giovedì 2 luglio 2009

International Migration Outlook Ocse/Sopemi 2009: crisi economica e immigrazione


di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

giovedì 02 luglio 2009

Secondo l'International Migration Outlook Occse/Sopemi 2009, presentato martedì 30 giugno, «l'immigrazione netta ha registrato una tendenza al ribasso nel corso dell'ultima flessione economica a causa della minore richiesta da parte delle aziende, del minor numero di opportunità di lavoro e delle politiche di migrazione via via modificate dai governi al fine di ridurre gli ingressi, per esempio fissando limiti numerici più bassi sull'immigrazione di manodopera, laddove tali limiti erano previsti, oppure non includendo più determinate occupazioni come soggette a penuria di manodopera. (...) I paesi in cui la crisi ha colpito prima mostrano un significativo incremento dei tassi di disoccupazione e una certa diminuzione del tasso di occupazione degli immigrati, sia in termini assoluti che relativi, rispetto alla popolazione nativa. Gli immigrati tendono a essere colpiti più duramente rispetto ai nativi per diverse ragioni, tra le quali un'eccessiva presenza in settori ciclicamente sensibili, una minore tutela contrattuale e assunzioni e licenziamenti selettivi. Inoltre, sia gli immigrati in arrivo, sia coloro che hanno perso il lavoro durante la crisi sembrano avere particolari difficoltà a entrare o a rientrare tra le fila degli occupati, a tempo indeterminato».

Lo studio dell'Ocse non fa che confermare un dato oramai assodato, e cioè che i sistemi produttivi occidentali spesso usano la manodopera a basso costo dei lavoratori immigrati per rispondere in maniera impropria alle sfide dettate dalla globalizzazione e quando non ne hanno più bisogno la scaricano senza troppi complimenti. Già l'International Migration Outlook 2008, infatti, segnalava che gli immigrati guadagnano meno dei lavoratori nazionali, eccetto in Australia. Negli Stati Uniti gli immigrati guadagnano in media circa il 20% in meno, e il 15% in meno nei Paesi Bassi. Il divario retributivo tra immigrati e lavoratori nazionali tende ad essere meno accentuato del divario retributivo tra uomini e donne.

Le indicazioni emerse sembrano confermare che il mercato del lavoro retribuisca meglio l'esperienza e le qualifiche dei lavoratori provenienti da paesi membri, valutate in base agli anni di residenza. Gli immigrati provenienti da paesi non membri guadagnano invece molto di meno. Per contro, gli immigrati che sono stati naturalizzati guadagnano di più, indipendentemente dagli anni di residenza. I vantaggi di questa operazione vanno ovviamente a pochi intimi mentre i costi sociali li devono pagare tutti.

Infatti il Rapporto 2009 pone l'accento sul fatto che favorire l'ingresso di lavoratori stranieri scarsamente qualificati è una scelta politica che deve essere adeguatamente ponderata alla luce dei costi e dei benefici per il paese ospitante. In pratica molti paesi hanno considerato l'opportunità di aprire canali migratori per occupazioni meno specializzate. È sempre più accettata l'idea secondo cui offrire possibilità d'ingresso legale limitate per le occupazioni a bassa specializzazione in presenza di una forte domanda in tal senso possa creare un terreno fertile per l'immigrazione clandestina e che adottare una simile politica potrebbe rivelarsi difficile e dispendioso. Qualificare con appositi programmi di cooperazione la forza-lavoro straniera ridurrebbe il rischio che soggetti senza scrupoli, operanti nel sistema produttivo nazionale, usino la stessa per abbassare il costo e la qualità del lavoro nel mercato. Dequalificare il mercato del lavoro nazionale, riempendolo di manodopera straniera a basso costo, determinerebbe una serie di ricadute negative in termini di concorrenza al ribasso, sia salariale che qualitativa, tra lavoratori immigrati e forza lavoro italiana. Senza contare, inoltre, che operazioni del genere non farebbero altro che rendere ancora più difficile il clima nel mercato del lavoro tra stranieri e autoctoni già particolarmente teso, come dimostrano le pulsioni anti-straniere, da parte dei lavoratori autoctoni, in mercati del lavoro storicamente pieni di immigrati come quello inglese (contro una ditta italiana) o francese (la famosa sindrome dell'idraulico polacco). Se un sistema produttivo occidentale cerca di rispondere alla concorrenza cinese nel mercato globale attraverso i loro stessi strumenti, e cioè prodotti a basso costo e scarsa qualità frutto di lavoro mal pagato e dequalificato, allora vuol dire che la sfida è stata già persa in partenza. Non si può rispondere alla concorrenza del made in China creando nei nostri territori le condizione del mercato del lavoro cinese. Bisogna, invece, puntare con decisione sul progresso tecnologico e la formazione professionale, anche nei confronti dei lavoratori stranieri che rischiano di essere il punto debole del sistema.

Si sottolinea ancora nel Rapporto 2009 che: «L'esigenza di una gestione generalizzata dell'immigrazione di manodopera non viene meno come conseguenza della crisi. In alcuni settori persiste la penuria ed è possibile prevedere l'arrivo di flussi più massicci a partire dalla ripresa. Questi ultimi potranno essere gestiti solo se i paesi adotteranno una prospettiva di ampio respiro sul lungo termine. Occorre sviluppare politiche che modulino l'immigrazione in base alle esigenze di manodopera, che mirino a ridurre i movimenti irregolari e che promuovano una migliore integrazione a lungo termine degli immigrati e dei loro figli». E' proprio l'azione dei governi in materia, secondo una «prospettiva di ampio respiro sul lungo termine», il nodo centrale della questione che, certamente, non può essere informato al principio secondo cui le politiche di ingresso debbano essere modulate in base alle sole esigenze di manodopera del paese ospitante.

Occorrerebbe, invece, partire da una prospettiva molto più ampia, che metta al centro della questione l'immigrato in quanto persona, in modo tale da evitare che le politiche sul tema non si basino solo sulle richieste del mercato del lavoro. L'immigrato-lavoratore non scompare una volta terminato il proprio working time e, ovviamente, ha esigenze che vanno al di là del solo ambito lavorativo; e a queste esigenze occorre dare delle risposte. Questa visione più ampia del tema porta a modulare le politiche di ingresso degli Stati nazionali non solo sull'offerta di posti di lavoro del paese ospitante ma anche su altri dati che riguardano il mondo della scuola, la sanità, il welfare state, le politiche abitative e i servizi specifici per gli immigrati erogati dalle varie articolazioni della pubblica amministrazione. Una politica dell'accoglienza sostenibile certamente non può che agevolare il difficile percorso verso l'integrazione di queste persone e, inoltre, ha il pregio di non alimentare ulteriori conflitti tra cittadini e immigrati, oltre a quelli fisiologici dettati dalla convivenza tra persone culturalmente diverse.

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