venerdì 21 gennaio 2011

Instabilità e precariato



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
venerdì 21 gennaio 2011

Secondo un recente studio diffuso dall'Istat (Noi Italia. 100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo, 19 gennaio 2011), nel 2009 in Italia il 12,5% dei dipendenti (2,2 milioni di persone) ha un contratto a termine. Il lavoro a tempo determinato è più diffuso tra le donne rispetto agli uomini (con incidenze pari rispettivamente al 14,6 e al 10,8%), e coinvolge soprattutto i giovani e il settore dei servizi. La recente crisi produttiva ha colpito innanzitutto questo tipo di lavoratori: la flessione del lavoro a termine (-171 mila persone) assorbe quasi la metà della complessiva caduta occupazionale del 2009. Questo risultato determina, dopo quattro anni di crescita, la diminuzione dell'incidenza dei dipendenti a termine sul totale dei dipendenti (dal 13,3% del 2008 al 12,5% del 2009).
Nella media dell'Unione europea il 13,5% dei dipendenti ha un contratto a termine (il 12,7% tra gli uomini e il 14,4% tra le donne). L'incidenza del lavoro temporaneo nell'Ue è molto vicina a quella osservata nel nostro Paese, soprattutto con riguardo alla componente femminile. Questo vuol dire che è una balla spaziale la famosa precarizzazione del mondo del lavoro italiano, denunciata da alcune anime candide della sinistra italiana e secondo loro iniziata attraverso il pacchetto Treu e continuata con la legge Biagi. I dati dimostrano come il nostro paese abbia un tasso di incidenza contenuto dei contratti a termine e sia sostanzialmente in linea con quello che avviene nel resto d'Europa; inoltre ha un dato migliore rispetto al tasso di incidenza di questa tipologia contrattuale rispetto alla Francia (13.5%) e alla Germania (14,5%) e peggiore solo rispetto al 5,7% che si registra in Gran Bretagna, dove però, come per esempio avviene negli Usa, è molto più facile per un datore di lavoro licenziare.
Come evidenziato dal Cnel (Rapporto sul mercato del lavoro 2009), quasi un giovane su quattro (il 38,6% nel 2009) è occupato come temporaneo. Lo stesso si osserva anche tra i collaboratori (categoria che include i co.co.co e i prestatori d'opera). Le differenze sono meno nette, ma comunque non trascurabili, per i giovani tra i 25 e i 34 anni. Per il complesso dell'Unione europea, gli occupati temporanei rappresentano poco meno del 14% dei dipendenti totali, ma tale quota sale al 40% considerando solo i giovani. Dove sbaglia chi sbraita a sinistra contro l'instabilità e la precarizzazione del mondo del lavoro in Italia? Sbaglia nel generalizzare la questione e nel non dire alcune cose fondamentali: ci sono fasce di età colpite più duramente di altre dal problema dell'instabilità (molto nella fascia 15-24 anni, meno in quella 25-34 e poco nelle altre); l'ingresso nel mondo del lavoro attraverso i contratti atipici ha creato forme di instabilità ma ha anche permesso di far lavorare chi rischiava di rimanere disoccupato; si tratta di un fenomeno che supera i confini nazionali; instabilità non vuol dire precariato; il precariato, fermo restando che non si ancora arrivati ad una definizione univoca di cosa sia, si forma in genere quando ci si trova nello stesso momento e per un lungo periodo a non avere un contratto di lavoro stabile, a ricevere uno stipendio basso ed essere senza alcuna forma di protezione sociale. Chi generalizza e mette tutto in unico calderone, non ha capito un tubo di quali siano i termini della questione e certamente non sarà in grado di dare contributi realistici al dibattito su cosa si dovrebbe fare per combattere le criticità del mercato del lavoro.
In quest'ottica una delle battaglie fondamentali, che interessa soprattutto chi oggi ha meno di 35/40 anni, non può concentrarsi sull'utopia del posto fisso per tutti, ma sulla richiesta di un sistema di protezione sociale in grado di dare una copertura a chi ne è privo. E oggi le persone che ne sono prive si ritrovano nella stragrande maggioranza dei casi nella fascia degli under 35. L'altra battaglia è quella dell'investimento sulle competenze, dove lo Stato può fare molto (con il rilancio dell'apprendistato e la formazione) ma ovviamente non tutto.

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