martedì 26 ottobre 2010

Il dossier Caritas-Migrantes sull'immigrazione conferma la bontà dell'azione del governo



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
martedì 26 ottobre 2010

Piace, agli organismi della Cei Caritas e Migrantes, il piano per l'integrazione nella sicurezza denominato «Identità e Incontro», proposto dal governo Berlusconi come modello italiano d'integrazione, perché lontano dall'assimilazionismo e dal multiculturalismo. «Nel documento - sottolinea il dossier statistico sull'immigrazione - vengono individuati percorsi imperniati su diritti e doveri, responsabilità e opportunità, in una visione di relazione reciproca, facendo perno sulla persona e sulle iniziative sociali piuttosto che sullo Stato e individuando cinque assi di intervento: l'educazione e l'apprendimento, dalla lingua ai valori; il lavoro e la formazione professionale; l'alloggio e il governo del territorio; l'accesso ai servizi essenziali; l'attenzione ai minori e alle seconde generazioni». Il rapporto critica però il fatto che «al di là della ricorrente insistenza, tanto nel documento governativo come in ambito comunitario, sulle migrazioni a carattere rotatorio», gli aiuti allo sviluppo che potrebbero favorire i ritorni in patria e fermare l'esodo siano arrivati a collocarsi nel frattempo «a livello veramente minimo».

Secondo lo studio, nel 2009 sono state allontanate dall'Italia ben 18.361 persone: 4.298 respingimenti e 14.063 rimpatri forzati. Mentre le persone rintracciate in posizione irregolare, ma non ottemperanti all'intimazione di lasciare il territorio italiano, sono state 34.462. Nel rapporto si sottolinea, inoltre, che risulterà inefficace il controllo delle frontiere se non si incentiveranno i percorsi regolari dell'immigrazione e che non è in discussione la necessità di regole, bensì la loro funzionalità.

Insomma, il dossier Caritas-Migrantes promuove a grandi linee il progetto del governo in materia di immigrazione e, cosa più importante, non si scaglia ferocemente contro respingimenti e rimpatri. Non usa, come hanno fatto alcuni, parole davvero improprie, ma cerca di porre l'accento in modo razionale e costruttivo sulle criticità presenti nella gestione degli ingressi regolari e non. Lo stesso Benedetto XVI, nel suo messaggio sul tema «Una sola famiglia umana» per la 97esima Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato, che sarà celebrata domenica 16 gennaio 2011, ha affermato che «accogliere i rifugiati e dare loro ospitalità è per tutti un doveroso gesto di umana solidarietà, affinché essi non si sentano isolati a causa dell'intolleranza e del disinteresse». Ha aggiunto, però, che gli immigrati «hanno il dovere di integrarsi nel Paese di accoglienza, rispettandone le leggi e l'identità nazionale».
La doverosa accoglienza e la necessaria solidarietà si possono conciliare benissimo con la salvaguardia effettiva delle frontiere e con il contrasto, anche duro, all'immigrazione clandestina. E' giusto confrontarsi sulla gestione dei rifugiati, ma questa è una questione che l'Italia non può risolvere da sola: è un problema di cui si devono far carico obbligatoriamente tutti e 27 gli Stati Ue. Il nostro Paese, insomma, deve fare la sua parte, ma non può fare tutto in solitudine, perché la massa di persone con cui ci si dovrebbe confrontare, giacché l'Italia è una delle porte d'ingresso per l'Europa, rischierebbe di far saltare il principio dell'accoglienza sostenibile, che è la base per iniziare un virtuoso cammino per l'integrazione, e di conseguenza - cosa ancora più rischiosa - la pace sociale sul territorio.

