martedì 28 giugno 2011

L’inquietudine dei giovani italiani



Antonio Maglietta
28 giugno 2011

Secondo i dati diffusi dalla Fondazione Migrantes sull'emigrazione, per il 40% degli intervistati tra i 25 e 34 anni vivere in Italia è una sfortuna e il 40,6%, prendendo in considerazione tutte le fasce di età, ha dichiarato che si trasferirebbe volentieri altrove. Oltre il 60% dei connazionali, quindi, ritiene invece che vivere in Italia sia una fortuna, ma questa percentuale si riduce gradualmente man mano che dalle fasce di età più anziane si arriva ai giovani, i grandi delusi. Il male sovrano, per i giovani italiani, è la precarietà: a indicarlo il 43,5% dei 18-24enni e il 33,6% dei 25-34enni. Seguono, nell'ordine, la mancanza di senso civico (20,6%), l'eccessivo livello di corruzione (19,1%), la classe politica (15,2%), la condizione economica (8,6%), il tasso di criminalità (3,9%) e lo stato del welfare (1,3%). Secondo i dati dell’Aire (Anagrafe degli italiani all’estero), sulla totalità degli italiani emigrati all'estero, circa la metà (il 47,8%) sono donne e il 25%, la percentuale più elevata, ha tra i 30 e i 44anni, come lo è anche quella dei giovani, tra i 18 e i 29 anni, che lascia l'Italia per un paese straniero (21,1%) anche se è importante sottolineare che una parte di loro si sposta temporaneamente per un periodo di studio.
A tutti questi dati ufficiali, però, va aggiunta una considerazione: molti italiani che vivono all’estero non sono iscritti all’Aire o perché non hanno ancora deciso se restare o rientrare in Italia o perché neanche sanno dell’esistenza dell’anagrafe all’estero. Questo vuol dire che con tutta probabilità i numeri reali sono anche maggiori di quelli ufficiali. Non a caso secondo uno studio di Confimpreseitalia, l'associazione delle micro-imprese e dell'artigianato aderente a Confapi (Confederazione italiana della piccola e media industria privata), le cifre reali sarebbero il doppio di quelle ufficiali: più di 60mila giovani italiani, lavoratori o in cerca di lavoro, lasciano l'Italia ogni anno per cercare migliori occasioni all'estero. Molti di questi in cerca di prima occupazione e nel 70% dei casi si tratterebbe di laureati. Secondo la ricerca, l’investimento in capitale umano che sarebbe perso dal nostro sistema-paese per l’espatrio dei laureati ammonta a 5 miliardi e 915 milioni di dollari. Ma non è questo il punto perché far passare l’idea che l’estero sia indistintamente un Eldorado è assolutamente falso perché anche gli altri paesi soffrono gli effetti della crisi e hanno alti tassi di disoccupazione. Basta pensare al caso della Spagna, citata fino a pochissimo tempo fa da molti commentatori nostrani come un sistema da prendere a modello salvo poi rivelarsi con il suo tasso di disoccupazione giovanile schizzato a oltre il 40% la tomba dei sogni degli under 25 e non solo.
Che cosa spinge un giovane italiano ad andare all’estero per motivi di lavoro? Nella maggior parte dei casi due cose. Innanzitutto la voglia di migliorare la propria posizione sociale e, contemporaneamente, pensare che in Italia non ci sia alcuna opportunità per rendere concreto questo volere: l’ambizione e lo sconforto di non poter realizzare i propri sogni nel paese natio. E allora dobbiamo combattere con tutti i mezzi questi segnali di sconforto, ripulendo le riflessioni dai catastrofismi anche perché un certo flusso di emigrati è fisiologico e se analizziamo i dati sul medio-lungo periodo ci accorgiamo che la fuga all’estero è in costante e continua diminuzione. Questo vuol dire che non è vero che c’è una fuga dal nostr Segnalava, infatti, il V Rapporto sugli italiani nel mondo della Fondazione Migrantes, “in Italia i flussi con l’estero si sono ormai ridotti: un po’ più di 50mila l’anno quelli in uscita, e un po’ di meno quelli di ritorno. Bisogna mettere in conto che le partenze, specialmente quelle dei giovani, inizialmente hanno un carattere di sperimentazione, per cui i protagonisti non provvedono alla cancellazione anagrafica presso il proprio Comune, con la riserva di formalizzarla solo quando la permanenza all’estero sia diventata stabile”.
Il vero problema è quello del miglioramento delle vie per entrare nel mercato del lavoro (il sistema dell’istruzione, la formazione, gli strumenti per trovare lavoro) ma, soprattutto, la lotta contro la precarietà o comunque contro la percezione di vivere sul filo del rasoio o a causa del basso guadagno o perché il contratto di lavoro è di breve durata, e non si hanno certezze sul rinnovo, o perché addirittura si lavora in nero. Come si combatte questa situazione critica? Il percorso è lungo ed è già iniziato con la riforma del nostro sistema d’istruzione e con gli interventi nel settore della formazione. Resta aperta la questione degli ammortizzatori sociali perché è necessario dare ai giovani italiani la possibilità di lavorare ed esprimersi senza avere la paura di cadere nel baratro. La flessibilità, oramai è un dato accertato, è uno strumento che ha agevolato l’ingresso nel mercato del lavoro dopo che per buona parte degli anni ’90 quasi tutti i paesi occidentali soffrivano di alti tassi di disoccupazione. Il problema è che talvolta la flessibilità si è trasformata in precariato in assenza di adeguati strumenti di protezione sociale. Nella relazione letta qualche giorno fa al Convegno dei giovani di Confindustria, il direttore generale della banca d’Italia ha sottolineato che per i lavoratori con contratti a tempo determinato o con un rapporto di collaborazione la crisi ha ulteriormente ridotto le possibilità di transizione verso forme contrattuali più stabili e con maggiori tutele. Poco più di un quinto dei giovani occupati con lavoro dipendente tra i 15 e i 34 anni hanno contratti a termine, più che negli altri paesi europei, con l’eccezione della Spagna. Anche i percorsi di carriera e i salari dei giovani lavoratori autonomi – pari nel 2010 a circa il 20 per cento dei giovani occupati – si caratterizzano per un’elevata incertezza. Con la diffusione dei contratti atipici si è sostenuta l’occupazione, ma al costo di rendere il mercato del lavoro sempre più dualistico; accanto a una fascia di lavoratori tutelati, per lo più anziani, è sorta un’ampia area di lavoratori precari, per lo più giovani Oggi un giovane che si affaccia per la prima volta sul mercato del lavoro in Italia ha il 55% di probabilità di vedersi offrire soltanto un lavoro in qualche modo precario. Come se ne esce? Bisogna ripeterlo all’infinito affinché il concetto diventi sempre più chiaro: con un sistema universale di protezione sociale economicamente sostenibile. Certo si tratterebbe di mettere mano al nostro iniquo welfare, toccando interessi e facendo arrabbiare qualcuno, ma alla fine bisogna farlo. Il problema non è saltare da un lavoro all’altro ma avere una rete di protezione sotto che eviti di sfracellarsi in un burrone.

FONTE

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