,3% a tempo determinato, 10,7% collaborazione/consulenza, 1,5% altro contratto atipico) mentre il 2,1% è senza alcun contratto. I disoccupati sono l'11,4% mentre gli inattivi l'8,4%. In pratica lo studio ci dice che a 5 anni dalla laurea aumenta il tasso di occupazione tra i giovani (all'interno del quale aumentano gli stabili e diminuiscono sensibilmente le quote di atipici e lavoratori in nero) e diminuiscono le percentuali dei disoccupati e degli inattivi.

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mercoledì 13 luglio 2011

Giovani: servono stipendi più alti e riequilibrare il welfare


di Antonio Maglietta 13 luglio 2011

Secondo i risultati che emergono dal primo anno di lavoro del progetto 'Welfare, Italia. Laboratorio per le nuove politiche sociali', realizzato da Censis e Unipol, il 42% dei lavoratori dipendenti fra i 25 e i 34 anni di oggi andrà in pensione intorno al 2050 con meno di mille euro al mese. Attualmente i dipendenti in questa fascia di età, che guadagnano una cifra inferiore a mille euro, sono il 31,9%. Ciò significa che molti si troveranno ad avere dalla pensione pubblica un reddito addirittura più basso di quello che avevano a inizio carriera. E la previsione riguarda i più fortunati, cioè i 4 milioni di giovani oggi ben inseriti nel mercato del lavoro con contratti standard. Poi ci sono un milione di giovani autonomi o con contratti atipici e 2 milioni di giovani che non studiano né lavorano.
La ricerca evidenzia che il problema delle pensioni non è risolto. L'Italia resta uno dei paesi più vecchi e longevi al mondo e nel 2030 gli over 64 anni saranno più del 26% della popolazione: ci saranno 4 milioni di persone non attive in più e 2 milioni di attivi in meno. Il sistema pensionistico, sottolinea il rapporto, dovrà confrontarsi con seri problemi di compatibilità ed equità. Se le riforme delle pensioni degli anni '90 hanno garantito la sostenibilità finanziaria a medio termine del sistema, oggi a preoccupare è il costo sociale della riduzione delle tutele per le generazioni future. A fronte di un tasso di sostituzione del 72,7% calcolato per il 2010, nel 2040 i lavoratori dipendenti beneficeranno di una pensione pari a poco più del 60% dell'ultima retribuzione (andando in pensione a 67 anni con 37 anni di contributi); mentre i lavoratori autonomi vedranno ridursi il tasso fino a -40% (a 68 anni con 38 anni di contributi).

Prima di aggiungere altro va fatta un’importante considerazione preliminare sul contenuto dello studio Censis-Unipol. La ricerca si basa su dati proiettati da qui a 30-40 anni e cioè in un periodo troppo ampio che non tiene conto degli eventuali miglioramenti che possono intervenire nella carriera di ognuno dal punto di vista reddituale. Senza contare, inoltre, che il rapporto si basa ovviamente solo sullo status quo. Come la storia anche recente insegna, il Legislatore italiano è intervenuto più volte negli ultimi 20 anni in materia di previdenza, anche con una certa lungimiranza, negli anni ’90 con la cosiddetta riforma Dini e nel 2004 durante il governo Berlusconi, mettendo in scurezza il nostro sistema pensionistico. Tranne lo scellerato intervento dell’ultimo governo Prodi, che mise le mani nelle tasche dei giovani lavoratori parasubordinati con l’aumento delle aliquote previdenziali per finanziare una comoda e ricca uscita dal lavoro di qualche 55enne già ultraprotetto dal contratto a tempo indeterminato, è possibile affermare che le ultime iniziative legislative in materia sono state molto positive.

Fatta questa necessaria e fondamentale premessa, va aggiunto che c’è necessità di organizzare sempre più forme di previdenza e assistenza complementari.
Il Rapporto Svimez 2009 aveva segnalato l'anomalia del sistema del welfare italiano soprattutto nella sua composizione, troppo sbilanciata verso i trattamenti previdenziali, ai quali destina circa il 20% in più degli altri partners europei. «Per quel che riguarda la spesa per le politiche di sostegno al reddito, nei casi di disoccupazione o di corsi di formazione per il reinserimento nel mercato del lavoro, restano forti differenze tra i vari Stati europei: la media dell'Ue è del 5,6% sul totale ma varia tra il 12% di Belgio e Spagna e il 2% dell'Italia. La riorganizzazione e razionalizzazione della spesa sociale passa attraverso la realizzazione di politiche di welfare to work, puntando sempre più su un'inclusione attiva nel mercato del lavoro. Ma tale obiettivo è condizionato dal sistema previdenziale, in particolare per quel che riguarda la sua sostenibilità finanziaria. Oggi l'Italia è tra ipartners Ue quello con la maggiore incidenza degli oneri previdenziali sul totale delle prestazioni sociali».

