mercoledì 21 marzo 2012

No ai veti sulla riforma del mercato del lavoro

di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
mercoledì 21 marzo 2012

Siamo alla stretta finale nel confronto tra Governo e Parti Sociali sulla riforma del mercato del lavoro e, a breve, la discussione passerà al Parlamento che d’ora in poi diventerà l’unico interlocutore dell’Esecutivo, com’è giusto che sia in questa fase, per arrivare in tempi rapidi all’approvazione di una legge. «Noi difenderemo questa riforma e siamo contenti del fatto che il conto non lo paghino le piccole e medie imprese con l'aumento del costo del lavoro. Sull'articolo 18 diciamo che si è trovato un buon punto di equilibrio sul quale non si deve arretrare in Parlamento», ha dichiarato il segretario nazionale del Pdl Angelino Alfano.
Le aree di intervento oggetto del dialogo tra Governo e Parti Soci sono tre: contrasto al precariato, riforma degli ammortizzatori sociali, modifica dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori in materia di licenziamenti individuali. Sulle prime due è stato trovato l’accordo mentre resta ancora aperta la terza questione con la Cgil sempre fuori dal coro e contraria alla modernizzazione.

Contrasto al precariato. Sono stati previsti una serie d’interventi, peraltro ampiamente condivisibili, per cercare di mettere alcuni paletti fondamentali nel rapporto tra giovani in cerca di occupazione e datori di lavoro, per evitare che la condizione di bisogno dei primi sia sfruttata in modo improprio dai secondi:

- il contratto privilegiato per l’ingresso del mondo del lavoro sarà quello di apprendistato, così come pensato dall’ex ministro del lavoro, Maurizio Sacconi, durante l’ultimo governo Berlusconi, e cioè un contratto di lavoro a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e all’occupazione dei giovani;

-stretta sui contratti a termine (esclusi stagionali o sostitutivi) attraverso la duplice previsione dell’impossibilità della proroga oltre i 36 mesi e di un contributo aggiuntivo dell’1,4% che servirà per finanziare il nuovo sussidio di disoccupazione; divieto di stage gratuiti per coloro che sono già in possesso di una laurea o hanno già fatto un master;

-norma contro le dimissioni in bianco delle lavoratrici e stretta su partite iva con monocommitente, co.co.pro e associazioni in partecipazione se non si è familiari.

Riforma ammortizzatori sociali. Secondo le dichiarazioni del ministro del lavoro, Elsa Fornero, il nuovo sistema andrà a regime nel 2017 con la previsione di risorse aggiuntive pari a 1,7-1,8 miliardi:

- introduzione sin da subito di un’assicurazione sociale per l'impiego universale (ASPI), che sostituirà l’indennità di disoccupazione e durerà 12 mesi (fino ad un massimo di 18 mesi per chi ha più di 55 anni). Dovrebbe essere il 75% della retribuzione lorda (oggi l’indennità raggiunge al massimo il 60% e dura 8 mesi fino ad un massimo di 12 per gli over 50) fino a 1.150 euro, e il 25% per la quota superiore a questa cifra, con un tetto di 1.119 euro lordi per il sussidio e con una riduzione dopo i primi sei mesi;

- mantenimento della cassa ordinaria e straordinaria con i contributi attuali, ma con l’esclusione della causale di chiusura dell'attività (resta possibile solo quando è previsto il rientro in azienda);

- introduzione di un fondo solidarietà per lavoratori anziani su base assicurativa, pagato dalle aziende e rivolto a coloro che perdono il posto di lavoro a pochi anni dalla pensione. Le modifiche in questa materia sono quasi tutte condivisibili perché il tema centrale è quello di estendere a tutti i sistemi di protezione sociale. Resta ancora aperta, tuttavia, la questione degli usi impropri di tali mezzi poiché, tanto per dirne una, sulla cassa integrazione straordinaria si poteva e si doveva fare di più ma è comprensibile il motivo per cui questo non è avvenuto. Forse i sindacati non avrebbero retto l’urto di una certa parte dell’opinione pubblica e non sarebbero stati in grado di sostenere la doppia modifica in materia di cassa integrazione e licenziamenti individuali.

Art. 18 statuto dei lavoratori. Il nodo ancora parte riguarda le ipotesi di modifica della normativa in materia di licenziamenti individuali. Sull'articolo 18 il Governo ha proposto di lasciare il reintegro per i soli licenziamenti discriminatori mentre per i disciplinari sarà il giudice a decidere tra il reintegro, nei casi gravi, e una indennità con massimo 27 mensilità, tenendo conto dell'anzianità; per gli economici solo l’indennizzo che va da un minimo di 15 ad un massimo di 27 mensilità dell'ultima retribuzione. Si tratta con tutta evidenza di una disposizione di buon senso che riporta la questione su un binario corretto. Resta identica la disciplina riguardante il reintegro per i licenziamenti discriminatori (discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua e di sesso) mentre cambia quella concernente i casi di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo (oggi per quelli disciplinari se non ci sono violazioni gravi scatta l'obbligo di reintegro mentre per quelli relativi alle crisi aziendali se il lavoratore ricorre al giudice, e questo verifica che la ragione del licenziamento non c'è, si precede al reintegro). Il problema è tutto nell’anti-economicità del reintegro nei licenziamenti per giusta causa e per giustificato motivo perché rappresentano sia un costo eccessivo per i datori di lavoro, oggi in alcuni casi costretti a restare sotto la soglia dei 15 dipendenti per non subire l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, sia una scelta contraria agli interessi dello stesso lavoratore, che deve aspettare le lungaggini della giustizia italiana per poi essere (forse) reintegrato in un posto di lavoro (sempre se ancora esiste) in cui non troverà di certo un ambiente favorevole. Molto meglio, invece, monetizzare la situazione e rimettersi sul mercato senza aspettare 6-7 anni con le braccia conserte come prevede l’attuale normativa.

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