martedì 17 marzo 2009

Franceschini e la tattica della guerriglia



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

lunedì 16 marzo 2009

Il nuovo segretario del Partito Democratico sembra aver adottato la tattica della guerriglia politica con argomentazioni e proposte da far impallidire perfino i tanti leaders dei partitini di sinistra che, spiazzati dal movimentismo di Franceschini e per la paura di entrare nel cono d'ombra, sono stati costretti a riparare su posizioni ancora più a sinistra, tanto da rispolverare i cimeli di famiglia (comunista) e cioè le care e vecchie statalizzazioni di massa.

Improvvise avanzate, come la proposta dell'assegno di disoccupazione per i lavoratori senza garanzie che perdono il posto di lavoro (senza copertura realistica) o la sortita populista della tassa di solidarietà sui redditi superiori ai 120 mila euro (che produrrebbe un gettito risibile visto che si tratta di poco più di centomila contribuenti), che tanto ricorda lo slogan di Rifondazione Comunista «Anche i ricchi piangono» dopo il varo della Finanziaria 2007, si alternano a rapide ritirate, dove la proposta fatta poco prima svanisce nel calderone delle dichiarazioni e resta nell'aria solo l'eco delle parole di Franceschini che si difende dicendo che la loro utilità è quella di incalzare il Governo.

Se fosse davvero così, ben vengano le proposte costruttive (non quelle che sono state lanciate) su cui discutere e confrontarsi. La realtà, tuttavia, è ben diversa. L'ex vice di Veltroni si ritrova alla testa di un partito che non ha ancora trovato una sua identità politica e culturale e l'essere ondivaghi su certi temi essenziali come la politica economica, il welfare, l'immigrazione, la sicurezza, i diritti civili non aiuta il cittadino ad identificarsi in un progetto. Oggi il Pd, a differenza del PdL, non ha una visione organica su quale futuro proporre alla società italiana ed una posizione chiara, nitida, precisa su tante questioni che attanagliano il quotidiano dei cittadini; il muoversi a scatti, e sotto l'impulso dettato dalle circostanze, non è certo di aiuto se l'obiettivo è quello di proporsi come forza di governo.

Prodi aveva il problema di non essere diretta espressione di un partito e di dover tenere insieme una coalizione in cui anche gli strapuntini reclamavano un posto al sole; Veltroni, invece, si è trovato nella difficile situazione di dover guidare un partito allo sbando in cui la legittimazione della sua leadership è stata frutto più di un fragile ed estemporaneo compresso tra i maggiorenti del partito che di una vera conquista fatta sul campo. Franceschini si trova paradossalmente in una posizione migliore rispetto ai suoi predecessori perché se fallisce nel suo mandato potrà dire di averci provato e che non c'è stato nulla da fare per risollevare le sorti della sua compagine politica, mentre se riuscirà a non perdere troppi consensi alle prossime elezioni europee ed amministrative rafforzerà la sua leadership nei confronti dei maggiorenti del partito e, soprattutto, nei confronti della formazione di Antonio Di Pietro, la vera spina nel fianco del Pd.

Il tema delle alleanze, anche se scansato spesso con fastidio dal nuovo segretario del Pd, è un terreno ineludibile se veramente si vorrà contendere la guida del Paese al centrodestra. Franceschini ha liquidato il tema dicendo che la vocazione maggioritaria del partito non è in discussione e che il nodo delle alleanze verrà sciolto a tempo debito. Le opzioni in campo, a dire il vero, sono davvero poche ed ognuna esclude tutte le altre se non si vuole un remake dell'Unione. Pd e Sinistra, Pd e Di Pietro, (Pd e Udc?) sono tutte ipotesi alternative e concorrenti che delineranno e qualificheranno meglio anche la proposta politica del centrosinistra; quindi, non si tratta di un argomento di poco conto. Al momento, però, Franceschini sembra voler fare tutto da solo e sembra che con le sue sortite voglia in qualche modo rassicurare l'ala sinistra del suo partito. Forse scommette sul definitivo tracollo delle tante formazioni alla sua sinistra e si accinge a raccogliere dentro il suo partito i superstiti di quelle esperienze politiche e parte di quell'elettorato. Ma deve stare attento nello spingersi sempre più a sinistra perché, proprio lui che è un ex Dc di lungo corso, rischia di portare il Pd sulle classiche posizioni dei partiti socialdemocratici. In questo contesto, con buona pace dei cattolici del Pd, l'adesione del partito alla grande famiglia europea del Pse non sarebbe altro che una logica conseguenza di questa scelta di campo.

Nessun commento:

Google