Quindi, dati alla mano, è sui giovani lavoratori che si scaricano tutti i costi sociali. In pratica chi ha oggi tra i 25 e i 34 anni, ha 1 possibilità su 3 di avere uno stipendio sotto i 1000 euro al mese, poche prestazioni a sostegno del reddito in caso di disoccupazione o formazione per il reinserimento nel mercato del lavoro, e quasi 1 possibilità su 2 di percepire una pensione, quando sarà il momento, al di sotto dei 1000 euro al mese. Non è proprio una bella prospettiva se si pensa che questi dovrebbero anche essere quelli inseriti a stento nel già ristretto lotto dei fortunati dalla ricerca Unipol-Censis.

I problemi strutturali che affliggono i giovani lavoratori, quindi, sono sostanzialmente tre: gli stipendi bassi, la sproporzione nella composizione del welfare italiano, troppo sbilanciato sui trattamenti previdenziali e troppo poco sulle prestazioni a sostegno del reddito, le possibili pensioni basse.

Percepire uno stipendio basso significa, tra le altre cose:
- dover spendere la maggior parte del reddito a disposizione per i prodotti di prima necessità, tanto per intenderci quelli indispensabili per vivere dignitosamente, come l'alimentazione, l’affitto o il mutuo per la casa, la spesa per i trasporti necessari per recarsi al lavoro, il vestiario di necessità;
- limitare la libertà di scelta nell’indirizzare la spesa per i consumi;
- diminuire la capacità di risparmiare;
- avere una pensione bassa, con poche possibilità di integrarla attraverso le forme pensionistiche complementari e praticamente nessuna con quello che viene definito il terzo pilastro previdenziale.

Avere un welfare troppo poco attento alle prestazioni a sostegno del reddito, oltre a minare le politiche per l’abbattimento della povertà, riduce il sistema di protezione sociale per i soggetti che più ne hanno bisogno, i giovani appunto, che nella maggior parte dei casi lavorano con contratti diversi da quello a tempo indeterminato e, quindi, rischiano periodi di buco nel corso della propria carriera. Questo rischio, oltre a non essere coperto da un sistema di ammortizzatori sociali universali, incide negativamente anche sulla pensione futura visto che con l’entrata in vigore del sistema contributivo valgono solo i contributi effettivamente versati e che la continuità è essenziale nella composizione di un reddito da pensione dignitoso per affrontare con una certa serenità la propria vecchiaia.

Bisognerebbe, quindi, alzare gli stipendi e riequilibrare la composizione del welfare italiano. In che modo? Innanzitutto va detto che in Italia, secondo il rapporto Taxing wages dell’Ocse, il cuneo fiscale (le imposte sul reddito e i contributi previdenziali a carico del lavoratore e del datore di lavoro, ridotti degli assegni famigliari) è più elevato di circa il 10% rispetto alla media OCSE. A questa già pesante criticità va aggiunto che il quadro italiano è reso ancora peggiore dall'elevata inefficienza della spesa pubblica. Secondo uno studio della Confcommercio, infatti, considerando una pressione fiscale equivalente, l'Italia presenta un indice di performance inferiore del 10% rispetto alla Francia, del 15% rispetto alla media dei 17 Paesi considerati nella ricerca e del 25% rispetto all’Austria. L’Italia associa, quindi, uno tra i più bassi indici di performance del settore pubblico a una delle più elevate pressioni fiscali.
Il Governo compatibilmente con il mantenimento della stabilità dei conti pubblici, potrebbe intervenire per combattere tutte queste criticità diminuendo il cuneo fiscale, per agevolare l’aumento del reddito da lavoro, e rimodulare altresì la composizione del welfare, anche puntando su un forte rilancio delle forme di assistenza e previdenza complementari. I sindacati e le rappresentanze datoriali dovrebbero sostenere queste scelte e i datori di lavoro, nel limite del possibile, mettere mano al portafoglio e iniziare a riconoscere uno stipendio migliore ai propri dipendenti (almeno ai più bravi).

martedì 5 luglio 2011

Una boccata d'ossigeno per l'imprenditoria giovanile



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
martedì 05 luglio 2011

Secondo i dati elaborati da InfoCamere, società consortile di informatica delle Camere di commercio italiane, tra dicembre 2005 e dicembre 2010 i titolari di imprese individuali con meno di trent'anni, iscritti nei registri delle Camere di commercio, sono diminuiti di 43.624 unità. Nell'ambito della diminuzione complessiva di imprese individuali avvenuta in Italia negli ultimi 5 anni (124.686), una cessazione su tre ha riguardato attività con titolari sotto i trent'anni anni di età.

