venerdì 15 luglio 2011

Giovani e lavoro: l'analisi del Cnel



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
venerdì 15 luglio 2011

I dati che ci fornisce il Cnel sulla disoccupazione giovanile ci offrono un giudizio sostanzialmente pessimista, che prende in considerazione i numeri nudi e crudi senza tenere in debito conto alcuni aspetti più profondi che riguardano il rapporto tra i giovani italiani ed il mercato del lavoro.

Secondo il Rapporto del Cnel, infatti, sul «Mercato del lavoro 2010-2011» aumentano i giovani che non lavorano e né studiano: sono circa il 28,8% solo nella fascia tra i 25-30 anni. In crescita anche gli «scoraggiati» . «L'economia italiana - riporta lo studio - è troppo debole per imprimere una svolta alla domanda di lavoro: a fronte di una crescita fra lo 0,5 e l'1% del Pil, le unità di lavoro nel 2011 registreranno ancora una flessione e il tasso di disoccupazione potrebbe salire ancora per qualche trimestre». L'uscita dalla crisi «è molto lenta e l'attuale quadro economico dell'Italia non garantisce il recupero dei posti di lavoro persi» e il rischio disoccupazione riguarda soprattutto i giovani.

Si aggrava il fenomeno dei neet (not in education or training nor in employment), cioè chi risulta fuori dal mercato del lavoro e non è impegnato in un processo di formazione. I dati mostrano che «se prima della crisi il tasso di neet si aggirava attorno al 16% tra i più giovani (16-24 anni) e al 24% tra i giovani adulti (25-30 anni), tali percentuali sono rapidamente aumentate, salendo rispettivamente al 18,6 e al 28,8% nel terzo trimestre del 2010». Il Cnel spiega che «la crisi aggrava le probabilità dei giovani di restare nella condizione di neet, così come aumenta in modo preoccupante lo "scoraggiamento" di chi addirittura rinuncia a cercare lavoro».
La recessione ha inoltre inciso sul passaggio dai contratti a termine a quelli a tempo indeterminato: «prima della crisi - secondo lo studio - quasi il 31% dei giovani con contratto temporaneo passava l'anno successivo ad un lavoro permanente, contro poco più del 22% attuale». Riguardo alla formazione si osserva che sebbene i laureati siano più facilitati se il titolo coincide con la domanda di lavoro, resta ampio e crescente il fenomeno dell'overeducation, dato anche che le minori opportunità professionali aumentano la disponibilità dei laureati ad accettare lavori che richiedono livelli d'istruzione più bassi.

In sostanza il Cnel ci dice che la crisi economica mondiale ha inciso negativamente nella partecipazione dei giovani e mercato del lavoro determinando: un alto tasso di disoccupazione, l'aumento dei neet, la diminuzione della percentuale di chi passa dai contratti a termine a quelli a tempo indeterminato.

E' utile, però, procedere con ordine e parlare del problema relativo all'alto tasso di disoccupazione dei giovani. La crisi in Italia ha colpito soprattutto le nuove generazioni che, storicamente, sono tra i soggetti più deboli nel mercato del lavoro insieme alle donne. Come mai? Le turbolenze nel mercato del lavoro dell'ultimo decennio hanno investito prima di tutto chi aveva un contratto a termine. Se un'azienda va male e non riesce più a essere competitiva sul mercato, la prima cosa che fa è non rinnovare quel tipo di contratto che, come si sa, è proprio quello con cui vengono assunti la maggior parte dei giovani. Durante la crisi il tasso di disoccupazione giovanile è aumentato sensibilmente, passando dal circa 20% del 2007 al poco più del 29% di oggi.

Secondo Luca Ricolfi la situazione sarebbe ben diversa: nel momento peggiore della crisi (ossia nel 2009), su 100 giovani di età compresa tra i 15 e 24 anni i disoccupati erano meno di 8, il 7,4 per cento per la precisione. Come mai questa vistosa discrepanza tra il 29% delle statistiche ufficiali e il 7,4% di Ricolfi? Egli spiega che «il tasso di disoccupazione delle statistiche ufficiali non è quello del senso comune, ma viene commentato come se lo fosse. Se ti dico che il tasso di disoccupazione giovanile è al 30 per cento, tu pensi che su 100 giovani 30 siano disoccupati. Invece significa che su 100 «giovani attivi» 30 non trovano lavoro. Chi sono i giovani attivi secondo le statistiche? Sono quelli che già lavorano più quelli che cercano attivamente un lavoro.
Ma in Italia i giovani che scelgono di lavorare sono pochissimi, appena il 29,1 per cento, contro il 40,4 in Francia, il 45,1 in Spagna, il 52 in Germania, il 59,8 per cento nel Regno Unito, per rimanere ai paesi con cui di solito ci compariamo. Ecco perché il nostro tasso di disoccupazione è così alto: perché viene calcolato sulla minoranza che ha scelto di lavorare. E gli altri che fanno? Secondo le statistiche ufficiali, su 70 giovani che hanno scelto di stare fuori del mercato del lavoro circa 50 studiano e 20 non fanno nulla: non lavorano, non cercano lavoro, non stanno imparando un mestiere, non studiano. Sono i cosiddetti giovani neet, acronimo inglese di «Not in education, employment or training». In questo, effettivamente, siamo primi: in Europa non c'è un solo paese in cui la percentuale di neet sia alta come da noi.

