mercoledì 13 luglio 2011

Giovani: servono stipendi più alti e riequilibrare il welfare


di Antonio Maglietta 13 luglio 2011

Secondo i risultati che emergono dal primo anno di lavoro del progetto 'Welfare, Italia. Laboratorio per le nuove politiche sociali', realizzato da Censis e Unipol, il 42% dei lavoratori dipendenti fra i 25 e i 34 anni di oggi andrà in pensione intorno al 2050 con meno di mille euro al mese. Attualmente i dipendenti in questa fascia di età, che guadagnano una cifra inferiore a mille euro, sono il 31,9%. Ciò significa che molti si troveranno ad avere dalla pensione pubblica un reddito addirittura più basso di quello che avevano a inizio carriera. E la previsione riguarda i più fortunati, cioè i 4 milioni di giovani oggi ben inseriti nel mercato del lavoro con contratti standard. Poi ci sono un milione di giovani autonomi o con contratti atipici e 2 milioni di giovani che non studiano né lavorano.
La ricerca evidenzia che il problema delle pensioni non è risolto. L'Italia resta uno dei paesi più vecchi e longevi al mondo e nel 2030 gli over 64 anni saranno più del 26% della popolazione: ci saranno 4 milioni di persone non attive in più e 2 milioni di attivi in meno. Il sistema pensionistico, sottolinea il rapporto, dovrà confrontarsi con seri problemi di compatibilità ed equità. Se le riforme delle pensioni degli anni '90 hanno garantito la sostenibilità finanziaria a medio termine del sistema, oggi a preoccupare è il costo sociale della riduzione delle tutele per le generazioni future. A fronte di un tasso di sostituzione del 72,7% calcolato per il 2010, nel 2040 i lavoratori dipendenti beneficeranno di una pensione pari a poco più del 60% dell'ultima retribuzione (andando in pensione a 67 anni con 37 anni di contributi); mentre i lavoratori autonomi vedranno ridursi il tasso fino a -40% (a 68 anni con 38 anni di contributi).

Prima di aggiungere altro va fatta un’importante considerazione preliminare sul contenuto dello studio Censis-Unipol. La ricerca si basa su dati proiettati da qui a 30-40 anni e cioè in un periodo troppo ampio che non tiene conto degli eventuali miglioramenti che possono intervenire nella carriera di ognuno dal punto di vista reddituale. Senza contare, inoltre, che il rapporto si basa ovviamente solo sullo status quo. Come la storia anche recente insegna, il Legislatore italiano è intervenuto più volte negli ultimi 20 anni in materia di previdenza, anche con una certa lungimiranza, negli anni ’90 con la cosiddetta riforma Dini e nel 2004 durante il governo Berlusconi, mettendo in scurezza il nostro sistema pensionistico. Tranne lo scellerato intervento dell’ultimo governo Prodi, che mise le mani nelle tasche dei giovani lavoratori parasubordinati con l’aumento delle aliquote previdenziali per finanziare una comoda e ricca uscita dal lavoro di qualche 55enne già ultraprotetto dal contratto a tempo indeterminato, è possibile affermare che le ultime iniziative legislative in materia sono state molto positive.

Fatta questa necessaria e fondamentale premessa, va aggiunto che c’è necessità di organizzare sempre più forme di previdenza e assistenza complementari.
Il Rapporto Svimez 2009 aveva segnalato l'anomalia del sistema del welfare italiano soprattutto nella sua composizione, troppo sbilanciata verso i trattamenti previdenziali, ai quali destina circa il 20% in più degli altri partners europei. «Per quel che riguarda la spesa per le politiche di sostegno al reddito, nei casi di disoccupazione o di corsi di formazione per il reinserimento nel mercato del lavoro, restano forti differenze tra i vari Stati europei: la media dell'Ue è del 5,6% sul totale ma varia tra il 12% di Belgio e Spagna e il 2% dell'Italia. La riorganizzazione e razionalizzazione della spesa sociale passa attraverso la realizzazione di politiche di welfare to work, puntando sempre più su un'inclusione attiva nel mercato del lavoro. Ma tale obiettivo è condizionato dal sistema previdenziale, in particolare per quel che riguarda la sua sostenibilità finanziaria. Oggi l'Italia è tra ipartners Ue quello con la maggiore incidenza degli oneri previdenziali sul totale delle prestazioni sociali».

