martedì 29 giugno 2010

Mito e realtà delle nazionali multietniche



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

martedì 29 giugno 2010

I buoni risultati ai mondiali in Sud Africa della nazionale tedesca, infarcita di diversi giocatori naturalizzati, hanno fatto dire a qualche commentatore che la Germania sarebbe un modello da seguire in tema di integrazione nel calcio e nella vita di tutti i giorni. Siamo al dejà vu, visto che già la Francia multietnica, campione del mondo nel 1998 e d'Europa nel 2000 con la propria nazionale di calcio, fu elevata subito a modello d'integrazione. Poi sono arrivate, nel 2005, le rivolte nelle banlieues, i fischi dei giovani francesi di origine maghrebina durante l'esecuzione della Marsigliese prima delle partite di calcio della nazionale transalpina contro Tunisia, Marocco e Algeria, e i fallimenti della squadra diretta dal ct Domenech nelle ultime apparizioni ai mondiali e agli europei. Messa da parte la Francia, ora tocca alla Germania essere identificata come esempio da seguire.

Nel mondiale in corso 25 nazionali su 32 hanno almeno un naturalizzato nella propria rosa. In questa rassegna il loro numero è salito a 74; quattro anni fa in Germania erano 65, mentre otto anni fa, in Giappone e Corea, erano 43. Insomma, il numero è quasi raddoppiato nel giro di soli 8 anni. Il fenomeno non riguarda solo le nazionali dei grandi paesi occidentali. La rosa della nazionale di calcio dell'Algeria conta 17 giocatori che sono nati in Francia ma hanno preferito naturalizzarsi algerini. Qualche commentatore, infatti, ha parlato addirittura di «Francia 2». Nell'Italia campione del mondo nel 1934 c'erano 5 giocatori naturalizzati (Demaria, Guaita, Guarisi, Monti, Orsi), tanti quanti ce ne sono oggi nella nazionale tedesca. Come si vede, il fenomeno nel calcio non è nuovo, non è limitato a qualche paese, non è sempre vincente e non va di pari passo con quello che succede nella vita di tutti i giorni. Se poi guardiamo ad altri sport, la situazione non è certo diversa.

Lo sport moderno non è lo specchio fedele della società. In quel mondo si usa lo strumento della naturalizzazione per accaparrarsi le prestazioni dei migliori talenti in circolazione. Tutto qui. Non c'è alcun collegamento con il tema più ampio dell'integrazione degli stranieri. La vita di tutti i giorni è qualcosa di più complesso di una semplice partita. Lo sport può rappresentare uno spicchio della vita ma non certo esserne lo specchio fedele. Lasciamo stare, quindi, le suggestioni dettate dal calcio o da qualche altro sport. Le vittorie o le sconfitte di una rappresentativa nazionale non possono essere un modello vincente da esportare per forza nella vita di tutti i giorni. Prendiamo la nostra nazionale di calcio. La vittoria ai mondiali disputati in Germania aveva esaltato la compattezza del gruppo, lo spirito di sacrificio, la fame di vittorie a discapito della classe dei singoli. Tutte virtù utili anche nella vita, sempre e comunque, ma a distanza di quattro anni quello stesso modello, con tutte le varianti del caso, non è servito né a ripetere il successo e neppure ad uscire dalla rassegna in modo dignitoso.

Quando si parla d'integrazione, inoltre, non si può e non ci si deve limitare al solo strumento della naturalizzazione. La normativa non è tutto e sarebbe davvero molto riduttivo e pericoloso racchiudere il mondo in una norma. La materia è molto complessa. Secondo la definizione data dall'enciclopedia Treccani, l'integrazione sociale è «un processo attraverso il quale gli individui diventano parte integrante di un sistema sociale, aderendo ai valori che ne definiscono l'ordine normativo. Sul piano microsociologico, è una funzione del processo di socializzazione, consistente nella formazione della personalità sociale dell'individuo attraverso la trasmissione dei modelli culturali e di comportamento dominanti, cui provvedono la famiglia, la scuola e i gruppi primari. Sul piano macrosociologico, nell'approccio struttural-funzionalista di T. Parsons, è un prerequisito del sistema sociale, volto ad assicurare legami stabili fra i suoi membri mediante il rafforzamento dei meccanismi di controllo sociale». Che cosa c'entra tutto questo con lo sport? Poco o niente.

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