Per quanto riguarda inoltre l'integrazione, la via italiana sembra aver trovato, almeno dal punto di vista delle linee generali, il giusto equilibrio tra quello che possono fare le istituzioni (servizi, canali per l'accesso al mondo del lavoro, formazione professionale, priorità all'integrazione dei minori stranieri presenti sul territorio e loro tutela piena e incondizionata) e quello che deve fare l'immigrato. Il processo d'integrazione è anche, e soprattutto, un percorso personale, spesso difficile e complicato, in cui è decisiva la volontà, da parte dello straniero, di aderire ai valori che definiscono l'ordine normativo del Paese in cui ha scelto di vivere. Non c'è altra via diversa da quella della piena responsabilizzazione dell'immigrato e lo abbiamo visto con il fallimento di modelli, come quello assimilazionista o multiculturalista, che partivano da presupposti totalmente sbagliati e che non hanno fatto altro che condurre in un vicolo cieco. In Francia immigrati di seconda generazione e giovani cittadini figli degli assimilati di origine maghrebina sposano il separatismo culturale contro l'appartenenza francese e arrivano polemicamente a fischiare la Marsigliese durante le partite di calcio della nazionale transalpina contro Marocco, Tunisia e Algeria. In Gran Bretagna, invece, le politiche di riconoscimento proprie del modello multiculturalista hanno creato ghettizzazioni, separatismo culturale e tensioni nella società. Mentre in Germania il fallimento è stato ammesso pubblicamente nei giorni scorsi dal cancelliere Angela Merkel.

Ben venga, quindi, un modello sperimentale italiano lontano anni luce da queste esperienze osannate negli anni scorsi e anche in tempi recenti. Qualche commentatore nostrano poco accorto, sulla scia dei successi della nazionale di calcio francese tra il 1998 e il 2002 e della buona prova offerta da quella tedesca nell'ultimo mondiale, entrambe piene di «nuovi cittadini», aveva esaltato il modello d'integrazione francese e tedesco dimenticando colpevolmente che il mondo dorato del calcio è cosa ben diversa dalla vita di tutti i giorni.

lunedì 25 ottobre 2010

La competività passa attraverso la modernizzazione del lavoro



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
lunedì 25 ottobre 2010

Intervistato da Fabio Fazio nella trasmissione televisiva «Che tempo che fa», l'amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, ha affermato che «Fiat potrebbe fare di più se potesse tagliare l'Italia», aggiungendo che «nemmeno un euro dei 2 miliardi dell'utile operativo previsto per il 2010 arriva dall'Italia». Secondo Marchionne, poi, «Fiat non può continuare a gestire in perdita le proprie fabbriche per sempre». La Fiat, del resto, ha ripagato «qualsiasi debito verso lo Stato in Italia». «Non voglio ricevere un grazie - ha aggiunto - ma non accetto che mi si dica che chiedo assistenza finanziaria». Il Paese si trova «al 118/mo posto su 139 per efficienza del lavoro e al 48/mo posto per la competitività del sistema industriale».
Tuttavia è giusto aggiungere che, nonostante le criticità sottolineate da Marchionne, l'Italia è, in valore assoluto, la quinta potenza industriale mondiale con il 3,9% della produzione manifatturiera globale 2009 e ha distanziato ulteriormente la Francia (3,6%) che occupa il sesto posto e il Regno Unito (sceso al decimo posto nel mondo con il 2,3%). Davanti a noi troviamo solo i colossi Cina (21,5%), Stati Uniti (15,1%), Giappone (8,5%) e Germania (6,5%). Secondo il Centro Studi Confindustria, la posizione dell'Italia risulta ancora più solida se si guarda alla produzione industriale pro capite, che è una misura più appropriata della vocazione manifatturiera. Secondo questo indicatore, l'Italia è la seconda nazione più industrializzata del mondo (al suo interno, il Nord-Est è ancor più manifatturiero). In testa, con un notevole vantaggio (oltre il 27% sopra l'Italia), c'è la Germania; il Giappone è terzo e gli Stati Uniti sono distanziati (quasi il 29% sotto l'Italia). Ragionando, quindi, nel complesso possiamo dire che, nonostante alcune pesanti zavorre (efficienza del lavoro e competitività del sistema), il nostro Paese, al netto degli scenari catastrofici, oltre ad aver mantenuto negli anni il distacco dalla locomotiva tedesca, è tra quei paesi che hanno perso meno quote di mercato a discapito delle realtà emergenti come Cina, India, Brasile e Corea del Sud. Negli ultimi 10 anni, infatti, gli Usa hanno perso quasi il 10% (dal 24,8% al 15,1%) mentre il Giappone più del 7% (dal 15,8% all'8,5%).
Tutti questi numeri non ci dicono certamente che tutto va bene, ma sicuramente confermano che, nonostante alcune pesanti criticità di sistema, il nostro paese siede a pieno titolo tra le grandi potenze industriali mondiali. Non è mai un bene, comunque, sedersi sugli allori ed è giusto cogliere la critica di Marchionne per cercare di capire dove possiamo fare di più. Innanzitutto va detto, però, che, nonostante le parole dell'amministratore delegato del gruppo torinese, il tessuto industriale italiano ha sempre mostrato una certa attitudine all'adattamento verso le nuove sfide imposte dal mercato globale. E' vero anche però che le relazioni industriali non si possono certo piegare alle sole logiche di mercato, ma che si evolvono attraverso il dialogo tra le parti verso nuovi punti di equilibrio com'è già successo su larga scala nel mondo nel passaggio dal fordismo al postfordismo. Le difficoltà nascono perché questa nuova realtà spesso e volentieri non ha dei contorni ancora ben definiti e lo scontro sul mercato, tra chi produce abbattendo i costi puntando sui bassi salari e tutti gli altri, pone nuove problematiche nei paesi occidentali.
Tuttavia la risposta alle sfide imposte dal mercato globale, sul piano della competitività e della produttività, non può essere la riduzione delle tutele e dei diritti fondamentali dei lavoratori ma, invece, la modernizzazione del lavoro attraverso la flessibilità, gli incrementi salariali (solo a chi lavora di più e meglio) e alla contrattazione decentrata. Sul piano delle relazioni industriali è giusto che Marchionne, che fa gli interessi del gruppo che rappresenta, invochi un cambio di passo su certi temi ma è altrettanto giusto ricordare che le istituzioni e la maggior parte dei sindacati italiani hanno già dato ampia disponibilità a confrontarsi su questi argomenti e la riprova è nei fatti concreti, come l'accordo di Pomigliano. Fermo restando, inoltre, che la qualità dei lavoratori italiani del settore non è certo seconda a nessuno e che il marchio Fiat macina utili non solo perché risparmia sui costi producendo fuori dai confini nazionali, ma anche perché è un brand italiano. Una Fiat senza uno straccio di fabbrica nel Belpaese difficilmente potrebbe puntare sull'italianità e sul fascino che quest'aspetto trasmette all'estero nel mondo delle quattro ruote.

