lunedì 25 ottobre 2010

La competività passa attraverso la modernizzazione del lavoro



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
lunedì 25 ottobre 2010

Intervistato da Fabio Fazio nella trasmissione televisiva «Che tempo che fa», l'amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, ha affermato che «Fiat potrebbe fare di più se potesse tagliare l'Italia», aggiungendo che «nemmeno un euro dei 2 miliardi dell'utile operativo previsto per il 2010 arriva dall'Italia». Secondo Marchionne, poi, «Fiat non può continuare a gestire in perdita le proprie fabbriche per sempre». La Fiat, del resto, ha ripagato «qualsiasi debito verso lo Stato in Italia». «Non voglio ricevere un grazie - ha aggiunto - ma non accetto che mi si dica che chiedo assistenza finanziaria». Il Paese si trova «al 118/mo posto su 139 per efficienza del lavoro e al 48/mo posto per la competitività del sistema industriale».
Tuttavia è giusto aggiungere che, nonostante le criticità sottolineate da Marchionne, l'Italia è, in valore assoluto, la quinta potenza industriale mondiale con il 3,9% della produzione manifatturiera globale 2009 e ha distanziato ulteriormente la Francia (3,6%) che occupa il sesto posto e il Regno Unito (sceso al decimo posto nel mondo con il 2,3%). Davanti a noi troviamo solo i colossi Cina (21,5%), Stati Uniti (15,1%), Giappone (8,5%) e Germania (6,5%). Secondo il Centro Studi Confindustria, la posizione dell'Italia risulta ancora più solida se si guarda alla produzione industriale pro capite, che è una misura più appropriata della vocazione manifatturiera. Secondo questo indicatore, l'Italia è la seconda nazione più industrializzata del mondo (al suo interno, il Nord-Est è ancor più manifatturiero). In testa, con un notevole vantaggio (oltre il 27% sopra l'Italia), c'è la Germania; il Giappone è terzo e gli Stati Uniti sono distanziati (quasi il 29% sotto l'Italia). Ragionando, quindi, nel complesso possiamo dire che, nonostante alcune pesanti zavorre (efficienza del lavoro e competitività del sistema), il nostro Paese, al netto degli scenari catastrofici, oltre ad aver mantenuto negli anni il distacco dalla locomotiva tedesca, è tra quei paesi che hanno perso meno quote di mercato a discapito delle realtà emergenti come Cina, India, Brasile e Corea del Sud. Negli ultimi 10 anni, infatti, gli Usa hanno perso quasi il 10% (dal 24,8% al 15,1%) mentre il Giappone più del 7% (dal 15,8% all'8,5%).
Tutti questi numeri non ci dicono certamente che tutto va bene, ma sicuramente confermano che, nonostante alcune pesanti criticità di sistema, il nostro paese siede a pieno titolo tra le grandi potenze industriali mondiali. Non è mai un bene, comunque, sedersi sugli allori ed è giusto cogliere la critica di Marchionne per cercare di capire dove possiamo fare di più. Innanzitutto va detto, però, che, nonostante le parole dell'amministratore delegato del gruppo torinese, il tessuto industriale italiano ha sempre mostrato una certa attitudine all'adattamento verso le nuove sfide imposte dal mercato globale. E' vero anche però che le relazioni industriali non si possono certo piegare alle sole logiche di mercato, ma che si evolvono attraverso il dialogo tra le parti verso nuovi punti di equilibrio com'è già successo su larga scala nel mondo nel passaggio dal fordismo al postfordismo. Le difficoltà nascono perché questa nuova realtà spesso e volentieri non ha dei contorni ancora ben definiti e lo scontro sul mercato, tra chi produce abbattendo i costi puntando sui bassi salari e tutti gli altri, pone nuove problematiche nei paesi occidentali.
Tuttavia la risposta alle sfide imposte dal mercato globale, sul piano della competitività e della produttività, non può essere la riduzione delle tutele e dei diritti fondamentali dei lavoratori ma, invece, la modernizzazione del lavoro attraverso la flessibilità, gli incrementi salariali (solo a chi lavora di più e meglio) e alla contrattazione decentrata. Sul piano delle relazioni industriali è giusto che Marchionne, che fa gli interessi del gruppo che rappresenta, invochi un cambio di passo su certi temi ma è altrettanto giusto ricordare che le istituzioni e la maggior parte dei sindacati italiani hanno già dato ampia disponibilità a confrontarsi su questi argomenti e la riprova è nei fatti concreti, come l'accordo di Pomigliano. Fermo restando, inoltre, che la qualità dei lavoratori italiani del settore non è certo seconda a nessuno e che il marchio Fiat macina utili non solo perché risparmia sui costi producendo fuori dai confini nazionali, ma anche perché è un brand italiano. Una Fiat senza uno straccio di fabbrica nel Belpaese difficilmente potrebbe puntare sull'italianità e sul fascino che quest'aspetto trasmette all'estero nel mondo delle quattro ruote.

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