giovedì 29 luglio 2010

Combattere il falso made in Italy nell’agroalimentare



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

mercoledì 28 luglio 2010

Negli ultimi 10 anni il valore delle esportazioni di prodotti italiani Dop e Igp è letteralmente raddoppiato e, nel frattempo, è cresciuto anche il loro numero. Siamo passati dai 108 del 2000 ai 206 del 2010. Cifre ragguardevoli che dimostrano la bontà dei prodotti tipici del nostro paese e la loro crescente appetibilità nel mercato mondiale. Le Dop e Igp italiane rappresentano da sole il 23% di tutte le denominazioni e indicazioni geografiche dell'Unione europea. Questa filiera conta 80mila realtà imprenditoriali, di cui oltre 75mila aziende agricole e quasi 6mila imprese di trasformazione, e produce ricchezza per un valore di 5,4 miliardi di euro, di cui 1,4 miliardi realizzato con le esportazioni.
La contraffazione è una piaga che colpisce più di un settore del Made in Italy, e in particolare il comparto agroalimentare. Agli inizi di luglio cinquantamila coltivatori e allevatori della Coldiretti hanno assediato pacificamente i valichi di frontiera e i principali porti per difendere il Made in Italy a tavola dagli inganni e dalle contraffazioni. Nel corso degli anni il fenomeno nell'agroalimentare è aumentato in maniera esponenziale e, secondo una recente analisi della Coldiretti, all'estero sono falsi tre prodotti alimentari italiani su quattro. Il falso made in Italy alimentare in Italia e all'estero vale circa 60 miliardi; tutti soldi persi dal sistema di produzione italiano.
La falsificazione dei prodotti agroalimentari nazionali è un fenomeno che frena la diffusione dei marchi italiani all'estero, inganna i consumatori di tutto il mondo e causa danni economici e di immagine alla nostra produzione. Il fenomeno, inoltre, rischia di colpire indirettamente una delle punte di diamante della nostra economia e cioè il turismo enogastronomico. L'Italia è l'unico Paese al mondo a poter offrire una grande varietà di percorsi turistici legati all'enogastronomia con 142 strade dei vini e dei sapori, 18mila agriturismi (raddoppiati nel corso degli ultimi 10 anni) e 63mila spazi dedicati al commercio tra frantoi, cantine, malghe e cascine. Questo settore ricopre un ruolo strategico nello sviluppo economico del paese, con particolare riguardo alle aree rurali, giacché riesce a coniugare la possibilità di trovare prodotti di qualità legati al territorio con la tutela e la promozione dell'ambiente naturale e culturale in cui sono realizzati. E' evidente che lo sviluppo del turismo enogastronomico dipende anche e soprattutto dal fatto che l'Italia può contare sulla leadership europea nella produzione biologica e nell'offerta di prodotti tipici. Se, quindi, attraverso la falsificazione e la frode alimentare è colpito e affondato l'appeal che suscita questo particolare tipo di produzione nei consumatori, di conseguenza verrà meno il motore che spingerà il turista ad avventurarsi nei percorsi enogastronomici unici offerti dal nostro paese.
Per tutti questi motivi va combattuto duramente il fenomeno della falsificazione e della frode alimentare attraverso una rigida applicazione della normativa in vigore ma, contemporaneamente, va sostenuta con forza l'approvazione della disposizione sull'etichettatura obbligatoria di origine degli alimenti, inserita nel disegno di legge fermo alla Camera recante disposizioni per il rafforzamento della competitività del settore agroalimentare, che al Senato è già stato ampiamente condiviso sia in commissione Agricoltura che in Aula. Un segnale positivo è arrivato anche dal Parlamento europeo che ha votato a favore dell'obbligo di indicare il luogo di origine/provenienza per carne, ortofrutticoli freschi e prodotti lattiero caseari.

