martedì 27 settembre 2011

Ilo e Ocse indicano la strategie contro la disoccupazione



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
martedì 27 settembre 2011

Secondo l'Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro) e l'Ocse (l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), la crisi economica ha bruciato più di 20 milioni di posti di lavoro nei Paesi del G20 e, se persisterà il ritmo di bassa crescita dell'occupazione come in molti di essi, sarà impossibile nel breve periodo recuperare il gap accumulato. L'occupazione dovrebbe crescere almeno dell'1,3% l'anno perché si possa tornare al tasso pre-crisi nel 2015. Se così fosse, si creerebbero circa 21 milioni di posti aggiuntivi per anno, tali da assorbire la disoccupazione accumulata dal 2008 e l'aumento dell'età lavorativa.

Nel mondo ci sono duecento milioni di persone senza lavoro, un dato vicino al picco raggiunto nel periodo della Grande depressione del 1929, e la persistente crisi dell'occupazione si sta traducendo in un cambiamento strutturale caratterizzato da una sempre più alta e crescente disoccupazione giovanile e di lungo-termine. Il segretario generale dell'Ocse, Angel Gurria, e il direttore generale dell'Ilo, Juan Somavia, alla luce di questi dati, hanno lanciano un appello all'attuale presidenza francese del G20 affinché ponga l'occupazione e la tutela sociale al centro delle discussioni politiche globali, insistendo sulla cruciale importanza di fare della creazione di posti di lavoro una priorità.

Secondo il rapporto Ilo/Ocse, i paesi che hanno ancora margini di bilancio dovrebbero dare priorità agli investimenti nel settore delle infrastrutture, mentre laddove le risorse pubbliche sono scarse, ci si dovrebbe concentrare su misure economicamente efficaci per incentivare da un lato l’offerta di lavoro e, dall’altro, per rafforzare i sistemi di protezione per i più deboli. Per quanto riguarda la componente giovanile del mercato del lavoro, occorre puntare sull’apprendistato e l’assistenza nella ricerca di lavoro, onde ridurre il rischio di cadere nel tunnel della disoccupazione di lunga durata e di perdere contatto con il mercato. Bisognerebbe, inoltre, incentivare gli strumenti a sostegno del reddito dei disoccupati cercando di coniugarli efficacemente con i programmi di reimpiego.

Ricapitoliamo. Secondo questi organismi internazionali, le linee guida che dovrebbero seguire i governi per combattere gli effetti negativi della crisi economica sui livelli di occupazione sarebbero: aumentare e stimolare i canali di ingresso nel mercato del lavoro; rafforzare le tutele per i più deboli; mantenere in vita i posti già occupati e legare gli strumenti di protezione del reddito con i programmi di reinserimento nel mondo del lavoro.

La via indicata dall’Ilo e dall’Ocse è con tutta evidenza quella già intrapresa con decisione dal governo italiano in carica sin dalla seconda metà del 2008, che ha rafforzato il nostro sistema di protezione sociale: con interventi normativi (ricordiamo, tra le altre cose, quello a favore dei lavoratori che svolgono attività usuranti) e investendo diversi miliardi di euro per gli ammortizzatori sociali, a tutela dei più deboli, per le imprese dei settori più colpiti e sul fondo strategico; ha puntato anche ad allargare i canali di ingresso nel mercato del lavoro con una serie d’iniziative, come la riforma dell’apprendistato, rientranti nel Piano triennale per il lavoro e nei Piani di azione per l’inclusione delle donne nel mercato del lavoro, per l'occupabilità dei giovani e per l’integrazione delle persone immigrate; ha rivisto il modello nazionale di welfare to work per le politiche di reimpiego con un nuovo piano di intervento.

Altra questione fondamentale è quella del mantenimento dei posti di lavoro già occupati e, in questo ambito la direzione giusta non può che essere quella della cosiddetta «flessibilità contrattata» con le parti sociali, uno strumento utile per combattere la disoccupazione, il lavoro nero e la precarietà. Si tratta di estendere il più possibile quei modelli di accordo già sperimentati per i casi degli stabilimenti Fiat di Pomigliano d’Arco, Mirafiori e Grugliasco che, al momento, sono l’unica via possibile da intraprendere con forza poiché coniuga al meglio la necessaria richiesta di maggiore flessibilità da parte del mercato con la garanzia della salvaguardia dei diritti fondamentali dei lavoratori e, inoltre, nel campo delle relazioni industriali riduce il rischio di innalzare il livello della conflittualità.

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