martedì 26 ottobre 2010

Il dossier Caritas-Migrantes sull'immigrazione conferma la bontà dell'azione del governo



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
martedì 26 ottobre 2010

Piace, agli organismi della Cei Caritas e Migrantes, il piano per l'integrazione nella sicurezza denominato «Identità e Incontro», proposto dal governo Berlusconi come modello italiano d'integrazione, perché lontano dall'assimilazionismo e dal multiculturalismo. «Nel documento - sottolinea il dossier statistico sull'immigrazione - vengono individuati percorsi imperniati su diritti e doveri, responsabilità e opportunità, in una visione di relazione reciproca, facendo perno sulla persona e sulle iniziative sociali piuttosto che sullo Stato e individuando cinque assi di intervento: l'educazione e l'apprendimento, dalla lingua ai valori; il lavoro e la formazione professionale; l'alloggio e il governo del territorio; l'accesso ai servizi essenziali; l'attenzione ai minori e alle seconde generazioni». Il rapporto critica però il fatto che «al di là della ricorrente insistenza, tanto nel documento governativo come in ambito comunitario, sulle migrazioni a carattere rotatorio», gli aiuti allo sviluppo che potrebbero favorire i ritorni in patria e fermare l'esodo siano arrivati a collocarsi nel frattempo «a livello veramente minimo».

Secondo lo studio, nel 2009 sono state allontanate dall'Italia ben 18.361 persone: 4.298 respingimenti e 14.063 rimpatri forzati. Mentre le persone rintracciate in posizione irregolare, ma non ottemperanti all'intimazione di lasciare il territorio italiano, sono state 34.462. Nel rapporto si sottolinea, inoltre, che risulterà inefficace il controllo delle frontiere se non si incentiveranno i percorsi regolari dell'immigrazione e che non è in discussione la necessità di regole, bensì la loro funzionalità.

Insomma, il dossier Caritas-Migrantes promuove a grandi linee il progetto del governo in materia di immigrazione e, cosa più importante, non si scaglia ferocemente contro respingimenti e rimpatri. Non usa, come hanno fatto alcuni, parole davvero improprie, ma cerca di porre l'accento in modo razionale e costruttivo sulle criticità presenti nella gestione degli ingressi regolari e non. Lo stesso Benedetto XVI, nel suo messaggio sul tema «Una sola famiglia umana» per la 97esima Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato, che sarà celebrata domenica 16 gennaio 2011, ha affermato che «accogliere i rifugiati e dare loro ospitalità è per tutti un doveroso gesto di umana solidarietà, affinché essi non si sentano isolati a causa dell'intolleranza e del disinteresse». Ha aggiunto, però, che gli immigrati «hanno il dovere di integrarsi nel Paese di accoglienza, rispettandone le leggi e l'identità nazionale».
La doverosa accoglienza e la necessaria solidarietà si possono conciliare benissimo con la salvaguardia effettiva delle frontiere e con il contrasto, anche duro, all'immigrazione clandestina. E' giusto confrontarsi sulla gestione dei rifugiati, ma questa è una questione che l'Italia non può risolvere da sola: è un problema di cui si devono far carico obbligatoriamente tutti e 27 gli Stati Ue. Il nostro Paese, insomma, deve fare la sua parte, ma non può fare tutto in solitudine, perché la massa di persone con cui ci si dovrebbe confrontare, giacché l'Italia è una delle porte d'ingresso per l'Europa, rischierebbe di far saltare il principio dell'accoglienza sostenibile, che è la base per iniziare un virtuoso cammino per l'integrazione, e di conseguenza - cosa ancora più rischiosa - la pace sociale sul territorio.

Per quanto riguarda inoltre l'integrazione, la via italiana sembra aver trovato, almeno dal punto di vista delle linee generali, il giusto equilibrio tra quello che possono fare le istituzioni (servizi, canali per l'accesso al mondo del lavoro, formazione professionale, priorità all'integrazione dei minori stranieri presenti sul territorio e loro tutela piena e incondizionata) e quello che deve fare l'immigrato. Il processo d'integrazione è anche, e soprattutto, un percorso personale, spesso difficile e complicato, in cui è decisiva la volontà, da parte dello straniero, di aderire ai valori che definiscono l'ordine normativo del Paese in cui ha scelto di vivere. Non c'è altra via diversa da quella della piena responsabilizzazione dell'immigrato e lo abbiamo visto con il fallimento di modelli, come quello assimilazionista o multiculturalista, che partivano da presupposti totalmente sbagliati e che non hanno fatto altro che condurre in un vicolo cieco. In Francia immigrati di seconda generazione e giovani cittadini figli degli assimilati di origine maghrebina sposano il separatismo culturale contro l'appartenenza francese e arrivano polemicamente a fischiare la Marsigliese durante le partite di calcio della nazionale transalpina contro Marocco, Tunisia e Algeria. In Gran Bretagna, invece, le politiche di riconoscimento proprie del modello multiculturalista hanno creato ghettizzazioni, separatismo culturale e tensioni nella società. Mentre in Germania il fallimento è stato ammesso pubblicamente nei giorni scorsi dal cancelliere Angela Merkel.

Ben venga, quindi, un modello sperimentale italiano lontano anni luce da queste esperienze osannate negli anni scorsi e anche in tempi recenti. Qualche commentatore nostrano poco accorto, sulla scia dei successi della nazionale di calcio francese tra il 1998 e il 2002 e della buona prova offerta da quella tedesca nell'ultimo mondiale, entrambe piene di «nuovi cittadini», aveva esaltato il modello d'integrazione francese e tedesco dimenticando colpevolmente che il mondo dorato del calcio è cosa ben diversa dalla vita di tutti i giorni.

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