mercoledì 21 luglio 2010

Rapporto Cnel sul mercato del lavoro 2009-2010: la disoccupazione giovanile


di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

mercoledì 21 luglio 2010

Per i giovani attivi nel mercato del lavoro in Italia il rischio di essere disoccupati è triplo rispetto a quello di persone più anziane. A lanciare l'allarme sulla disoccupazione giovanile è il Cnel nel «Rapporto sul mercato del lavoro 2009-2010». La maggiore probabilità di essere disoccupati, spiega comunque il Cnel, caratterizza i giovani di tutta Europa, e non solo quelli italiani.
Se, infatti, guardiamo ai dati Eurostat, il tasso di disoccupazione giovanile (under 25) in Italia è 29,2%, in Spagna 40,5%, in Francia 22,6%, in Gran Bretagna 19,7% (dati aggiornati a marzo 2010), negli Stati Uniti 18,1%. Nel rapporto si evidenzia come le nuove forme contrattuali, più flessibili, abbiano facilitato l'ingresso dei giovani nel mercato del lavoro: in periodi in cui la domanda di lavoro cresceva, le imprese facevano maggior ricorso a forme flessibili d'impiego, dati i costi di licenziamento nettamente inferiori a queste connessi.
Per chi è entrato nel mercato del lavoro nell'ultimo decennio, si sono ridotti i tempi di ricerca prima di poter trovare una prima occupazione. Nel 2009, anno peraltro di crisi, la durata media di ricerca di una prima occupazione per giovani non esperti è stata di un anno e mezzo. Tra i giovani occupati con meno di 25 anni, l'incidenza dei dipendenti temporanei è pari a quattro volte l'incidenza osservata presso gli adulti delle età centrali (25-54 anni). Non si tratta di una tendenza tutta italiana. Per il complesso dell'Unione europea, gli occupati temporanei rappresentano poco meno del 14% dei dipendenti totali, ma tale quota sale al 40% considerando solo i giovani.
Generalmente, osserva il Cnel, i lavoratori temporanei possono fungere da «cuscinetto» per aggiustare la quantità di manodopera secondo le fluttuazioni della produzione. Questo fenomeno è stato particolarmente evidente nel corso dei mesi critici della crisi economica che ha colpito l'Italia sul finire del 2008. Una quantificazione del numero di lavoratori impiegati con contratti non standard tra il 2008 e il 2009 mostra, infatti, una variazione di segno negativo pari a 239 mila unità in meno tra i lavoratori impiegati nel segmento più flessibile del mercato (-8,6%), con flessioni particolarmente consistenti per i collaboratori (che in un anno sono diminuiti del 17%). I temuti effetti negativi legati alla diffusione dei contratti temporanei si sono alla fine effettivamente esplicitati, e i lavoratori con contratti di durata prefissata (data la possibilità di evitare i costi di licenziamento associati al lavoro permanente) sono stati i primi a pagare le conseguenze occupazionali dell'attuale crisi economica.
Secondo il Cnel la crisi economica globale ha avuto nel 2009 effetti rilevanti sul mercato del lavoro, ma l'Italia è tra i Paesi «caratterizzati dagli incrementi del tasso di disoccupazione mediamente più contenuti in rapporto alla severità della recessione». E «in una certa misura la parziale tenuta dei livelli dell'occupazione deriva dalle politiche» messe in campo dal governo «che hanno puntato sugli schemi di lavoro a orario ridotto, come la Cig».
Insomma il rapporto del Cnel conferma che tra i giovani, non solo italiani, c'è un alto tasso di disoccupazione e che, se nell'ultimo decennio i contratti flessibili hanno aumentato le loro possibilità di accedere in tempi relativamente brevi nel mercato, è pur vero che sono loro i primi a perdere il posto di lavoro in caso di crisi.
L'alto tasso di disoccupazione tra gli under 25 è frutto di diversi problemi. Da segnalare, in particolar modo, il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro (ci sono posti vacanti o perché nessuno ha le competenze per riempirli o perché sono addirittura rifiutati. Utilizzando le stime di Confindustria e Confartigianato, i posti vacanti nel 2009 sono stati quasi 100 mila) e il passaggio scuola-lavoro. Su quest'ultimo aspetto va fatto anche un salto di natura culturale. Scuola e lavoro non possono essere viste come realtà separate ma, invece, come esperienze che necessariamente devono fondersi affinché il passaggio dall'una all'altra non sia più un salto nel buio ma un percorso graduale in grado di facilitare l'ingresso di un giovane nel mercato. Stare anni e anni sui banchi di scuola per imparare qualcosa che poi non servirà nel lavoro è un lusso che si possono permettere solo i figli dei ricchi e quelle poche persone che ci guadagnano in questo sistema (qualche docente di qualche assurdo corso universitario).
A riguardo va segnalato il piano di azione «Italia 2020», elaborato dai ministri del lavoro e dell'istruzione, per l'occupabilità dei giovani attraverso l'integrazione tra apprendimento e lavoro. Tra le priorità individuate: facilitare la transizione dalla scuola al lavoro, rilanciare l'istruzione tecnico-professionale ed il contratto di apprendistato, ripensare il ruolo della formazione universitaria, aprire i dottorati di ricerca al sistema produttivo e al mercato del lavoro.