venerdì 22 ottobre 2010

L’Europa promuove l’azione italiana contro l’immigrazione clandestina



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
venerdì 22 ottobre 2010

In Italia non esiste alcuna emergenza immigrazione per quanto riguarda gli arrivi di clandestini, ormai scesi al 4% dell'intera pressione migratoria sui confini esterni dell'Ue. Una diminuzione che, d'altronde, segue il trend europeo che fa registrare un -24% di arrivi. Ad affermarlo è stato il vicedirettore dell'agenzia Frontex, Gil Arias Fernandez. L'alto dirigente dell'agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne ha avuto stamane un incontro con i giornalisti mentre, in contemporanea, si svolgeva un incontro tra il direttore di Frontex e una delegazione di parlamentari italiani del Comitato Schengen.
Per quanto riguarda in particolare l'Italia, Fernandez ha affermato che, rispetto all'intera percentuale dei paesi Ue, la pressione migratoria sulle nostre coste è passata dal 12% del 2009 al 4%. In Europa, se il primo semestre 2009 aveva fatto registrare 53.600 ingressi illegali, nello stesso periodo di quest'anno gli arrivi sono scesi a 40.900. Gli arresti di scafisti o persone coinvolte nel traffico e nel passaggio di immigrati clandestini sono passati dai 4.600 del 2009 ai 4.700 di quest'anno.
In diminuzione anche i cosiddetti «overstayers» (-22%), stranieri entrati regolarmente e rimasti sul territorio oltre la scadenza prevista dal visto, ed i richiedenti asilo calati nel corso dell'ultimo anno del 17%. In questo momento, ha poi detto il responsabile di Frontex - la vera zona critica per l'ingresso in Europa è costituita dalla Grecia e dalle frontiere di questo paese con Turchia e Albania. «Più' del 91% di tutti gli ingressi illegali in Europa - ha infatti detto Fernandez - transitano dal confine greco-turco e greco-albanese mentre altre rotte attive sono quelle dei Balcani occidentali, del Mediterraneo occidentale mentre la rotta dell'Africa occidentale, verso le Canarie, è praticamente chiusa».
Per quanto riguarda l'Italia nei primi 8 mesi del 2010 si è registrata una «drastica diminuzione» degli ingressi dei passaggi illegali, scesi dai 7.863 del primo semestre 2009 a 2.233 dello stesso periodo del 2010, pari a un -72% del totale. Praticamente bloccati gli ingressi nelle aree insulari mentre si denota la creazione di nuove rotte con sbarchi aumentati in Puglia e Calabria. Nelle due regioni meridionali se nel 2009, infatti, vi erano state 242 intercettazioni, nel 2010 si e' passati a 1.307 con un più 440%.
Insomma, l'agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne del vecchio continente ha promosso la politica italiana in tema di contrasto all'immigrazione clandestina. I risultati ottenuti hanno permesso non solo al nostro paese di diminuire i numeri dei clandestini in arrivo sul nostro territorio ma ha anche evitato che l'Italia continuasse a essere una sicura zona di transito illegale per arrivare, poi, ad altre destinazioni nel Nord e nel Centro-Europa. Questi risultati non arrivano a caso, ma sono il frutto di una seria azione intrapresa già da qualche tempo dal nostro Governo, che ha puntato con decisione, soprattutto grazie all'accordo con la Libia, sulla prevenzione del fenomeno. L'azione dell'Italia nella lotta all'immigrazione clandestina funziona e la riprova è nei numeri e non nelle chiacchiere. C'è ancora tanto da fare, soprattutto sul tema del miglioramento dello strumento della cooperazione allo sviluppo per scoraggiare le partenze per motivi economici, ma è giusto accogliere positivamente questo risultato e questo pubblico riconoscimento.

