lunedì 14 gennaio 2008

Vogliono annacquare la legge sulla cittadinanza



di Antonio Maglietta - 12 gennaio 2008

Cittadinanza di diritto per chi nasce in Italia da genitori stranieri, accorciamento dei tempi richiesti per ottenere la cittadinanza italiana - da dieci a cinque anni di residenza nel Paese - e riconoscimento della doppia cittadinanza, cioè diritto a conservare anche quella del paese di origine. Lo chiede la Fondazione Migrantes, l'organo della Conferenza Episcopale Italiana per l'assistenza religiosa ai migranti italiani e stranieri, per «favorire una vera integrazione degli immigrati in Italia e soprattutto dei giovani immigrati». Questi auspici sono stati illustrati da monsignor Domenico Sigalini, segretario di Migrantes, e da monsignor Gianromano Gnesotto, responsabile della pastorale dei migranti per la stessa Fondazione. «Occorre - ha affermato monsignor Sigalini - che nella concessione della cittadinanza si aggiunga allo "jus sanguinis" lo "jus soli" ». «Chiediamo - ha detto monsignor Gnesotto - che continui per questo l'iter legislativo cominciato il 7 febbraio 2007 in Commissione affari costituzionali della Camera e che si svolga in maniera positiva». Monsignor Gnesotto ha anche ricordato che in Europa soltanto l'Italia e la Spagna richiedono ancora dieci anni di permanenza nel paese per poter fare domanda di cittadinanza e ha auspicato che si ritorni alla legge del 1912 che ne richiedeva soltanto cinque.

Sul punto, però, se proprio dobbiamo guardare gli altri paesi europei, dobbiamo farlo integralmente e non a spezzoni: in Germania per la naturalizzazione sono richiesti otto anni, mentre in Francia e in Gran Bretagna è vero che allo straniero che voglia ottenere la cittadinanza è richiesto un periodo di residenza di cinque anni, tuttavia in Francia il figlio di stranieri nato nel territorio nazionale può ottenere la cittadinanza solo alla maggiore età, se residente per cinque anni dall'età di undici anni, ed in Gran Bretagna diviene cittadino chi vi nasce da uno straniero autorizzato a risiedervi in modo permanente. In Germania e in Spagna, inoltre, non è consentita la doppia cittadinanza per cui lo straniero o il figlio di stranieri che acquista la cittadinanza nazionale deve rinunciare a quella di origine. Perché allora si chiede all'Italia di acquisire nel proprio ordinamento un pacchetto di norme che nessun paese occidentale si sogna di avere organicamente tutte insieme?

Anche monsignor Piergiorgio Saviola, direttore generale della Fondazione Migrantes, in un editoriale pubblicato dal giornale Famiglia Cristiana in edicola questa settimana, invita a rivedere la normativa sulla cittadinanza. E puntuale è arrivata anche la dichiarazione del Ministro per la solidarietà sociale, Paolo Ferrero: «Condivido la posizione espressa dai vescovi italiani che auspicano per coloro che nascono in Italia, anche se da genitori stranieri, il pieno riconoscimento della cittadinanza italiana». Ma diamo uno sguardo alla normativa nostrana: la cittadinanza italiana, basata principalmente sullo «ius sanguinis» (diritto di sangue), per il quale il figlio nato da padre italiano o da madre italiana è italiano, è regolata attualmente dalla legge 5 febbraio 1992, n. 91 e dai regolamenti di esecuzione. Per essere dichiarato cittadino italiano, al compimento dei 18 anni il figlio di immigrati nato in Italia deve farne richiesta. A questo proposito acquista importanza l'articolo 4, comma 2, della legge 5 febbraio 1992, n. 91, sulla disciplina dell'acquisto della cittadinanza italiana per lo straniero nato in Italia che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino alla maggiore età. Requisito per tale concessione sono il possesso del permesso di soggiorno (annotato su quello dei genitori) fin dalla nascita e la registrazione all'anagrafe del Comune di residenza. Una circolare del ministero dell'Interno del 7 novembre 2007 precisa che certificazione scolastica, attestati di vaccinazione, certificati medici in generale o altro, potranno comprovare la permanenza nel nostro Paese per l'iscrizione anagrafica, pur se tardiva, degli stranieri nati in Italia che chiedono l'acquisto della cittadinanza italiana. Qualora ci fossero periodi di interruzione nella titolarità del permesso di soggiorno, il richiedente potrà presentare documentazione che attesti comunque la presenza in Italia (certificazione scolastica, medica, o altro).

Secondo i dati Istat, al 1° gennaio 2007 gli stranieri residenti in Italia sono 2.938.922 (1.473.073 maschi e 1.465.849 femmine); rispetto all'anno precedente gli iscritti in anagrafe sono aumentati di 268.408 unità (+10,1%). In base ai dati disponibili di fonte Ministero dell'Interno, sono 215 mila i cittadini stranieri che fino al 2006 hanno ottenuto la cittadinanza italiana. La maggior parte delle acquisizioni di cittadinanza italiana avviene per matrimonio. Le concessioni della cittadinanza italiana per naturalizzazione, invece, sono ancora poco frequenti, specialmente se confrontate con il bacino degli stranieri potenzialmente in possesso del requisito principale e cioè la residenza continuativa per 10 anni. Più di uno straniero su quattro (26,2%) è regolarmente presente in Italia da oltre un decennio e quindi potrebbe essere in possesso del requisito della residenza continuativa. Gli stranieri con regolare permesso di soggiorno che vivono da 5 anni nel nostro Paese rappresentano, invece, il 50,5% del totale degli stranieri residenti in Italia (Istat: La popolazione straniera residente in Italia, 2 ottobre 2007).

In pratica sono gli stessi stranieri che, pur avendone i requisiti, non richiedono la cittadinanza italiana. Ma allora perché diminuire il dato temporale da 10 a 5 anni, raddoppiando la platea degli aventi diritto? Quale dato scientifico qualifica questa proposta di modifica della legge sulla cittadinanza come una necessità? Perché solo in Italia si vuole legiferare con l'istinto del momento e non con la ragione e lo studio dei dati, peraltro in una materia così delicata?

Antonio Maglietta

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