sabato 17 luglio 2010

Congelati gli esuberi della Telecom



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

giovedì 15 luglio 2010

Nei giorni scorsi Telecom Italia, con un atto unilaterale, ha preso la decisione di avviare le procedure per 3.700 esuberi, come prima azione di un piano triennale di 6.800 mobilità (di cui 2.300 da piani precedenti e i restanti 4.522 dal piano 2010-2012). Guardiamo i conti dell'azienda: secondo i dati disponibili, c'è la distribuzione dei dividendi, utili per 1,5 miliardi di euro e uno stock di debito stabilmente fermo a 34 miliardi di euro (c'è la volontà di abbassare il debito di 5 miliardi nei prossimi tre anni) nonostante l'azienda abbia già notevolmente ridotto il personale negli ultimi due anni.

Secondo il responsabile delle risorse umane di Telecom, Antonio Migliardi, che in un'intervista a Il Sole24 Ore si è detto sicuro che alla fine si troverà un accordo con i sindacati, i tagli sono necessari. Secondo Migliardi la cessione di quote di mercato, in linea con lo spirito degli interventi di regolazione del settore, e l'innovazione sono i fattori che hanno determinano una fisiologica riduzione del fabbisogno occupazionale.

Il ministro del Lavoro Sacconi si è mosso con prontezza. Mercoledì pomeriggio, nel corso del question time alla Camera dei Deputati, rispondendo a un'interrogazione del gruppo del Popolo della Libertà, firmata dai deputati Baldelli, Cazzola e Moffa, ha affermato che l'intenzione del governo è porre su basi costruttive il dialogo che si è interrotto e che bisogna mettere al centro della questione l'occupazione e il futuro delle telecomunicazioni nel nostro Paese. Ha aggiunto, inoltre, che «la nostra intenzione è di chiedere all'azienda di dare disponibilità per un ulteriore approfondimento circa il piano industriale, gli investimenti relativi alla manutenzione della rete tradizionale, allo sviluppo della rete di nuova generazione».