lunedì 18 ottobre 2010

Il fallimento del multiculturalismo



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
lunedì 18 ottobre 2010

Il cancelliere tedesco Angela Merkel, durante il congresso dei giovani di Cdu (Unione Cristiano Democratica) e Csu a Potsdam, ha affermato che il modello multiculturale in Germania è «totalmente fallito». Secondo la Merkel «la Germania non ha mano d'opera qualificata e non può fare a meno degli immigrati, ma questi si devono integrare e devono adottare la cultura e i valori tedeschi», compreso imparare la lingua. Il cancelliere tedesco sostiene che «l'idea di vivere fianco a fianco in serenità» è fallito per un approccio iniziale sbagliato, spiegando che quando «all'inizio degli anni Sessanta» la Germania ha «invitato i lavoratori stranieri a venire» non si era immaginato che poi questi si sarebbero stabiliti, comprese le future generazioni, nel Paese. «Ci siamo in parte presi in giro quando abbiamo detto "non rimarranno, prima o poi se ne andranno"», ha continuato Angela Merkel, sottolineando però che tutti gli extracomunitari sono ancora graditi in Germania, anche perché essenziali in determinati ambiti lavorativi.
Il fallimento tedesco certifica ancora una volta, se ancora ci fosse qualche dubbio, che il multiculturalismo è un modello che divide e non unisce, che alimenta l'odio verso la diversità e non favorisce la tolleranza. Ma cosa è il multiculturalismo? Si tratta di una politica volta a riconoscere e a tutelare l'identità culturale e linguistica delle varie componenti etniche presenti in un dato paese. Da dove nascono le criticità? Secondo il professor Giovanni Sartori, che ha saputo sintetizzare i fattori critici del multiculturalismo, la buona società è quella aperta e pluralistica fondata sulla tolleranza e sul riconoscimento del valore della diversità. Il multiculturalismo non è una prosecuzione del pluralismo ma, al contrario, la sua negazione, poiché non persegue un'integrazione differenziata, ma una disintegrazione multietnica. Il pluralismo difende ma contemporaneamente frena la diversità e richiede l'assimilazione, il multiculturalismo non fa che accentuare le diversità mediante politiche di riconoscimento. Mentre con l'affirmative action i principi del costituzionalismo liberale (governo della legge e generalità di questa) vengono rispettati, il multiculturalismo mina le basi della convivenza democratico-liberale. Questo secondo Sartori porta alla Bosnia e alla balcanizzazione (Giovanni Sartori, Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica, Milano, 2002).
Bisogna partire da un presupposto fondamentale per capire meglio. I paesi ricchi hanno da sempre bisogno di manodopera che alimenti la spinta produttiva di certi settori (agricoltura, edilizia, industria in senso stretto e, da ultimo, servizi per la cura della persona). Sempre più spesso questo fabbisogno non riesce a trovare una risposta soddisfacente all'interno del mercato del lavoro nazionale ed ecco che la leva dell'immigrazione è usata per rispondere a questa esigenza che nasce nel sistema economico e produttivo. Ovviamente l'immigrato non è un robot che, terminato il lavoro, si spegne e si mette a posto nel ripostiglio. E' una persona che, al di fuori del working time, ha spesso una famiglia e una vita sociale da vivere secondo usi e costumi propri del luogo da cui viene e una religione da professare. Ed è qui, da questa banalissima considerazione, che nascono quasi tutte le problematiche riguardanti il fenomeno dell'immigrazione.
Integrarsi significa adattarsi alla realtà che si vive e compiere un processo attraverso il quale diventare parte integrante di un sistema sociale, aderendo ai valori che ne definiscono l'ordine normativo (definizione di integrazione sociale). Quindi, se integrarsi vuol dire aderire ai valori, stiamo parlando in primis di un processo tutto personale, che ovviamente investe tutto quello che in sociologia rientra nella definizione dei cosiddetti gruppi primari e secondari, ma che riguarda fondamentalmente la sfera della volontà personale. La scuola, la famiglia, le istituzioni, magari anche l'ambiente di lavoro sono importanti nel processo di integrazione, ma l'aspetto fondamentale risiede nella volontà dell'individuo di adattarsi ai valori del paese in cui vive.
