giovedì 17 giugno 2010

La questione dello stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

mercoledì 16 giugno 2010

Si è chiusa con un accordo separato, senza la Fiom, la trattativa tra la Fiat e i sindacati dei metalmeccanici sullo stabilimento di Pomigliano d'Arco e l'indizione di un referendum tra i lavoratori che si terrà martedì 22 giugno. Fim, Uilm, Fismic e Ugl hanno firmato il nuovo documento, integrato, presentato dai vertici dell'azienda torinese. La Fiom ha confermato il suo «no» a un testo che considera «irricevibile», dai profili di «illegittimità», un «ricatto». Le tute blu della Cgil non si sono mosse dalla propria posizione - «di retroguardia» e «irragionevole», per le altre sigle - nonostante gli inviti e le pressioni ricevute. E hanno ripetuto il «no» anche alla consultazione degli operai. Consultazione alla quale è legato l'effettivo sblocco degli investimenti Fiat per il sito campano, circa 700 milioni di euro per portare la produzione della futura Panda dalla Polonia in Italia. La parola passa, dunque, ai lavoratori: senza il loro sì, non se ne fa niente. La Fiat è stata chiara nel chiedere il consenso di tutti.
I 5.200 dipendenti Fiat di Pomigliano d'Arco dovranno scegliere il loro destino, quello dei circa 10.000 lavoratori tra indotto e fornitori, quello di una buona fetta dell'economia di quell'area e quello delle scelte industriali della stessa Fiat. Dall'esito della votazione, infatti, dipenderà l'avvio concreto del progetto «Fabbrica Italia», che porterà il Lingotto al raddoppio della produzione automobilistica entro il 2014. Al via libera di Pomigliano è legato l'intero progetto di rilancio del gruppo in Italia. Un mosaico che potrebbe venir meno nel caso di una vittoria delle ragioni del no all'accordo da parte dei lavoratori impegnati nello stabilimento campano. La Fiat, infatti, potrebbe tirar fuori dal cilindro il piano B e cioè lo spostamento delle produzioni all'estero per motivi di cassa (in Polonia e in Serbia la produzione costa meno). Ovviamente la delocalizzazione totale non sarebbe così facile, anche per una questione d'immagine. Uno dei punti di maggior forza delle automobili Fiat è l'italianità e, con una produzione interamente fuori dai confini nazionali, diventerebbe difficile vendere il prodotto puntando sulle passioni che suscita all'estero il tricolore italiano nel mondo dei motori. L'amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, che è una persone intelligente e lungimirante, ha capito che il marchio «Italia» è centrale nelle strategie dell'azienda automobilistica torinese e, infatti, ha puntato sul rilancio della produzione italiana. In un momento storico in cui la delocalizzazione sembra essere per la maggior parte delle grandi industrie la via maestra per fare subito cassa, lui ha deciso di restare in Italia. Tuttavia, davanti ad una vittoria del no il 22 giugno, il rischio di vedere la produzione Fiat andare all'estero diventa concreto.
Lo scorso mese Marchionne aveva evidenziato come il piano Fabbrica Italia «punta ad attuare soluzioni definitive alla debolezza del complesso industriale di Fiat in Italia» e «riduce il numero dei siti manifatturieri in Italia da sei a cinque», portando la capacità a un livello ottimale»; questo, secondo Marchionne, «è l'unico modo per garantire un futuro solido per Fiat e per la sua base manifatturiera in Italia». «Quello di cui abbiamo bisogno è superare gli interessi personali: ritengo che un dialogo costruttivo sia necessario e possibile. Soluzioni accettabili possono essere trovate. Ma è necessario che tutti quelli coinvolti si sentano parte del processo e nel trovare una soluzione piuttosto che creare ostacoli lungo la strada. Per questo motivo abbiamo chiesto ai sindacati di rinegoziare accordi che non sono più adeguati» con le attuali esigenze.
Nella trattativa di Pomigliano la Fiat è riuscita a giocare bene le proprie carte. La maggior parte dei sindacati ha scelto la via della responsabilità. Fuori dal coro i rappresentanti della Fiom-Cgil che, con il loro no all'accordo e la loro rigidità, rischiano di mettere a rischio 15.000 posti di lavoro in Campania e la scelta strategica dell'azienda automobilistica torinese di migliorare la propria produzione sul territorio italiano. Per quanto riguarda il merito della vicenda, invece, la Fiat ha voluto espressamente porre un freno all'assenteismo e alle derive degenerative nello stabilimento campano in materia di diritto di sciopero e sulle tutele economiche spettanti ai lavoratori in malattia. I sindacati, da parte loro, dovrebbero essere i primi a sapere che i diritti dei lavoratori si difendono anche contrastando gli abusi che si fanno di questi stessi diritti. L'azienda torinese ha messo sul piatto 700 milioni di euro per il rilancio dello stabilimento di Pomigliano d'Arco e ha preteso che lì si lavori e si produca almeno come avviene negli Stati Uniti o in Canada.

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