Sempre nella stessa giornata, il ministro Sacconi, insieme al viceministro Romani, ha riunito intorno a un tavolo le parti sociali per discutere sul tema occupazionale e sulle strategie industriali dell'azienda. L'iniziativa è stata un successo giacché, al termine dei lavori, la Telecom ha deciso di congelare i licenziamenti e aprire il dialogo con la controparte sindacale. Sono stati raggiunti, quindi, almeno tre risultati importanti: c'è stato il blocco temporaneo dei licenziamenti, è stato sanato l'atto unilaterale dell'azienda ed è iniziata una trattativa che mette a confronto le parti sociali per cercare una soluzione equilibrata per tentare di risolvere la vicenda. Secondo l'amministratore delegato della società Franco Bernabè, l'intesa tra Telecom Italia, Governo e sindacati per una trattativa di 15 giorni sulla questione degli esuberi aziendali «è un passo avanti molto importante» e lo stesso Bernabè ha espresso un cauto ottimismo sulla buon esito della trattativa. Insomma, la questione non è stata ancora risolta positivamente ma almeno siamo sulla buona strada.

Giovedì, invece, sempre il ministro Sacconi, rispondendo a un' interpellanza urgente a Montecitorio, firmata da esponenti di diversi gruppi parlamentari di maggioranza e di opposizione, tra cui Boccia (Pd), Baldelli (PdL), Reguzzoni (Lega Nord), Galletti (Udc), Cambursano (IdV), si è augurato che davvero tra quindici giorni «si possa verificare una volontà di tutti i soggetti a muoversi nella giusta direzione, così come mi auguro che nell'arco di quindici giorni il "tavolo Romani" dedicato alle reti di nuova generazione possa approdare ad alcuni primi risultati, e credo che ve ne siano le condizioni, in modo che tavoli tra loro separati, in realtà, possano alimentarsi reciprocamente della buona volontà del più grande gestore e della volontà condivisa di tutti i gestori per costruire per le reti di telecomunicazioni italiane uno sviluppo adeguato, tanto nella parte mobile quanto nella parte fissa, consapevoli tutti che rappresentano, come dicevo all'inizio, il volano determinante per la crescita, e la crescita con occupazione, del nostro Paese».

Secondo l'agenzia di rating internazionale Standard and Poor's, i punti di forza di Telecom Italia sono la leadership nelle linee fisse, nella banda larga e nel mobile e le opportunità di crescita oltreoceano grazie a Tim Brasil. Tra le debolezze del gruppo, secondo l'agenzia, figurano invece l'alta leva finanziaria, uno scenario economico debole con crescenti pressioni competitive e regolatorie, e la struttura dell'azionariato, che contribuisce a continue pressioni verso il pagamento di consistenti dividendi. Telco, la scatola che controlla circa il 22,5% della compagnia telefonica, «esercita di fatto - spiega il report dell'agenzia di rating - una significativa influenza sul gruppo» e questo, secondo gli analisti, rende «più difficile per Telecom Italia diminuire la distribuzione di dividendi e perfezionare la sua flessibilità finanziaria». «L'outlook stabile - si legge nella nota - riflette la nostra visione che Telecom Italia si trovi nella posizione di difendere la sua posizione ancora solida, soprattutto nel segmento delle linee fisse» e di «rafforzare il suo profilo nel segmento mobile». «Anticipiamo anche - prosegue l'agenzia - un impatto positivo del programma di risparmio dei costi». La stabilità della raccomandazione dipenderà anche dalla capacità del gruppo di «mantenere le sue quote di mercato nella telefonia mobile domestica e nella banda larga».

Nel corso degli ultimi anni l'azienda ha ridotto il proprio margine operativo, vendendo partecipazioni e immobili e riducendo personale e investimenti. Tuttavia, grazie agli utili, è riuscita a distribuire dividendi. Qualunque saranno gli sviluppi della vicenda, comunque, resta che i punti di forza dell'azienda, messi in evidenza dal report dell'agenzia di rating Standard and Poor's, contrastano in maniera pericolosa con le debolezze derivanti sia da fattori esogeni (la crisi economica mondiale e la concorrenza) sia, soprattutto, endogeni (alta leva finanziaria, la struttura dell'azionariato che spinge per la distribuzione dei dividendi, l'elevato indebitamento).