E' ovvio, poi, che siano fattori che non aiutano l'essere sottopagato, lavorare in nero e senza tutele, avere problemi con il processo di scolarizzazione dei figli, non riuscire a far vivere dignitosamente la propria famiglia con quello che si guadagna. Allora bisogna chiedersi se è giusto usare la leva dell'immigrazione per alimentare i processi produttivi di alcuni settori dell'economia nazionale senza considerare le ricadute di quest'operazione e anche se siamo in grado di gestire al meglio questi fenomeni con gli strumenti fin qui conosciuti e i parametri fino ad ora adottati. Alcuni operatori del sistema economico e produttivo, che usano, talvolta impropriamente, la leva dell'immigrazione per rispondere a un proprio fabbisogno, senza curarsi minimamente delle ricadute complesse di questo loro semplice gesto, dovrebbero fare la loro parte e cioè puntare il più possibile sulla formazione professionale e l'innovazione tecnologica, rispettare di più chi lavora e pagare il giusto senza mettere in concorrenza selvaggia gli autoctoni e gli stranieri.
Le difficoltà di alcuni processi sociali, come la convivenza e l'integrazione, unite a quelle di natura economica rappresentano il giusto carburante per alimentare tensioni nella società. In tutto questo, il modello multiculturale, che prevede attraverso le politiche di riconoscimento di adattare il sistema all'esigenza particolare e non generale, porta all'esaltazione massima degli egoismi e alla disgregazione sociale.
Il sistema dei valori di un paese non si può deformare secondo le esigenze dell'economia che ha bisogno di manodopera a basso costo. Deve essere l'immigrato, con un percorso personale, certamente non facile, ad aderire ai valori che definiscono l'ordine normativo di un paese. E' lui che deve cambiare qualcosa nel suo modo di vivere e non il sistema che lo ospita. Solo così si favorisce l'integrazione e si preserva la pace sociale.

mercoledì 13 ottobre 2010

Italia-Serbia. Polemiche improprie sulla gestione della sicurezza



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
mercoledì 13 ottobre 2010

All'indomani delle violenze di alcuni delinquenti mischiati ai tifosi al seguito della nazionale di calcio serba, che hanno provocato danni alla città di Genova e impedito con il loro comportamento all'interno dello stadio che si disputasse la partita in calendario per le qualificazione agli Europei, il sindaco del capoluogo ligure, Marta Vincenzi, ha affermato che il ministero dell'Interno non ha saputo valutare il problema e soprattutto la pericolosità dei tifosi a cui non doveva essere consentito l'accesso a Genova.

Innanzitutto va sottolineato che la condanna degli atti di questi teppisti da parte di molti esponenti istituzionali serbi è stata immediata e senza appello. L'ambasciatore della Serbia a Roma, la signora Sanda Raskovic-Ivic, si è scusata con il popolo italiano per i gravi disordini provocati da quel gruppo di delinquenti provenienti dal suo Paese. «Quanto accaduto a Genova - ha dichiarato - è una disgrazia, un vero incubo. Io e tutti noi serbi ci vergognamo molto. Colgo l'occasione per inviare al popolo italiano le scuse dell'ambasciata, del governo e del popolo di Serbia per quanto accaduto». L'ambasciatore ha tuttavia sottolineato che «questi sono ultrà delinquenti, non rappresentano in alcun modo il popolo serbo». Alla domanda di come sia stato possibile che questi facinorosi siano arrivati fino a Genova, Raskovic-Ivic è rimasta cauta. «Certo, è un lungo viaggio da Belgrado, non so proprio come sia stato possibile. Ma questa è una questione che riguarda le polizie dei due Paesi».

