martedì 11 gennaio 2011

No alla proposta di legge Sarubbi-Granata sulla cittadinanza



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it
martedì 11 gennaio 2011

Nei giorni scorsi l'on. Fabio Granata (Fli) ha dichiarato che «se la legislatura va avanti, bisogna dare cittadinanza ai giovani di seconda generazione». Ed ha aggiunto: «Quasi un milione di giovani nati in Italia da stranieri regolarmente residenti attendono una legge che li renda cittadini: in Parlamento esiste un'ampia maggioranza che può sostenere la legge Sarubbi/Granata. Nel 150° anniversario dell'unità d'Italia, sarebbe un segnale storico per l'Italia e per chi la ama». La proposta di legge in questione è l'atto Camera n. 2670, recante modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza.

L'attuale legge in materia di cittadinanza (legge 5 febbraio 1992, n. 91) dispone che lo straniero nato in Italia, che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età, diviene cittadino se dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana entro un anno dalla suddetta data (art. 4, comma 2). La normativa, quindi, dispone che la cittadinanza italiana si acquisisce su esplicita volontà del richiedente (non si tratta di un'acquisizione automatica) ed alla presenza di alcuni requisiti fondamentali. La proposta di legge Sarubbi/Granata, invece, dispone che diviene cittadino italiano lo straniero nato o entrato in Italia entro il quinto anno di età, che vi abbia risieduto legalmente fino al raggiungimento della maggiore età, salvo che non esprima esplicito rifiuto; è richiesta al soggetto una scelta qualora la legislazione del Paese di origine non lo consenta. Nel caso in cui questa proposta divenisse legge, si passerebbe da un'acquisizione della cittadinanza su richiesta da parte dello straniero ad una procedura automatica.

Il problema, in questo caso, è che si tratta la cittadinanza come se fosse un semplice pezzo di carta e non un qualcosa di più profondo. L'espressa richiesta da parte dello straniero di avviare la procedura prevista dall'attuale normativa, in contrasto con l'acquisizione automatica, trova il suo fondamento nel fatto che, attraverso questo atto spontaneo ed esplicito, si dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana dopo un reale percorso di integrazione. Non si tratta, quindi, di un atto qualsiasi, che magari potrebbe essere sostituito con un automatismo senza colpo ferire, ma di un passaggio delicato che sancisce la fine di un processo attraverso il quale l'individuo diventa parte integrante di un sistema sociale, aderendo ai valori che ne definiscono l'ordine normativo.

Un altro punto controverso di questa proposta di legge è la disposizione che prevede che acquista la cittadinanza italiana, su propria istanza, a certe condizioni, con decreto del presidente della Repubblica, su proposta del ministro dell'Interno, lo straniero che da almeno cinque anni soggiorna legalmente nel territorio della Repubblica. E' prevista, di conseguenza, l'abrogazione dell'attuale normativa che di anni, invece, ne prevede dieci (art. 9, comma 1, lettera f, legge 5 febbraio 1992, n. 91). Qui non si capisce bene quale sia il concetto che sostiene la necessità di dimezzare i tempi per la naturalizzazione. La premessa della proposta di legge sostiene che un arco temporale molto lungo impedisce, di fatto, che l'acquisizione a pieno titolo dei diritti civili legati alla cittadinanza diventi un obiettivo che il cittadino straniero residente in Italia reputa davvero perseguibile. Non è affatto così. I dati dimostrano che, anche quando l'obiettivo è a portata di mano, per la maggior parte degli stranieri non è appetibile. Secondo l'Istat (La popolazione straniera residente in Italia al 1° gennaio 2007, 2 ottobre 2007) «la maggior parte delle acquisizioni di cittadinanza italiana avviene ancora oggi per matrimonio: poiché i matrimoni misti si celebrano prevalentemente fra donne straniere e uomini italiani, tra i nuovi cittadini italiani sono più numerose le donne. Le concessioni della cittadinanza italiana per naturalizzazione, invece, sono ancora poco frequenti, specialmente se confrontate con il bacino degli stranieri potenzialmente in possesso del requisito principale e cioè la residenza continuativa per 10 anni».