mercoledì 14 luglio 2010

Criminalità e immigrazione. I dati sulle denunce e sulla popolazione carceraria



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

mercoledì 14 luglio 2010

Secondo il VII Rapporto sugli Indici di integrazione degli immigrati in Italia del Cnel, nel 1991 c'erano 350 mila immigrati, mentre oggi, secondo stime ufficiali, ce ne sono 5 milioni. Sono passati dallo 0,6% al 7,1% della popolazione totale. Illustrando i contenuti del Rapporto, il presidente Marzano ha sottolineato che l'integrazione è potenzialmente più facile nelle località più piccole (nessuna delle provincie che ha come capoluogo una città metropolitana rientra nella top ten per il potenziale di integrazione; la prima è Verona al dodicesimo posto) e che la regione che offre più lavoro agli immigrati è la Lombardia (seguita da Toscana, Lazio e Friuli Venezia Giulia).

Secondo il Rapporto l'aumento degli immigrati non si traduce in un automatico aumento proporzionale delle denunce penali nei loro confronti ed è falso affermare, quindi, che la loro maggiore presenza in Italia corrisponde ad un aumento della criminalità. «In valori assoluti, il numero di denunce complessivo, riguardanti cioè italiani e stranieri insieme, è stato nel 2005 di 2.579.124, nel 2006 di 2.771.440, nel 2007 di 2.993.146 e nel 2008 di 2.694.811. Di queste, il numero di quante hanno riguardato cittadini stranieri è di 248.291 nel 2005, 275.482 nel 2006, 299.874 nel 2007 e 297.708 nel 2008. Si osserva dunque - sono le conclusioni a cui giunge il Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro - che nel periodo 2005-2008, mentre i residenti stranieri sono incrementati del 45,7%, le denunce contro stranieri sono aumentate solo del 19%. Se poi si tiene conto che queste denunce non riguardano solo gli stranieri iscritti in anagrafe, ma anche quelli in attesa di registrazione, gli irregolari e quanti sono temporaneamente presenti in Italia per turismo, affari o altro, il parallelismo tra aumento dell'immigrazione e aumento della criminalità viene definitivamente smontato». Inoltre, ancora in riferimento all'equazione «più immigrazione uguale più criminalità», il Cnel, ipotizzando che il maggior livello di denunce riscontrato nel 2008 rispetto al 2005 (49.417) sia per intero addebitabile agli stranieri registrati nel quadriennio come nuovi residenti (1.220.779), arriva alla conclusione che a carico dei nuovi venuti vi è un denunciato ogni 25 individui (pur senza includere gli irregolari, gli stranieri di passaggio e le altre categorie sopra ricordate), mentre a carico di tutte le persone residenti in Italia (italiani e stranieri insieme) vi è un denunciato ogni 22 individui.

I dati del Cnel ci dicono che se prendiamo come riferimento il periodo dal 2005 al 2008, il tasso d'incidenza degli stranieri sul numero delle denunce è stato del 9,6% nel 2005, 9,9% nel 2006, 10% nel 2007 e 11% nel 2008. Con tutti i distinguo del caso, si tratta di un livello leggermente superiore al tasso d'incidenza degli stranieri sul totale della popolazione residente in Italia. Secondo l'Istat, gli immigrati regolari non delinquono più degli italiani. Infatti, sul totale dei denunciati, la quota di stranieri in regola è del 6%. La maggior parte dei denunciati stranieri risulta non essere in regola con il permesso di soggiorno e, verosimilmente, non l'ha neppure richiesto. E' in condizioni d'irregolarità l'80% degli stranieri denunciati per reati contro la proprietà.

Diverso il discorso se si osservano i dati riguardanti la popolazione carceraria. Secondo le ultime rilevazioni del ministero della Giustizia, su un totale di 68.258 detenuti 24.966 sono stranieri (36,6%). Si tratta di un'incidenza nettamente superiore a quella della popolazione straniera sul totale degli abitanti nel nostro paese (secondo il Cnel 7,1%). In questo caso, se il metro di paragone diventa l'incidenza dei denunciati (in media, negli ultimi anni, 1 su 10 è immigrato), il fenomeno assume proporzioni preoccupanti, visto che almeno 1 detenuto su 3 è straniero.

