venerdì 2 luglio 2010

Le criticità del mercato del lavoro



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

venerdì 02 luglio 2010

Secondo gli ultimi dati dell'Istat, il numero di occupati a maggio 2010 (dati destagionalizzati) è stato di 22 milioni e 870 mila persone (- 0,2% rispetto ad aprile 2010 e - 1,1% se confrontato con maggio 2009). Il tasso di disoccupazione è all'8,7% (invariato su aprile 2010 e + 1,2% su maggio 2009) mentre quello specifico della componente giovanile della forza lavoro (15-24 anni secondo la fascia di età presa in considerazione dall'Istat) è al 29,2% (+ 0,2% su aprile 2010 e + 4,7% su maggio 2009).
Il tasso di occupazione maschile è al 67,9% (invariato su aprile 2010 e - 0,8% su maggio 2009) mentre quello femminile è al 46% (-0,2% su aprile 2010 e - 0,8% su maggio 2009). Il tasso di disoccupazione degli uomini italiani è al 7,7% (invariato su aprile 2010 e +1,1% su maggio 2009) mentre quello delle donne è al 10,1% (+0,1% su aprile 2010 e +1,2% su maggio 2009).
I dati ci dicono cose positive e negative. Le cose positive: il mercato del lavoro italiano, sia nel breve (un mese) che nel medio periodo (un anno), è riuscito a mantenere un livello occupazionale sostanzialmente stabile nonostante gli effetti negativi della crisi economica. E' vero che ogni posto di lavoro perso è una sconfitta per tutti ma è anche vero che il sistema italiano, smentendo le previsioni negative di numerosi analisti, ha retto bene e meglio di molti altri grandi paesi. Secondo dati Eurostat, il tasso di disoccupazione nell'eurozona è al 10%, stabile rispetto ad aprile (+0,6% su maggio 2009). Se guardiamo ai grandi paesi, solo la Germania ha registrato un tasso di disoccupazione inferiore al nostro (7%) mentre tutti gli altri sono su livelli superiori (la Francia 9,9%, la Spagna 19,9%, gli Stati Uniti 9,7%).
Veniamo alle cose negative: gli effetti della crisi economica sul mercato del lavoro non fanno che acuire quelli che sono già gli aspetti negativi e strutturali del sistema e cioè la difficoltà di accesso e permanenza nel mondo del lavoro dei giovani e delle donne. Non si tratta certamente di un fenomeno tutto italiano ma un dato negativo che investe, seppur in forma minore, anche altri. Prendiamo in considerazione i grandi paesi europei (Italia, Germania, Francia, Spagna e Gran Bretagna) e gli Stati Uniti. Il tasso di disoccupazione femminile è superiore rispetto a quello maschile in Italia (differenziale +2,4%), Francia (differenziale +0,6%) e Spagna (0,5%), mentre succede l'esatto contrario in Germania (differenziale +1,2%), Gran Bretagna (differenziale +2,3% - dati marzo 2010) e Stati Uniti (+1,7%).
Se, invece, guardiamo ai dati relativi alla disoccupazione giovanile è possibile rinvenire una sorta di allineamento negativo tra tutti i grandi paesi citati in precedenza con la sola eccezione, seppur relativa, della Germania, dove il tasso delle persone sotto i 25 anni in cerca di occupazione è al 9,4%. In Italia è 29,2%, in Spagna 40,5%, in Francia 22,6%, in Gran Bretagna 19,7% (dati aggiornati a marzo 2010), negli Stati Uniti 18,1%.
Uno dei maggiori problemi, spesso poco citato dagli analisti, è il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro. Se prendiamo come esempio il nostro paese, nel primo trimestre del 2010 è lievemente aumentata l'offerta di posti di lavoro da parte delle imprese in confronto alla fortissima caduta registrata nel biennio 2008-2009. Secondo l'Istat, tra gennaio e marzo di quest'anno il tasso dei posti vacanti sul totale dell'industria e dei servizi è pari allo 0,7%, con un incremento di 0,1 punti percentuali rispetto al primo trimestre del 2009. I posti vacanti, come ha ricordato lo stesso istituto, «sono definiti come quei posti di lavoro retribuiti che siano nuovi, liberi o in procinto di diventarlo, per i quali il datore di lavoro cerchi attivamente un candidato idoneo al di fuori dell'impresa e sia disposto a fare sforzi ulteriori per trovarlo». Insomma ci sono dei posti di lavoro disponibili ma non sono coperti o perché nessuno li vuole fare oppure perché non c'è gente formata che sia in grado di farli.
Come se ne esce da questo problema? Al netto delle inesistenti bacchette magiche, innanzitutto chiedendosi se lo strumento della formazione e i mezzi messi a disposizione dal sistema per accedere al mondo del lavoro funzionano o no. Se la formazione, così com'è ora, è un business che magari serve più ai formatori che ai potenziali formati o se l'appartenenza familiare e la «conoscenza giusta» funzionano meglio di qualsiasi centro per l'impiego, la risposta viene da sola. E vogliamo parlare delle difficoltà dei giovani nell'accesso alle libere professioni? E il passaggio scuola-lavoro, spesso vissuto come un trauma o, nelle migliori delle ipotesi, come un salto nel buio? E poi ha ancora senso tenere distinti i due momenti senza contaminarli solo per una questione ideologica? E che dire del mondo della scuola dove l'università si trasforma spesso in un inutile parcheggio per lo studente e in un ottimo erogatore di stipendi, a spese della collettività, per tutti quelli che guadagnano grazie ai corsi inutili?

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