giovedì 22 aprile 2010

Le deboli proposte del Pd in tema di immigrazione



di Antonio Maglietta
maglietta@ragionpolitica.it

mercoledì 21 aprile 2010

La crisi economica colpisce duramente anche i lavoratori stranieri in Italia e sulla base di questo semplice ragionamento il Pd ha presentato martedì 20 aprile al Senato, in una conferenza stampa organizzata in collaborazione con il Comitato immigrati in Italia, un disegno di legge, firmato da 36 senatori, che propone di consentire una proroga biennale del permesso di soggiorno agli immigrati che perdono il lavoro. «Questa proposta - ha spiegato Roberto Della Seta, primo firmatario del ddl - nasce dalla sollecitazione delle associazioni dei cittadini e dei lavoratori stranieri in Italia». Il fine del ddl, ha spiegato un altro senatore democratico, Francesco Ferrante, è «dare loro il tempo di trovare un altro lavoro. Evitare che al danno della disoccupazione se ne sommi uno più grave, quello di dover lasciare il Paese dove vivono, magari con le loro famiglie da anni». La proposta «è una cosa urgente - ha detto a sua volta Edgar Galiano del Comitato immigrati - risponde a un bisogno vero: c'è gente che sta qua da trentacinque anni e rischia di diventare clandestina nel giro di sei mesi. L'esplosione sociale che potrebbe venire sarebbe responsabilità del Governo o di chi non accettasse di firmare questa proposta».

Innanzitutto bisogna chiarire alcuni punti ben precisi, e cioè che se un immigrato vive da 35 anni in Italia può benissimo chiedere la cittadinanza e che la crisi colpisce tutti indistintamente, italiani ed immigrati. Fatta questa premessa, va detto che alcuni studi molto autorevoli, come ad esempio l'International Migration Outlook Occse/Sopemi 2009, segnalano che «i paesi in cui la crisi ha colpito prima mostrano un significativo incremento dei tassi di disoccupazione e una certa diminuzione del tasso di occupazione degli immigrati, sia in termini assoluti che relativi, rispetto alla popolazione nativa. Gli immigrati tendono a essere colpiti più duramente rispetto ai nativi per diverse ragioni, tra le quali un'eccessiva presenza in settori ciclicamente sensibili, una minore tutela contrattuale e assunzioni e licenziamenti selettivi. Inoltre, sia gli immigrati in arrivo, sia coloro che hanno perso il lavoro durante la crisi sembrano avere particolari difficoltà a entrare o a rientrare tra le fila degli occupati, a tempo indeterminato».

Questa deplorevole situazione è stata creata in maniera irresponsabile dal circuito produttivo che usa la leva dell'immigrazione per rispondere impropriamente alle sfide dettate dalla globalizzazione. Il sistema economico tende ad abbattere selvaggiamente il costo del lavoro e a comprimere sostanzialmente i diritti dei lavoratori alimentando la concorrenza nel mercato tra immigrati e autoctoni. I lavoratori immigrati, quindi, sono prima sfruttati a fini economici e poi lasciati al loro destino nei momenti di crisi. Questa situazione, com'è ovvio che sia, crea tensioni sociali perché ingenera nella popolazione un forte senso d'insicurezza (con certi salari non si arriva alla fine del mese e, con i miseri contributi versati, non si riesce a creare una pensione sufficiente per guardare alla vecchiaia con serenità) e mira all'arricchimento improprio di pochi a discapito dei molti che devono invece sostenere i costi sociali di quest'operazione. Oltre al danno, quindi, la beffa.

La risposta a questa situazione indecente, che ripetiamo, colpisce seppur con forme diverse tanto gli stranieri quanto gli autoctoni, non può essere certamente quella avanzata da alcuni senatori del Partito democratico. Innanzitutto non si capisce con quali mezzi economici si potrebbero mantenere queste persone giacché si propone l'allungamento del permesso di soggiorno senza prevedere al contempo alcuna copertura economica. Le disposizioni comunitarie, inoltre, già prevedono che addirittura il periodo tra la decisione di rimpatrio e la partenza volontaria (dai sette ai trenta giorni) possa essere prorogato dagli Stati membri tenendo conto delle circostanze specifiche del singolo caso, quali la durata del soggiorno, l'esistenza di figli che frequentano la scuola e l'esistenza di altri legami familiari e sociali. Senza considerare, inoltre, che in alcuni paesi, come la Spagna ad esempio, ai lavoratori stranieri che avevano perso il posto di lavoro a causa della crisi economica, è stato offerto una sorta di bonus per incentivare il loro rientro nella terra natia, mentre in altri, come il Regno Unito, intendono rimpatriare anche gli immigrati comunitari se questi non hanno mezzi di sostentamento. Per la cronaca è opportuno aggiungere che il piano del governo spagnolo è miseramente fallito giacché solo 1.000 immigrati disoccupati extracomunitari in Spagna hanno aderito al piano di rientro volontario nei paesi di origine promosso alla fine del 2008, mentre il progetto del Regno Unito è partito in forma sperimentale e al momento è circoscritto alla sola cittadina di Peterborough.

Questi esempi concreti di come viene affrontato all'estero lo stesso problema inerente il tema dell'impatto della crisi economica sulla forza lavoro straniera ci mostrano come non esiste una via maestra da seguire. Il problema, in linea teorica, potrebbe essere affrontato in due modi e cioè applicando da un lato, con buon senso e raziocinio, le vigenti disposizioni in materia di proroga del periodo di permanenza sul territorio nazionale e di allontanamento (e respingimento alla frontiera - cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, decisione 31.03.2009 n. 1887) dal territorio nazionale degli stranieri privi di sufficienti mezzi di sostentamento e inserendo nell'ambito della riforma del welfare state nazionale il tema della creazione di un sistema universale di ammortizzatori sociali dove ognuno si paga il proprio paracadute sociale.

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