Come mai questa vistosa discrepanza tra l'incidenza degli stranieri sul totale dei denunciati e quella sul complesso della popolazione carceraria che affolla i nostri 206 istituti penitenziari? Le ragioni potrebbero essere essenzialmente tre: innanzitutto una larga parte degli stranieri, soprattutto irregolari, non può accedere alle misure alternative al carcere, tra cui gli arresti domiciliari, poiché sprovvista di un valido certificato di residenza. Secondo i dati del ministero della Giustizia, gli immigrati detenuti in attesa di giudizio sono più di un quinto del totale degli stranieri in carcere (5.715) mentre i condannati definitivi sono circa la metà (12.283). Un altro fattore è quello che i reati violenti hanno visto aumentare in maniera esponenziale l'incidenza degli stranieri; secondo l'Istat gli immigrati sono autori del 39% dei casi di violenza sessuale, del 36% degli omicidi, del 27% dei denunciati per lesioni dolose. Senza considerare, inoltre, l'altissima incidenza nei cosiddetti «reati predatori». Inoltre, già il Rapporto sulla criminalità in Italia presentato nel 2007 dall'allora ministro dell'Interno, Giuliano Amato, segnalava che, per quanto riguarda i dati sul numero di persone coinvolte nel traffico degli stupefacenti, distinte tra italiani e stranieri, essi evidenziavano che mentre nel decennio 1987-1996 le percentuali degli italiani erano nettamente superiori (82,7%) a quelle degli stranieri (17,3%), nel decennio 1997-2006 la percentuale di italiani è diminuita (70,8%) ed è aumentata quella degli stranieri (29,2%). Il terzo fattore è stato denunciato dal ministro Alfano nei giorni scorsi: «Il fatto che occorra ancora il consenso del detenuto per il suo trasferimento per scontare la pena in patria significa che i Trattati bilaterali non stanno funzionando».