Più di uno straniero su quattro è regolarmente presente in Italia da oltre un decennio e, quindi, in possesso del requisito della residenza continuativa decennale. In pratica, stando ai dati (anno 2007), su circa 633 mila aventi diritto solo 35 mila ne hanno fatto richiesta, e in questa cifra si contano anche le acquisizioni per matrimonio. Uno studio Istat ancora più recente, elaborando i dati forniti dal ministero dell'Interno, aggiunge che le concessioni di cittadinanza italiana sono state poco meno di 40.000 nel 2008, un numero in contenuta crescita rispetto al 2007, dopo il forte incremento registrato nel 2006 (Noi Italia - 100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo, Popolazione straniera, 2010). Ed è proprio per questi stessi motivi che sbaglia la fondazione Migrantes a spingere per la riduzione dei tempi di attesa da 10 a 5 anni, per l'allargamento dello ius soli per i figli degli immigrati (oggi 600 mila in tutto il Paese, con 70 mila nuove nascite all'anno) e per l'accesso al voto amministrativo per gli stranieri. Perché diminuire il dato temporale da 10 a 5 anni per acquisire la cittadinanza italiana, raddoppiando la platea degli aventi diritto, se gli stessi stranieri che hanno i requisiti non la richiedono? Sarebbe un atto senza senso e non supportato da quella che è la realtà. E cosa vuol dire allargare lo ius soli per i figli degli immigrati? Se vuol dire introdurre meccanismi automatici che non contemplino un atto esplicito e volontario per acquisire la cittadinanza, allora no. Anche perché si parla tanto di integrazione e poi si vuole trasformare il ruolo dello straniero in questo delicato percorso da parte attiva, che decide in piena autonomia, a soggetto passivo.

Molto negativa anche la proposta del voto amministrativo per gli immigrati. In materia è stato posto un punto fermo dal Parere del Consiglio di Stato - Sezioni I e II - n.11074/04, espresso nell'adunanza del 6 luglio 2005 in relazione ad una specifica richiesta formulata da parte del ministero dell'Interno, già destinatario di un precedente Parere sulla medesima questione della Sezione Seconda del Consiglio di Stato. I giudici giustamente osservarono come gli articoli 48 e 51 della Costituzione coniughino espressamente con la cittadinanza il diritto di elettorato e di accesso agli uffici ed alle cariche pubbliche e come l'articolo 117 della Carta costituzionale riservi alla legislazione esclusiva dello Stato le materie della «condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all'Unione Europea», della «immigrazione» e della «legislazione elettorale» di Comuni, Province e Città metropolitane. In questo chiarissimo quadro normativo di riferimento, il Consiglio di Stato è pervenuto alla conclusione che l'ammissione degli stranieri al voto per le elezioni circoscrizionali possa configurarsi solo in presenza di una delle seguenti condizioni alternative: che l'ordinamento statale, il solo competente, provveda al relativo riconoscimento, ovvero che «le circoscrizioni possano essere espunte dal novero degli organi e degli uffici pubblici comunali». Entrambe le condizioni non risultano però riscontrabili nell'attuale ordinamento vigente ed in particolare non rinvenibili nel Testo Unico delle leggi sull'Ordinamento degli Enti Locali D.Lgs. 267 del 2000, articoli 8 e 17, e neppure nell'articolo 9 del D. Lgs. 286 del 1998 che disciplina lo status dello straniero in Italia. Il Parere espresso dalle sezioni consultive del Consiglio di Stato concludeva affermando che «deve escludersi che i diritti politici, nei quali si inquadra agevolmente il diritto di voto nelle elezioni amministrative, possano avere un contenuto differenziato nell'ambito della Repubblica», come conseguirebbe al riconoscimento di una competenza in materia al singolo ente locale e, con riguardo alle elezioni circoscrizionali, alla circostanza che esse possono riguardare soltanto i comuni di più elevata dimensione demografica (approndimento)

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