Quindi, dati alla mano, è sui giovani lavoratori che si scaricano tutti i costi sociali. In pratica chi ha oggi tra i 25 e i 34 anni, ha 1 possibilità su 3 di avere uno stipendio sotto i 1000 euro al mese, poche prestazioni a sostegno del reddito in caso di disoccupazione o formazione per il reinserimento nel mercato del lavoro, e quasi 1 possibilità su 2 di percepire una pensione, quando sarà il momento, al di sotto dei 1000 euro al mese. Non è proprio una bella prospettiva se si pensa che questi dovrebbero anche essere quelli inseriti a stento nel già ristretto lotto dei fortunati dalla ricerca Unipol-Censis.

I problemi strutturali che affliggono i giovani lavoratori, quindi, sono sostanzialmente tre: gli stipendi bassi, la sproporzione nella composizione del welfare italiano, troppo sbilanciato sui trattamenti previdenziali e troppo poco sulle prestazioni a sostegno del reddito, le possibili pensioni basse.

Percepire uno stipendio basso significa, tra le altre cose:
- dover spendere la maggior parte del reddito a disposizione per i prodotti di prima necessità, tanto per intenderci quelli indispensabili per vivere dignitosamente, come l'alimentazione, l’affitto o il mutuo per la casa, la spesa per i trasporti necessari per recarsi al lavoro, il vestiario di necessità;
- limitare la libertà di scelta nell’indirizzare la spesa per i consumi;
- diminuire la capacità di risparmiare;
- avere una pensione bassa, con poche possibilità di integrarla attraverso le forme pensionistiche complementari e praticamente nessuna con quello che viene definito il terzo pilastro previdenziale.

Avere un welfare troppo poco attento alle prestazioni a sostegno del reddito, oltre a minare le politiche per l’abbattimento della povertà, riduce il sistema di protezione sociale per i soggetti che più ne hanno bisogno, i giovani appunto, che nella maggior parte dei casi lavorano con contratti diversi da quello a tempo indeterminato e, quindi, rischiano periodi di buco nel corso della propria carriera. Questo rischio, oltre a non essere coperto da un sistema di ammortizzatori sociali universali, incide negativamente anche sulla pensione futura visto che con l’entrata in vigore del sistema contributivo valgono solo i contributi effettivamente versati e che la continuità è essenziale nella composizione di un reddito da pensione dignitoso per affrontare con una certa serenità la propria vecchiaia.

Bisognerebbe, quindi, alzare gli stipendi e riequilibrare la composizione del welfare italiano. In che modo? Innanzitutto va detto che in Italia, secondo il rapporto Taxing wages dell’Ocse, il cuneo fiscale (le imposte sul reddito e i contributi previdenziali a carico del lavoratore e del datore di lavoro, ridotti degli assegni famigliari) è più elevato di circa il 10% rispetto alla media OCSE. A questa già pesante criticità va aggiunto che il quadro italiano è reso ancora peggiore dall'elevata inefficienza della spesa pubblica. Secondo uno studio della Confcommercio, infatti, considerando una pressione fiscale equivalente, l'Italia presenta un indice di performance inferiore del 10% rispetto alla Francia, del 15% rispetto alla media dei 17 Paesi considerati nella ricerca e del 25% rispetto all’Austria. L’Italia associa, quindi, uno tra i più bassi indici di performance del settore pubblico a una delle più elevate pressioni fiscali.
Il Governo compatibilmente con il mantenimento della stabilità dei conti pubblici, potrebbe intervenire per combattere tutte queste criticità diminuendo il cuneo fiscale, per agevolare l’aumento del reddito da lavoro, e rimodulare altresì la composizione del welfare, anche puntando su un forte rilancio delle forme di assistenza e previdenza complementari. I sindacati e le rappresentanze datoriali dovrebbero sostenere queste scelte e i datori di lavoro, nel limite del possibile, mettere mano al portafoglio e iniziare a riconoscere uno stipendio migliore ai propri dipendenti (almeno ai più bravi).

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