venerdì 2 luglio 2010

Le criticità del mercato del lavoro



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

venerdì 02 luglio 2010

Secondo gli ultimi dati dell'Istat, il numero di occupati a maggio 2010 (dati destagionalizzati) è stato di 22 milioni e 870 mila persone (- 0,2% rispetto ad aprile 2010 e - 1,1% se confrontato con maggio 2009). Il tasso di disoccupazione è all'8,7% (invariato su aprile 2010 e + 1,2% su maggio 2009) mentre quello specifico della componente giovanile della forza lavoro (15-24 anni secondo la fascia di età presa in considerazione dall'Istat) è al 29,2% (+ 0,2% su aprile 2010 e + 4,7% su maggio 2009).
Il tasso di occupazione maschile è al 67,9% (invariato su aprile 2010 e - 0,8% su maggio 2009) mentre quello femminile è al 46% (-0,2% su aprile 2010 e - 0,8% su maggio 2009). Il tasso di disoccupazione degli uomini italiani è al 7,7% (invariato su aprile 2010 e +1,1% su maggio 2009) mentre quello delle donne è al 10,1% (+0,1% su aprile 2010 e +1,2% su maggio 2009).
I dati ci dicono cose positive e negative. Le cose positive: il mercato del lavoro italiano, sia nel breve (un mese) che nel medio periodo (un anno), è riuscito a mantenere un livello occupazionale sostanzialmente stabile nonostante gli effetti negativi della crisi economica. E' vero che ogni posto di lavoro perso è una sconfitta per tutti ma è anche vero che il sistema italiano, smentendo le previsioni negative di numerosi analisti, ha retto bene e meglio di molti altri grandi paesi. Secondo dati Eurostat, il tasso di disoccupazione nell'eurozona è al 10%, stabile rispetto ad aprile (+0,6% su maggio 2009). Se guardiamo ai grandi paesi, solo la Germania ha registrato un tasso di disoccupazione inferiore al nostro (7%) mentre tutti gli altri sono su livelli superiori (la Francia 9,9%, la Spagna 19,9%, gli Stati Uniti 9,7%).
Veniamo alle cose negative: gli effetti della crisi economica sul mercato del lavoro non fanno che acuire quelli che sono già gli aspetti negativi e strutturali del sistema e cioè la difficoltà di accesso e permanenza nel mondo del lavoro dei giovani e delle donne. Non si tratta certamente di un fenomeno tutto italiano ma un dato negativo che investe, seppur in forma minore, anche altri. Prendiamo in considerazione i grandi paesi europei (Italia, Germania, Francia, Spagna e Gran Bretagna) e gli Stati Uniti. Il tasso di disoccupazione femminile è superiore rispetto a quello maschile in Italia (differenziale +2,4%), Francia (differenziale +0,6%) e Spagna (0,5%), mentre succede l'esatto contrario in Germania (differenziale +1,2%), Gran Bretagna (differenziale +2,3% - dati marzo 2010) e Stati Uniti (+1,7%).
Se, invece, guardiamo ai dati relativi alla disoccupazione giovanile è possibile rinvenire una sorta di allineamento negativo tra tutti i grandi paesi citati in precedenza con la sola eccezione, seppur relativa, della Germania, dove il tasso delle persone sotto i 25 anni in cerca di occupazione è al 9,4%. In Italia è 29,2%, in Spagna 40,5%, in Francia 22,6%, in Gran Bretagna 19,7% (dati aggiornati a marzo 2010), negli Stati Uniti 18,1%.
Uno dei maggiori problemi, spesso poco citato dagli analisti, è il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro. Se prendiamo come esempio il nostro paese, nel primo trimestre del 2010 è lievemente aumentata l'offerta di posti di lavoro da parte delle imprese in confronto alla fortissima caduta registrata nel biennio 2008-2009. Secondo l'Istat, tra gennaio e marzo di quest'anno il tasso dei posti vacanti sul totale dell'industria e dei servizi è pari allo 0,7%, con un incremento di 0,1 punti percentuali rispetto al primo trimestre del 2009. I posti vacanti, come ha ricordato lo stesso istituto, «sono definiti come quei posti di lavoro retribuiti che siano nuovi, liberi o in procinto di diventarlo, per i quali il datore di lavoro cerchi attivamente un candidato idoneo al di fuori dell'impresa e sia disposto a fare sforzi ulteriori per trovarlo». Insomma ci sono dei posti di lavoro disponibili ma non sono coperti o perché nessuno li vuole fare oppure perché non c'è gente formata che sia in grado di farli.
Come se ne esce da questo problema? Al netto delle inesistenti bacchette magiche, innanzitutto chiedendosi se lo strumento della formazione e i mezzi messi a disposizione dal sistema per accedere al mondo del lavoro funzionano o no. Se la formazione, così com'è ora, è un business che magari serve più ai formatori che ai potenziali formati o se l'appartenenza familiare e la «conoscenza giusta» funzionano meglio di qualsiasi centro per l'impiego, la risposta viene da sola. E vogliamo parlare delle difficoltà dei giovani nell'accesso alle libere professioni? E il passaggio scuola-lavoro, spesso vissuto come un trauma o, nelle migliori delle ipotesi, come un salto nel buio? E poi ha ancora senso tenere distinti i due momenti senza contaminarli solo per una questione ideologica? E che dire del mondo della scuola dove l'università si trasforma spesso in un inutile parcheggio per lo studente e in un ottimo erogatore di stipendi, a spese della collettività, per tutti quelli che guadagnano grazie ai corsi inutili?
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