Ecco, appunto, ci vuole cautela nell'addossare le colpe. Cautela che non sembra emergere dalle parole del sindaco Vincenzi che, su due piedi, ha forse già deciso, non si capisce bene grazie a quali riscontri, chi sono i colpevoli istituzionali delle violenze che hanno turbato la città di Genova.

Ma analizziamo le parole di chi era in prima linea a difesa della città e della sua gente. Secondo Roberto Massucci, responsabile della sicurezza della nazionale inviato dal Viminale, «dalla polizia serba non era arrivata alcuna segnalazione che il livello di pericolosità dei tifosi al seguito fosse così alto: gente così non sarebbe mai dovuta arrivare fino a Genova». Per il dirigente del ministero dell'Interno l'apparato di sicurezza era adeguato, ma mai ci si sarebbe aspettato un livello di aggressività così alto. «I controlli - ha continuato Massucci - sono stati accurati, per quanto può essere in breve tempo su 2.000 persone. Ma va chiarito che in tutti gli stadi del mondo non ci può essere una perquisizione: chi vuole introdurre dolosamente quei fumogeni, evidentemente ci riesce». E ancora: «Tifosi del genere non avrebbero mai dovuto arrivare fino a Genova. Noi le persone pericolose le blocchiamo a casa, e nel caso non sia possibile segnaliamo alla polizia del Paese in cui andiamo i loro nomi. E mandiamo nostri funzionari». Quanti poliziotti serbi c'erano a Genova? «Nessuno», chiude Massucci. Gli stessi concetti sono stati confermati anche da Antonello Valentini, direttore generale della Figc.

Il capo della Polizia, Antonio Manganelli, ha inoltre fatto presente che «era impossibile impedire l'arrivo dei tifosi serbi, sia perché l'abolizione dei visti dalla Serbia rende impossibile il controllo alla frontiera, sia perché non ci sono state specifiche indicazioni sui movimenti dei tifosi da parte delle autorità serbe che potessero consentire l'adozione di particolari misure di prevenzione».

Tralasciando quindi le motivazioni anche politiche che hanno spinto questi delinquenti a compiere quegli atti di violenza, dal punto di vista della gestione dell'ordine pubblico sembra che le autorità italiane abbiano fatto tutto il possibile per evitare quello che è successo e, in aggiunta, per impedire che avvenisse anche di peggio. Dobbiamo dire grazie a tutti coloro che ieri hanno garantito l'incolumità di tutti gli spettatori all'interno dello stadio ed evitato che la situazione degenerasse sia dentro che fuori dal campo. Invece in Italia qualcuno punta il dito a casaccio contro i presunti colpevoli istituzionali.

Prendere come pretesto i fatti avvenuti a Genova ieri sera per polemizzare contro il governo e il ministero dell'Interno sembra francamente un gesto di cui non si sentiva il bisogno, perché non porta alcun elemento utile nel dibattito sulla sicurezza durante gli avvenimenti sportivi.

martedì 12 ottobre 2010

Agricoltura. I ritardi delle Regioni nell'utilizzo dei fondi Feasr



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
lunedì 11 ottobre 2010

Secondo uno studio realizzato dalla Uila-Uil e dal servizio politiche territoriali della Uil, ammontano a circa 400 milioni di euro le risorse del Fondo europeo di sviluppo rurale (Feasr) da spendere da qui alla fine dell'anno, pena la loro restituzione a Bruxelles. Il Feasr è strutturato attraverso 21 Programmi operativi regionali e il Programma «Rete rurale nazionale» al di fuori, ma in coerenza, con il Quadro strategico nazionale 2007-2013, a seguito della scelta della Commissione europea di programmare i Fondi strutturali attraverso il metodo «monofondo».