Secondo un rapporto redatto dall'Ocse sull'imprenditoria, basato su dati del 2009, l'Italia è uno tra gli ultimi Paesi nell'area Ocse per volume di finanziamenti alle aziende giovani con potenziale di crescita, il cosiddetto «venture capital». In Italia i finanziamenti di venture capital sono fermi allo 0,005% del Pil, nettamente inferiori al livello registrato in Germania (0,03%), Francia e Gran Bretagna (entrambe allo 0,05%). Solo Polonia, Ungheria e Lussemburgo, nell'area Ocse, hanno una quota inferiore a quella italiana. Lo sviluppo di questo tipo di finanziamento - ricorda l'Ocse - «è considerato un'importante condizione-quadro per lo sviluppo dell'imprenditoria», dato che fornisce capitali a imprese che non sempre riescono ad accedere al credito bancario.

A questi dati bisogna aggiungere che il nostro sistema si basa sulle piccole e medie imprese. La stessa Ocse riconosce che l'Italia è tra i Paesi in cui il ruolo delle piccole e medie imprese è più rilevante, sia in termini di numero che di impatto sull'occupazione. In Italia le imprese con meno di 10 dipendenti sono 3 milioni e 688 mila, il 94,4% del totale, e quelle con 10-20 dipendenti oltre 140 mila, il 3,7%. Cifre che collocano il nostro Paese al settimo posto nell'area Ocse per percentuale di Pmi, e al terzo tra i Paesi dell'euro. Per quanto riguarda il contributo all'occupazione, le piccole e medie aziende rappresentano in Italia circa il 40% dei posti di lavoro, con quasi 7 milioni e 300 mila occupati in imprese con meno di 10 dipendenti, e 1 milione 825 mila in imprese con 10-20 dipendenti. Questo significa che i dati negativi sull'imprenditoria giovanile italiana devono preoccupare ancora di più, dato che questa criticità si riversa in un settore che genera oltre 9 milioni di posti di lavoro nel nostro Paese.

La posizione dell'Ocse sulle politiche di sostegno riservate alle Pmi italiane è fatta di luci e ombre. In Italia mancava una figura di riferimento solo per le Pmi: ora è arrivata Rete Imprese Italia, realtà creata da Confcommercio, Confartigianato, Cna, Confesercenti e Casartigiani, verso la quale sono riposte grandi aspettative da parte di tutti. Il risultato migliore raggiunto dal nostro Paese è stata la riduzione degli oneri burocratici per l'avvio d'impresa (i costi per lo start-up si sono allineati alla media Ocse), mentre l'Italia è ancora indietro in quanto a investimenti pubblici per l'innovazione, che sono di molto inferiori a quelli che devono sostenere le imprese stesse per riuscire a restare competitive.

Il governo sta cercando di dare una risposta concreta a queste problematiche con interventi normativi, sgravi fiscali, fondi, meno burocrazia e un sistema informativo semplice per conoscere le opportunità sul tappeto. Innanzitutto parliamo del Fondo Mecenati, fortemente voluto dal ministro della Gioventù, Giorgia Meloni. Esso mette sul piatto 40 milioni di euro per la promozione dell'imprenditoria giovanile. L'agevolazione è riservata a tutti i giovani fino a 35 anni che propongano progetti sotto forma di persone giuridiche private, sia singole che associate, in ambito culturale: musica, cinema, teatro, arte, moda, design e tecnologia. Queste iniziative saranno finanziate fino al 40% dei costi, fino ad un massimo di 3 milioni di euro, dovranno avere un respiro nazionale, essere attuate in non meno di tre Regioni, e rispettare il principio delle pari opportunità.