Parliamo del problema dei neet. Questo fenomeno mette in discussione sia il funzionamento dei sistemi scolastici superiori sia le politiche del lavoro rivolte alle nuove generazioni, e non si tratta certamente di una specificità tutta italiana. Anche paesi come ad esempio la Gran Bretagna, in cui c'è sia un alto tasso di scolarità che di occupazione, hanno rilevato l'insorgenza del problema da almeno 20 anni. Bisogna distinguere: nella fascia 16-24 anni questo problema investe più marcatamente il mondo della scuola secondaria e dell'università e si sostanzia con la scelta di abbandonare prima del termine il proprio percorso di studio senza però scegliere al contempo la via del lavoro; nella fascia 25-30 anni, invece, l'attenzione va rivolta sulla difficoltà di accesso nel mercato del lavoro e lo scarso appeal del nostro sistema di formazione.

Come se ne esce? Innanzitutto cercando di migliorare la scuola secondaria superiore e l'università. Non a caso il governo Berlusconi è intervenuto riformando il sistema dell'istruzione. Indipendentemente dai giudizi che si possono avere nel merito, va dato atto che è stato un passo fondamentale e necessario per rispondere in parte proprio al problema dei neet.

Poi c'è la questione riguardante i canali di accesso al mercato del lavoro e il problema della formazione. Come si è mosso il governo? Con il miglioramento dei percorsi di formazione professionale, con la riforma dell'apprendistato e con una serie di altri interventi che riguardano anche il contrasto alla disoccupazione (fenomeno che riguarda chi cerca attivamente lavoro ma non lo trova), come ad esempio la Cabina di Regia per l'attuazione del Piano di azione per l'occupabilità dei giovani, il Fondo Mecenati, e la disposizione presente nella manovra economica che prevede che i giovani che decideranno di costituire una nuova attività imprenditoriale pagheranno un'imposta ridotta al 5% per i primi 5 anni di attività. Poi ci sarebbe da fare un discorso anche sulla liberalizzazione delle professioni, poiché è evidente a tutti che l'attuale sistema non funziona e che non bastano pochi correttivi per aumentare le possibilità dei giovani di crescere nel settore ma servirebbe, invece, un intervento più netto e deciso che porti all'abolizione degli ordini professionali.

Per quanto riguarda, invece, il passaggio dai contratti a termine a quelli a tempo indeterminato è interessante guardare le statistiche redatte da Almalaurea. Secondo gli ultimi dati disponibili (XIII edizione - Condizione occupazionale dei laureati) nell'intervallo 2004 - 2009, la quota di laureati nella popolazione di età 30-34 è cresciuta dal 16 al 19%. Un livello molto lontano da quello, pari al 40%, che la Commissione Europea ha individuato come obiettivo strategico da raggiungere entro il 2020. Sempre secondo la stessa indagine, circa la metà dei laureati (48,7% lavora, 27,5% non lavora e non cerca e 23,7% non lavora ma cerca) lavora ad un anno dal conseguimento del titolo. I ragazzi che hanno un lavoro stabile sono il 36% (26,9% tempo indeterminato e 9,1% autonomo) mentre gli atipici sono il 46% (21,6% tempo determinato, 19,9% collaborazione/consulenza, 6,5% altro contratto atipico) e i senza contratto il 10,2%. A tre anni dalla laurea, invece, le cose cambiano in meglio: il 69, 5% lavora, il 18% non lavora e non cerca e il 12,4% non lavora ma cerca. Ha un lavoro stabile il 60,2% degli intervistati (45,8% ha un contratto a tempo indeterminato, il 14,4 autonomo) mentre gli atipici sono il 30,4% (14% tempo determinato, 14,1% collaborazione/consulenza, 2,3% altro contratto atipico). Ancora meglio a 5 anni dal conseguimento del titolo di studio. L'80,2% lavora: il 68,6% ha un lavoro stabile (46,5% indeterminato e 22,1% autonomo), il 27,4% uno atipico (15,3% a tempo determinato, 10,7% collaborazione/consulenza, 1,5% altro contratto atipico) mentre il 2,1% è senza alcun contratto. I disoccupati sono l'11,4% mentre gli inattivi l'8,4%. In pratica lo studio ci dice che a 5 anni dalla laurea aumenta il tasso di occupazione tra i giovani (all'interno del quale aumentano gli stabili e diminuiscono sensibilmente le quote di atipici e lavoratori in nero) e diminuiscono le percentuali dei disoccupati e degli inattivi.

FONTE

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