L'Italia, ogni anno, riceve dall'Europa mediamente 6,5 miliardi di euro, tra aiuti diretti agli agricoltori (4,3 miliardi) e misure di sostegno allo sviluppo rurale (2,2 miliardi, compreso il cofinanziamento nazionale). La situazione è particolarmente grave, soprattutto per alcune regioni nelle quali il basso livello di spesa è associato a forti ritardi procedurali (emanazione bandi, raccolta domande di finanziamento, formazione graduatorie dei beneficiari, erogazioni degli aiuti). Ciò relega il nostro Paese al terzultimo posto della classifica comunitaria, prima solo di Romania e Malta. Non è sicuramente un dato di cui andare fieri.

A giugno di quest'anno, nel corso di un question time alla Camera dei Deputati, rispondendo ad un'interrogazione su quest'argomento, presentata dal gruppo del Popolo della Libertà a firma Baldelli e De Camillis, il ministro dell'Agricoltura, Giancarlo Galan, aveva giustamente affermato che «la perdita dei fondi comunitari - ricordando che l'Italia è un Paese che conferisce all'Europa più di quanto ottiene e, quindi, si tratta di soldi già dati dal nostro Paese all'Europa - è il peggior delitto che si possa compiere». Nella stessa occasione, il ministro aveva aggiunto: «Vi immaginate con quale autorevolezza può presentarsi lo Stato italiano al tavolo delle trattative europee, chiedendo una nuova politica agricola comune e nuovi soldi per l'agricoltura, quando ha sprecato quelli dell'esercizio precedente? L'autorevolezza sarebbe ridotta sotto zero, e ciò, francamente, va evitato nel più rigoroso dei modi».

Andando a sbirciare lo studio della Uil, emerge che le regioni più virtuose nello spendere i fondi a disposizione sono state la Valle d'Aosta, la Lombardia, la Liguria, le province autonome di Trento e Bolzano, il Veneto, il Friuli Venezia Giulia, l'Emilia Romagna, la Toscana, l'Umbria e le Marche. Quelle che, invece, non sono state ancora in grado di utilizzare tutto il fondo sono: il Lazio, l'Abruzzo, il Molise, la Campania, la Puglia, la Basilicata, la Calabria, la Sicilia e la Sardegna. All'inizio di settembre, il ministro Galan aveva espresso soddisfazione per i rilevanti passi in avanti nella spesa dei fondi dei Programmi di sviluppo rurale fatti registrare nel mese di agosto soprattutto da Sicilia e Campania, che solo in quel mese avevano effettuato pagamenti rispettivamente per 37,4 e 36,3 milioni di euro. Il record negativo per l'inutilizzo di questi fondi spetta alla Puglia, che, nonostante la buona performance registrata ad agosto, con 118.074.441 euro ancora da spendere (pari al 12,7% del totale del fondo a disposizione), si attesta al primo posto delle regioni meno virtuose. Come può dunque il presidente di quella regione, Nichi Vendola, discettare di buon governo quando non riesce a spendere (fino ad ora) tutti i soldi che ha a disposizione per lo sviluppo delle attività agricole del territorio che amministra? Bisogna anche aggiungere, più in generale, che molte delle regioni meno virtuose hanno cambiato la propria amministrazione politica da troppo poco tempo per subire critiche su questo tema (pensiamo al Lazio, all'Abruzzo, alla Campania, alla Calabria, alla Sardegna) e altre, come il Molise, devono solo fare pochi passi per raggiungere il traguardo del pieno utilizzo dei fondi.

Ma qui è in gioco anche la fiducia dei cittadini verso l'amministrazione del proprio territorio. Quando ci troviamo dinanzi a questi dati sconfortanti, con quale autorevolezza a livello locale si potrà affermare che non ci sono soldi da spendere per rispondere alle richieste dei cittadini senza sentirsi dire che anche quando ci sono non si è in grado di gestirli in maniera virtuosa e proficua? Al netto delle polemiche politiche, che spesso si accendono su questioni fumose, è segno di buona amministrazione del territorio non riuscire a spendere le risorse europee in un settore strategico come quello agricolo? Alla luce dell'attuale situazione, soprattutto in virtù della crisi economica mondiale, non possiamo permetterci altri sprechi. E allora gli assessori regionali all'agricoltura interessati da questo problema si rimbocchino le maniche e spendano questi soldi nel migliore dei modi, se non altro per il rispetto dovuto a tutti gli operatori del mondo agricolo italiano.