Inoltre, grazie alle disposizioni presenti nella manovra economica da poco licenziata dal governo, i giovani che decideranno di costituire una nuova attività imprenditoriale pagheranno un'imposta ridotta al 5% per i primi 5 anni di attività. Il beneficio sarà riconosciuto a condizione che:

* il contribuente non abbia esercitato, nei tre anni precedenti, attività artistica, professionale ovvero d'impresa, anche in forma associata o familiare;
* l'attività da esercitare non costituisca, in nessun modo, mera prosecuzione di altra attività precedentemente svolta sotto forma di lavoro dipendente o autonomo, escluso il caso in cui l'attività precedentemente svolta consista nel periodo di pratica obbligatoria ai fini dell'esercizio di arti o professioni;
* qualora venga proseguita un'attività d'impresa svolta in precedenza da altro soggetto, l'ammontare dei relativi ricavi, realizzati nel periodo d'imposta precedente quello di riconoscimento del predetto beneficio, non sia superiore a 30.000 euro.

Si tratta del regime fiscale più conveniente d'Europa, che certamente spingerà molti giovani ad investire su se stessi e ad intraprendere una iniziativa in proprio.

Sempre su impulso del ministro della Gioventù, finanziato attraverso il Fondo delle politiche giovanili, è stato creato il portale Giovane Impresa, con l'obiettivo di diffondere, consolidare e sviluppare la cultura d'impresa tra i giovani, presupposto indispensabile per incentivare la nascita di nuove iniziative imprenditoriali e creare nuove opportunità di lavoro.

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venerdì 1 luglio 2011

L'accordo sulla rappresentanza sindacale e la validità dei contratti



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
giovedì 30 giugno 2011

Dopo una trattativa tutt'altro che facile e scontata, è stata siglata l'intesa tra la Confindustria e i sindacati confederali (Cgil, Cisl e Uil) su un documento comune in materia di validità dei contratti e rappresentatività delle sigle sindacali. Sul tema è possibile fare una premessa, parlare dei contenuti dell'accordo e fare almeno tre considerazioni.

La premessa: questo testo non sostituisce l'accordo quadro del 2009, non firmato dalla Cgil, anche perché riguarda temi differenti. Quello del 2009 aveva ad oggetto la riforma degli assetti contrattuali, mentre quest'ultimo riguarda le nuove regole per la rappresentanza sindacale, le garanzie di efficacia per gli accordi firmati dalla maggioranza dei rappresentanti dei lavoratori, la definizione degli ambiti di interesse dei contratti nazionali e di quelli aziendali.

Veniamo al contenuto dell'accordo. La rappresentanza. Per la certificazione della rappresentatività delle sigle sindacali per la contrattazione collettiva nazionale di categoria, faranno fede i dati associativi riferiti alle deleghe relative ai contributi sindacali conferite dai lavoratori (certificate dall'Inps). Questi dati verranno poi trasmessi al Cnel e ponderati con i consensi ottenuti nelle elezioni periodiche delle rappresentanze sindacali unitarie, da rinnovare ogni tre anni. Per la legittimazione a negoziare sarà necessario che il dato di rappresentatività così realizzato per ciascuna organizzazione sindacale superi il 5% del totale dei lavoratori della categoria cui si applica il contratto collettivo nazionale di lavoro. La media ponderata tra deleghe e voti nelle elezioni delle Rsu (rappresentanze sindacali unitarie) è un buon compromesso, che da un lato pone uno sbarramento tale da evitare di conferire legittimazione a soggetti non certo rappresentativi, e dall'altro attenua ma certamente non spegne le polemiche sul reale livello di rappresentatività dei confederali.

L'altro punto fondamentale sul quale è stata raggiunta l'intesa è quello della validità dei contratti. Un contratto collettivo aziendale sarà valido se firmato dalla maggioranza delle Rsu e, nel caso fosse approvato dalle Rsa (rappresentanze sindacali aziendali), dovrà essere sottoposto al voto dei lavoratori a seguito di una richiesta avanzata, entro 10 giorni dalla conclusione del contratto, da almeno una organizzazione firmataria dell'accordo o almeno dal 30% dei lavoratori dell'impresa. Per la validità della consultazione sarà necessaria la partecipazione del 50% più uno degli aventi diritto al voto. L'intesa sarebbe respinta con il voto espresso dalla maggioranza semplice dei votanti. Inoltre, se i contratti aziendali stabiliscono regole di tregua sindacale, i sindacati devono rispettarle. L'accordo prevede anche che i contratti collettivi aziendali che definiscono clausole di tregua sindacale finalizzate a garantire l'esigibilità degli impegni assunti con la contrattazione collettiva, abbiano effetto vincolante esclusivamente per tutte le rappresentanze sindacali dei lavoratori ed associazioni sindacali firmatarie dell'accordo interconfederale operanti all'interno dell'azienda, e non per i singoli lavoratori. E' chiaro che si tratta di un passo fondamentale in tema di esigibilità dei contratti aziendali, laddove s'impegnano le organizzazioni sindacali a rispettarli, instaurando anche una sorta di pax che sicuramente avrà effetti benefici sul difficile terreno delle relazioni industriali e sugli accordi per lo sviluppo delle realtà produttive. Si introduce, inoltre, una pluralità nei modelli di rappresentanza e la definizione condivisa di regole per decidere a maggioranza anche nei casi in cui esistano forti divergenze.