martedì 5 ottobre 2010

Sanità. L'impegno del governo per ridurre i tempi delle liste d'attesa



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

martedì 05 ottobre 2010

Nell'ambito della sanità pubblica, i tempi d'attesa sono di estrema rilevanza. In Italia, per le prestazioni diagnostiche, bisogna aspettare almeno 360 giorni per fare l'ecografia al seno o una risonanza magnetica cranio (senza contrasto). Per una mammografia ci vogliono 420 giorni, per l'eco tessuto molle 480 e per l'ecocolordoppler 720 giorni. Nell'ambito delle visite specialistiche, per fare la visita neurochirurgica o un esame vestibolare i giorni da aspettare sono 180, 270 per la visita senologica e 390 per quella cardiologica. Per gli interventi chirurgici ci sono 1.080 giorni di attesa per gli interventi di protesi al seno, al ginocchio e all'anca, 540 giorni per l'intervento al menisco e 450 per l'asportazione della sacca lacrimale.
L'articolo 32 della Costituzione dichiara solennemente che la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti. Il fenomeno delle liste d'attesa che dilatano i tempi per l'accesso alle prestazioni erogate dal Servizio Sanitario Nazionale lede il diritto alla tutela della salute. Nel SSN l'erogazione delle prestazioni entro tempi appropriati, rispetto alla patologia e alle necessità di cura, rappresenta una componente strutturale dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), così come previsto dal DPCM 29 novembre 2001 e successive modificazioni e dagli Accordi ed Intese tra Stato e Regioni e P.A. successivamente intercorsi. Questo problema dei tempi d'attesa costituisce uno degli aspetti più critici dei moderni sistemi sanitari, giacché influenza l'accessibilità e la fruibilità delle prestazioni.
Il ministero della Salute ha condotto nel 2005, nel 2007 e nel 2009 tre indagini nazionali sull'utilizzo di internet quale strumento di comunicazione dei dati su tempi e liste di attesa nei siti delle Regioni e P.A. e delle strutture del Servizio Sanitario Nazionale, dalle quali risultava uno scarso utilizzo del web quale veicolo di comunicazione e trasparenza sui tempi d'attesa.
Secondo il centro studi Sic di FederAnziani, che ha passato al setaccio i dati delle attività cliniche e di laboratorio del nostro comparto sanitario, gli italiani trascorrono il loro tempo negli ospedali per effettuare indagini cliniche e di laboratorio, dilapidando miliardi di euro, sprecando centinaia di migliaia di ore lavoro e ingrossando a dismisura le liste di attesa. Dai dati è emerso che nel 2009 gli italiani si sarebbero sottoposti complessivamente a ben oltre 1 miliardo e 300 mila prestazioni sanitarie, quasi 21,66 pro capite.
In un paese moderno e civile è doveroso che il servizio pubblico garantisca a tutti i cittadini tempi di accesso alle prestazioni sanitarie certi e adeguati ai problemi clinici, ed è assolutamente indispensabile stroncare il deplorevole fenomeno delle liste d'attesa create talvolta ad arte per spingere i pazienti a pagare quel che nel normale orario di lavoro non è garantito gratis o col solo pagamento del ticket.
Nel nuovo piano messo a punto dal ministero della Salute e annunciato dal ministro Ferruccio Fazio, le priorità sono: innanzitutto un monitoraggio su tutte le liste di attesa, con particolare attenzione verso le patologie cardiovascolari ed oncologiche, che necessitano di controlli e terapie urgenti; liste di attesa differenziate a seconda dei casi clinici; sinergia tra cup nazionale e sistemi di prenotazione regionali; identificazione di 60 specifiche prestazioni per le quali la lista di attesa avrà un tempo di durata massimo e un'attenzione particolare verso le patologie cardiovascolari e oncologiche; più rigore in generale per tutte le prestazioni.
Se l'operazione del governo per abbattere i tempi delle liste di attesa nella sanità andrà a buon fine, non si tratterà di una semplice svolta ma, come giustamente rilevato dal ministro Fazio, di una rivoluzione. La tutela della salute delle persone non può attendere le lungaggini della burocrazia o essere calpestata dal malfunzionamento delle strutture o da atteggiamenti negativi da parte del personale sanitario. Essere o meno persone abbienti non può e non deve diventare un discrimine per accedere a cure celeri ed efficienti. La civiltà di un paese si misura anche su questi temi.
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