Altra decisione molto importante, raggiunta per via pattizia, è stata quella di disporre che i contratti collettivi possano prevedere, anche in via temporale e sperimentale, modifiche rispetto ai contratti nazionali.

La prima considerazione, che tocca punti che vanno oltre i contenuti dell'accordo, riguarda il tema dell'unità sindacale. Dopo molto tempo si registra un comune impegno da parte delle tre sigle dei confederali a sottoscrivere accordi importanti senza imboccare derive isolazioniste. Susanna Camusso è stata molto coraggiosa e lungimirante nella scelta di riportare la Cgil sulla via della contrattazione ragionevole, lontana dall'alzare barricate a tutti i costi. Ha capito, forse, che l'isolamento non era utile né per il futuro del sindacato che guida e neppure per gli interessi dei lavoratori che rappresenta. E' pur vero, però, che questa decisione ha comportato uno strappo prevedibile in seno alla stessa Cgil.

E qui va fatta la seconda considerazione. I vertici della Fiom-Cgil hanno duramente criticato la scelta della Camusso di mettere la firma sull'accordo. Sono volate parole grosse tra la stessa Camusso e il leader dei metalmeccanici rossi, Maurizio Landini. La Fiom contesta al vertice dell'organizzazione di cui fa parte di aver avallato un accordo che non solo non prevede il voto di tutti i lavoratori, ma indebolisce il contratto nazionale, aprendo alle deroghe su cui per anni è stato detto no. Indipendentemente da come andrà a finire lo scontro interno alla Cgil, quest'ultimo avvenimento è la riprova che la Camusso non controlla un pezzo importante della sua organizzazione e che la Fiom, da rappresentante dei metalmeccanici, ormai parla a nome dell'universo mondo dei lavoratori, infischiandosene delle posizioni prese dai vertici della sigla confederale a cui appartiene.

La terza e ultima considerazione riguarda la questione Fiat. La minaccia del Lingotto di uscire da Confindustria resta d'attualità. L'accordo raggiunto da imprenditori e sindacati sui contratti e sulle rappresentanze non ha dato le risposte attese dall'amministratore delegato Sergio Marchionne. Nonostante l'intesa unitaria sui contratti, l'ad di Fiat, in una lettera inviata a Emma Marcegaglia, ha avvertito che l'azienda, in assenza di garanzie, alla fine del 2011 uscirà da Confindustria. L'accordo raggiunto ieri tra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, si legge nella lettera, è «sicuramente un risultato di grande rilievo», però «spero che il lavoro prosegua con ulteriori passi che ci consentano di acquisire quelle garanzie di esigibilità necessarie per la gestione degli accordi raggiunti per Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco». In caso contrario, Fiat e Fiat Industrial «saranno costrette ad uscire dal sistema confederale con decorrenza dal 1° gennaio 2012».

Il nodo Fiat dev'essere risolto, e per questo il governo sta valutando una legge ad hoc. Il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, ha dichiarato che «è evidente che il caso Fiat andrà risolto, vedremo come. Ma certo sarebbe assurdo che, una volta deposte le armi e trovata un'intesa unitaria sulle regole, permanesse una situazione di conflitto a Pomigliano e Mirafiori, da cui è nato lo stesso accordo tra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil». Potrebbe esserci quindi una legge per recepire l'intesa unitaria. «Valuteremo - ha spiegato Sacconi in un'intervista a Repubblica - in particolare il comportamento degli stessi attori sociali coinvolti nelle vicende dei due stabilimenti. Non possiamo dimenticarci che quel tavolo negoziale è stato aperto per dare certezze agli accordi aziendali».

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